L'invenzione della mente
Tiziano Scarpa
27 Marzo 2023
Il cammino verso l'impossibile è lastricato di tentazioni della contemporaneità, le interferenze. Per fortuna, si può sempre contare sugli amici...
È possibile aspirare all’impossibile? O tutto è diventato impossibile proprio per eccesso di possibilità? Sono andato a chiederlo al mio vecchio amico Antonio.
Tanti anni fa, come lui, sono stato un eremita anch’io. Avevo vent’anni, ero depresso e non lo sapevo. Decisi di escludermi dal consorzio umano, restando esattamente dov’ero. Stessa città, stessa casa. Ma con una differenza sostanziale: “Da oggi in poi, avrò soltanto rapporti economici – mi dissi. – Vedrò solo le persone che mi pagano”.
Smisi di frequentare chiunque, tranne quelli per cui lavoravo. Entravo nelle case dei liceali, ragazzi di qualche anno più giovani di me (oggi li considero miei coetanei); gli davo ripetizioni di latino, greco, filosofia. E poi avevo accesso ai ripostigli ammuffiti, dietro gli androni dei condomìni: prendevo scopa, secchio, stracci e spazzolone, lavavo le scale. Lavoretti procacciati col passaparola; era fatale che ne sortisse qualche coincidenza: e infatti, in un condominio in cui facevo le pulizie abitava uno degli allievi a cui davo ripetizioni. La persona che saliva a spiegargli i participi aoristi al terzo piano era la stessa che scrostava l’atrio infangato della sua palazzina.
Stringevo un bavaglio su naso e bocca, senza starnuti mentre spazzavo le rampe, su e giù nell’aria satura di polvere. Sgomberavo i pianerottoli appoggiando gli zerbini in verticale sulle porte d’ingresso, per non inzupparli d’acqua e detergenti. L’odore della varecchina mi disinfettava il respiro. Per rifinire il lavoro, fuori, in strada, la cremina liquida del Sidol provocava due effetti simultanei, faceva brillare i campanelli di ottone e insudiciava le pezzuole che usavo per strofinarli, mi orlava di chimismi verdastri le unghie.
Ero solo. Ero giù di corda. Ero assorto. Facevo attenzione alle cose. Accalcavo pensiero negli oggetti e nei gesti. Ponevo mente (un’espressione che mi è sempre piaciuta).
Le pulizie sono una meditazione operativa. Nel suo diario, Tolstoj racconta di avere appena fatto le pulizie di casa, ma un minuto dopo avere finito di rassettare il salotto non si ricorda già più se ha tolto la polvere dal divano oppure no, perché mentre lo faceva non ci aveva fatto caso (è una pagina famosa, la riporta Viktor Šklovskij nel suo saggio sullo straniamento).
Rispetto alla pochezza di quel fatterello, Tolstoj ne ricava una riflessione spropositata. Si rende conto di non essersi reso conto di pulire il divano mentre lo puliva: perciò, “se tutta la complessa vita di molti passa inconsapevolmente, allora è come se non ci fosse mai stata”. Se non ti ricordi i dettagli dei pianerottoli e del Sidol, è come se non avessi vissuto. Sei slittato sopra questo mondo senza fare attrito, lo si vede da come non hai pensato gli zerbini e i campanelli di ottone mentre li affrontavi, da quanto non ci hai posto mente.
Baravo. Non ero veramente solo. Potevo contare sulla compagnia dei solitari come me: i monaci, sia anacoreti che cenobiti, che interpellavo senza disturbarli di persona. Li leggevo. Mi appassionai ai Padri del Deserto. Arsenio, Cronio, Elladio, Euprepio, Gelasio, Ilarione, Motio, Nicone, Pambone, Serapione, Spiridione, Sincletica. Bastavano i nomi, inospiti e irti, a testimoniare la loro incompatibilità con gli altri esseri umani. Mi stavano simpatici. Ci capivamo al volo. Secessionisti sociali, fratelli di misantropia (un paradosso) e di delusione per il genere umano.
Prima di entrare in quella clandestinità mondana, scrissi una cartolina al mio amico più caro. Gli annunciai che stavo per traslocare in un deserto interiore, popolato di eremiti e stiliti.
«Attento ai leoni!», mi rispose.
