L'informazione sta sparendo dai social, ed è un problema - Lucy
articolo

Andrea Daniele Signorelli

L’informazione sta sparendo dai social, ed è un problema

In collaborazione con

24 Maggio 2024

Tra censure e shadow ban, le piattaforme vogliono limitare sempre di più i contenuti politici e di attualità, e favorire solo l’intrattenimento. Con quali conseguenze?

Prima della censura c’è stato lo shadow ban (“divieto ombra”), il meccanismo con cui le piattaforme social riducono drasticamente – e senza dichiararlo – la visibilità di alcuni utenti e dei contenuti che producono. Post e storie, di colpo, non raggiungono più il pubblico a cui sono destinate, nonostante non violino esplicitamente i regolamenti delle comunità dei vari Facebook, Instagram, TikTok. È una pratica che è stata scoperta per via empirica – visto che i colossi del settore non hanno mai dichiarato esplicitamente la sua introduzione, e ancora oggi non ne parlano con piacere –, che viene denunciata da ormai qualche anno, ma che solo negli ultimi mesi sembra essere diventata un problema globale.

Prima l’invasione dell’Ucraina e poi quella di Gaza hanno fatto salire enormemente la temperatura sui social, portando alla moltiplicazione dei contenuti di natura politica e cogliendo alla sprovvista i colossi del settore, che nello stesso periodo – seguendo l’esempio di Elon Musk su X/Twitter – stavano iniziando a decimare, per ridimensionamento aziendale, le squadre di moderatori, delegando sempre più all’algoritmo la selezione dei contenuti da eliminare perché in violazione delle linee guida delle community (foto di nudo, post di incitamento all’odio e così via).

Le immagini e i video di guerra virali sono aumentati,e così i commenti e gli scontri tra account filorussi e filoucraini, filopalestinesi e filoisraeliani. Le piattaforme, per “pulire” i feed da quanti più contenziosi possibile, si sono rifugiate in uno shadow ban sempre più capillare. Le accuse di censura sono giunte soprattutto dagli attivisti digitali in favore della Palestina e dell’Ucraina, preoccupati che dalle parti di Instagram o TikTok si stesse cercando di condizionare il dibattito social in favore di Israele o della Russia.

In realtà, più che di vera e propria censura, l’azione dei social media nei confronti dei temi più delicati dei nostri anni sembra essere di natura pilatesca. Incapaci di filtrare adeguatamente la marea di contenuti a tema bellico, hanno deciso di fare di tutta l’erba un fascio e nascondere o limitare per via algoritmica la diffusione di ogni contenuto che contenesse parole considerate