I leoni. Ho ritrovato un passo che avevo sottolineato nelle mie letture di allora. Un monaco fa visita a Isidoro Presbitero e lo invita a mangiare qualcosa insieme. Isidoro non vuole uscire dalla sua cella monastica. “Hai paura?”, gli chiede l’altro. “Sì – risponde Isidoro – perché là fuori il diavolo, come un leone che ruggisce, si aggira cercando chi divorare”. Aggiunge che le insidie peggiori sono quelle dei pensieri; basta un po’ di vino a sprigionarli. E quindi: stare da soli il più possibile, a dominare i propri pensieri. Non lasciare che prendano il sopravvento. E non permettere che gli altri inneschino in noi occasioni di distrazione, dispersione, perdizione. Va’, va’ a mangiare senza di me. Il leone sei tu che mi inviti a pranzo. Io rimango qui dentro, non mi muovo. Smettila di ruggire con questa voce fraterna che mi vuole divorare.
“Prima di entrare in quella clandestinità mondana, scrissi una cartolina al mio amico più caro. Gli annunciai che stavo per traslocare in un deserto interiore, popolato di eremiti e stiliti”.
Il mio isolamento durò qualche mese. Un’estate nera. Sole tetro. Poi ripresero i corsi, le lezioni all’università, le studentesse con cui scambiare timidamente qualche poesia, di nascosto da tutti.
Antonio vive a Lisbona, abita in un trittico conservato nel Museu Nacional de Arte Antiga. Quest’anno è venuto a Milano, a Palazzo Reale, nella mostra Heronymus Bosch e l’altro Rinascimento. Non si è messo in viaggio da sé. È stato trasportato. Non è la prima volta. Nel pannello di sinistra del trittico è sballottato per aria dai demoni. E anche questa volta deve essere passato a prelevarlo qualche spirito malefico, un drappello di diavoli camuffati da storici dell’arte, curatori di mostre, imballatori, registrar, exhibition designer, installatori, assessori alla cultura.
Io gli ho fatto visita nel pannello centrale, era lì che volevo incontrarlo.
Antonio si trova al centro esatto del dipinto; tirando le due diagonali si incrocia la sua faccia. È inginocchiato davanti a un muretto, su una piattaforma che poggia su un acquitrino. A giudicare dalla posizione del suo corpo, si è messo lì per puntare lo sguardo su una nicchia che gli sta di fronte, a sei o sette metri da lui: è una cavità che si trova in fondo a un edificio sgretolato, di cui rimangono in piedi quella specie di abside e un obelisco mezzo demolito. Nella nicchia c’è un crocefisso, una candela accesa; accanto alla candela, si intravede Gesù in persona, in piedi, che benedice la propria croce.
La mostra è affollata, tutti i visitatori sono lì per Antonio. Con discrezione mi avvicino, mi faccio sentire, lo chiamo per nome. Lui si volta, mi guarda dal centro del dipinto, e dice: “Ero venuto qui per tenere gli occhi fissi su Gesù. E invece, guarda in che caos di mostri e demoni mi sono ficcato. Pensa un po’ che fesso”.
Io non sono un contemplatore di Gesù, non sono un suo devoto. Ma la mia forma di vita somiglia a quella di Antonio. Anch’io tengo gli occhi fissi su un punto: l’opera, sempre l’opera, soltanto l’opera a cui dare forma. Il libro da scrivere. È questo il mio primum, la mia condanna e il mio sollievo.
Capita anche a voi? Non mi interessa. Non sono qui per farmi compatire, né per descrivermi come speciale o per sentirmi meno solo. Io so soltanto che non vivo bene se non do forma a qualcosa di impegnativo, a un progetto ambizioso. Altrimenti mi sembra di sprecare la vita, anche quando mi dedico con zelo a cose più piccole, magari anche fatte bene, articoli, prefazioni, testi per cataloghi, racconti su commissione, o un saggetto a richiesta, possibilmente pertinente al tema l’impossibile possibile. Quando morirò, proverò un sentimento simile a un giudizio universale di me stesso e, per soppesare la mia vita, uno dei primi criteri sarà se avrò dato forma alle opere che avevo in animo di scrivere.
Il saggio di Wilhelm Fraenger su Bosch l’ho letto, ho ben presente che la sarabanda di mostri e turpitudini che incrostano le Tentazioni di Sant’Antonio hanno tutte un significato preciso. Allegorie, allusioni, allergeni occulti. Secondo Fraenger rimandano al credo di Jacob van Almaengien, Gran Maestro della comunità adamitica dei fratelli e sorelle del Libero Spirito.
Oppure potrei accontentarmi di una lettura psichedelica. In fin dei conti Bosch ce l’ha pur messa, una bacca gigante di mandragora, in primo piano, in basso a sinistra: un frutto squarciato da cui escono ibridi, brividi, obbrobri: “il suo alcaloide provoca vertigini, deliri, incubi e attacchi di ballo di San Vito”, spiega Fraenger. E ricorda che “il termine greco per la mandragora è kirkéia, l’erba di Circe, la maga dell’Odissea“; quella che ha trasformato in maiali i compagni di Ulisse: li ha fatti sballare con le sue droghe. Con facile malizia si potrebbe liquidare Antonio come un tossicomane, o uno che per sbadataggine, nella grama dieta da eremita, ha piluccato dagli arbusti desertici qualche bacca sbagliata. Desert to desert, funk to funky, we know Saint Tony’s a junkie.
Invece Antonio significa me. Risucchia le mie proiezioni, consapevolmente infondate, idiosincratiche, personali. Intanto perché è ridicolo. Era andato nel deserto per dedicarsi alla sua unica passione, tenere lo sguardo fisso sul suo fuoco, l’adorato ed esigente Gesù. Cercava la desolazione, ha trovato la popolazione. Voleva la solitudine ascetica, è capitato nel folto della città dei demoni. Non sono la malnutrizione e l’igiene sommaria i suoi tormenti, gli strazi dei rovi, le croste, la scabbia, la tigna, l’impetigine dermica, le unghie rotte, le ecchimosi da decubito sassoso.
Questo santo è una specie di martire comico, un personaggio farsesco, che viene punito con una penitenza da pochade. Desiderava l’assoluto del silenzio. È finito in un casino totale.
Ho scritto “casino” a ragion veduta. Non è una trivialità. È una descrizione oggettiva. I grugni, i grumi, i grifi ributtanti che imperversano attorno a lui si sentono in diritto di comportarsi come in un bordello, nel peggior modo possibile, dando sfogo alla loro indole. Non gli portano rispetto, lo sbeffeggiano, fanno vacillare la fiducia di Antonio in sé stesso perché lo trattano come qualcuno che non sta facendo una cosa seria; lo fanno sentire senza dignità. Ma, soprattutto, possono essere quello che sono, sguaiarsi nella maniera più scostumata. Non tanto sessualmente, ma biologicamente, organicamente.
Un cavaliere ha un cardo spinoso al posto della testa; l’addome del suo cavallo è un’anfora, mesce piscio dall’imboccatura anale protrusa, esplosa. La vecchia donna-corteccia ninna un lattante fra i rami secchi delle dita, al posto delle gambe ha una coda ittica, squamosa, cavalca un ratto gigante – interrompo subito la lista, dovrei andare avanti per pagine e pagine, ce n’è a mucchi.
Nessuno impedisce a tutti costoro di spingersi fino ai limiti della forma vivente e oltrepassarla: traboccano sconfinando in metamorfosi e innesti assurdi: sono entelechie senza fondo: il compimento incessante di una possibilità assoluta che trascende sé stessa all’infinito: qualunque impasto animale e vegetale possa essere concepito, loro lo attuano: lo realizzano. Attorno ad Antonio imperversa il bordello delle forme.
“Capisci? – mi dice Antonio. – E io sono venuto a vivere proprio qui!”
Il trittico si intitola Le tentazioni di Sant’Antonio: a questa dicitura siamo abituati ad attribuire un senso superficiale. Quali tentazioni? Be’, i sette peccati capitali, no? Prima di tutto la lussuria, e poi gli altri sei (anche Flaubert li passa in rassegna, nella sua versione delle Tentazioni, ma li sbriga all’inizio, come per pagare un pedaggio; poi fa affrontare ad Antonio ben altro, tutte le eresie e le divinità fantasticate nella Storia dagli esseri umani. Verso la fine però la lussuria torna, insieme alla morte, e gli dice: “sono l’onnipotente!”).
Fosse per me, il dipinto di Bosch lo chiamerei La situazione di Antonio (senza “santo” perché qui non ha l’aureola – Gesù, sì). È questo il titolo più adeguato: non tentazione, ma situazione; la quale spicca nel pannello centrale, quello che mi strugge. Non mi coinvolgono così tanto i pannelli laterali, nemmeno quello di destra, dove Antonio sta leggendo un libro, e di fronte a lui si sbracano nudità e sconcezze buffe e spaventose.
“Questo santo è una specie di martire comico, un personaggio farsesco, che viene punito con una penitenza da pochade. Desiderava l’assoluto del silenzio. È finito in un casino totale”.
Eppure il pannello di destra dovrebbe essere il più suggestivo per chi come me ha a che fare con i libri: in quell’immagine c’è la visione che scaturisce dalla lettura, che però, forse, a pensarci bene è una visione che impedisce la lettura; l’inestricabilità fra le due visioni – quella governata dal linguaggio e quella anarchica che sorge come un’erbaccia incontenibile fra i solchi regolari, seminati di alfabeto – io la conosco bene. Scrivendo, pratico la messa-in-forma linguistica delle mie visioni: forse per arginarle, forse per scatenarne tutt’altre, indipendenti da me. E allora come mai mi interessa di più l’Antonio del pannello centrale?
Qualche anno fa scambiai un paio di lettere con un vecchio intellettuale che non sentivo da tempo. Mi sarebbe piaciuto riavviare con lui un confronto sulla scrittura. Mi rispose che non riusciva a entrare nei miei problemi, perché lui aveva abbandonato da decenni l’idea di dare forma a un’opera: preferiva muoversi per accensioni episodiche, senza progetto; brevi saggi, affondi giornalistici. Fu una risposta che mi lasciò di stucco, per come chiudeva drasticamente il nostro dialogo.
Però adesso, guardando il povero Antonio, buttato lì in mezzo alla mischia, mi chiedo: e se avesse ragione quel vecchio intellettuale? Se Antonio facesse meglio ad alzarsi e mettersi a girellare, invece di starsene lì inginocchiato? Se si avvicinasse alla nicchia, ringraziasse Gesù per averlo attirato in quel posto così interessante, e poi, preso un secchio di cemento, un mucchio di mattoni e una cazzuola, lo murasse lì dentro, per voltargli definitivamente le spalle e dedicarsi alla conoscenza dei demoni? Non tanto per allinearsi alla vecchia boutade di Mark Twain (“I would choose Heaven for the climate, Hell for the company“), ma perché forse anche nell’arte e nella letteratura la verità sta nella distrazione, nella divagazione, nella casualità, in quella che una volta si chiamava “poesia d’occasione”.
Prendere sul serio le circostanze in cui mi ha conficcato il destino, non snobbarle considerando più importanti le mie priorità. Abbandonarsi al flusso. Come nell’ultima, meravigliosa battuta di Antonio nel testo di Flaubert: “Vorrei volare, nuotare, abbaiare, muggire, urlare. Vorrei avere le ali, un guscio, una scorza, soffiare del fumo, avere una proboscide, torcere il corpo, dividermi ovunque, essere in ogni cosa, emanarmi con gli odori, svilupparmi come le piante, fluire come l’acqua, vibrare come il suono, splendere come la luce, nascondermi in tutte le forme, penetrare ogni atomo, scendere fino al fondo della materia, essere la materia!”
Nel dipinto di Bosch, la figurina di Gesù è minuscola. Mostra quanto sia piccolo il bersaglio concesso all’attenzione, come sia difficile centrarlo concentrandosi su di esso. La nicchietta si perde in quella baraonda. Per la verità, una larga fascia di pittura bruna la circonda per isolarla e proteggerla dalla contaminazione con la blasfemia del mondo, che, al confronto, occupa una superficie enorme.
Antonio quella protezione non ce l’ha, è immerso nella bagarre. Gesù per lui è il baricentro, ma è anche il baticentro, il punto focale della profondità; non tanto perché Gesù si trova in posizione prospettica, in fondo a una piccola fuga di archi e cavità successive, ma perché Antonio quel punto lo ha scelto, l’ha puntato, l’ha scavato con lo sguardo, per farlo diventare il suo abisso orizzontale, l’oltrepassamento, l’inoltro di sé.
Forse Bosch ha colto Antonio nel momento in cui sta cedendo alla tentazione, e nel farlo acquisisce una saggezza più alta, più capiente del suo stesso Salvatore. Gesù benedice il proprio crocefisso, compiaciuto dell’opera che ha compito sulla Terra: la approva. Ha salvato tutti, è riuscito a compiere la sua missione impossibile. Antonio, a distanza, ripete lo stesso identico gesto; solo che intorno a lui non ci sono crocefissi, ma abomini e canaglie. Li sta benedicendo. Sta accogliendo in sé il baccano, il baccanale, la bacca sbagliata del mondo. L’ha capita, la compiange, la perdona. Non è più la vittima dei demoni. Ne è diventato il mansueto condottiero.
Vivo nell’interferenza. Consulto il mio schermetto per verificare una citazione, e vengo catturato dalla lista di argomenti più cercati su Google, mi incuriosisco, clicco, mi metto a leggere, svario, mi dimentico per quale motivo avevo preso in mano questo aggeggio. Le notifiche mi frastornano; mi riparo con un ombrellino che si sforacchia sotto una gragnuola ininterrotta. Progetti, proposte, profferte, provocazioni bussano di continuo alla mia porta; peggio (molto peggio): sgorgano da me. Sono indifeso, come un eremita in mezzo al casino. Vivo al centro esatto della gazzarra.
Torno a chiedere al mio vecchio amico Antonio se sia la proliferazione di possibilità, di cui ci siamo dotati, a rendere impossibile darsi una direzione, una sola, la più importante, l’unica che conta: tendere a uno scopo, incanalarsi in un’opera, invece di queste continue diramazioni, dirottamenti, negligenze, cazzeggi, svacchi.
“Cosa vuoi, ho millesettecento anni – mi risponde – e abito in questo dipinto da cinquecento. Ma tu, nel farmi queste domande, dimostri di essere un anziano signore d’altri tempi, un residuato del secolo scorso. E soprattutto, cosa…”
Non riesco a sentire bene quello che mi sta dicendo. Il fatto è che la mostra a Palazzo Reale ha avuto un successo madornale. La signora al guardaroba, mentre depositavo il giaccone, mi ha detto che fanno duemila ingressi al giorno. È martedì mattina, ero di passaggio in città, avevo due ore libere, ho prenotato la visita per le dieci, orario d’apertura, convinto di ritrovarmi fra sparuti mattinieri: mi aspettavo di aggirarmi nelle sale deserte, e invece qui è già pieno di comitive, pensionati arrivati col torpedone, guide con il microfono ad archetto fissato sulla gota, scolaresche. In questo momento siamo almeno una ventina, accalcati davanti alla teca che tutela il trittico di Lisbona, una marmaglia sussiegosa che sgomita educatamente per omaggiare Antonio e la sua truppa di mostriciattoli molestatori.
Lì in mezzo fatico a captare le sue parole. Bosch ha fatto quello che ha potuto, mostra solo una metà del mondo di Antonio: ci vorrebbe una rappresentazione virtuale, immersiva, in 3D, o una foto panoramica a trecentosessanta gradi: in effetti mancano i demoni che stanno da questa parte, quella verso cui Antonio guarda. “Chissà che cosa c’è di qua, che cosa vede in questa zona del suo paesaggio”, mi chiedo, ed è un pensiero che mi arriva come uno schiaffo. Ma certo! Cosa vuoi che veda? I nostri ceffi, i nostri corpi ibridati dai tessuti sintetici che indossiamo, gli auricolari, le cuffiette, le audioguide preregistrate a tracolla, le protesi elettroniche, gli schermetti luminosi portatili.
“Vivo nell’interferenza. Consulto il mio schermetto per verificare una citazione, e vengo catturato dalla lista di argomenti più cercati su Google, mi incuriosisco, clicco, mi metto a leggere, svario, mi dimentico per quale motivo avevo preso in mano questo aggeggio”.
Poi penso che quello che scriverò su di lui verrà diffuso in una newsletter, farà squillare una notifica sullo smartphone di qualcuno che stava pulendo la tomba del padre; oppure, la lettura distoglierà qualcun altro dal finestrino del treno e gli farà mancare la visione di un abisso che costeggia le rotaie; oppure, per non staccare lo sguardo da queste righe, farà finta di dedicare attenzione alla telefonata di un amico che avrebbe bisogno di tutto il suo ascolto, gli concederà una fettina di multitasking.
“…soprattutto, cosa credi?, sei un demone anche tu. Sei un agente della frammentazione, un dirottatore superfluo, un sabotatore della concentrazione altrui”. Questo mi dice Antonio, un attimo prima di smettere di guardarmi. “Un’interferenza molesta che rende la vita ancora più impossibile”.
Tiziano Scarpa
Tiziano Scarpa è scrittore e poeta. È tra i fondatori del blog «Nazione Indiana». Il suo ultimo libro è La penultima magia (Einaudi, 2020).
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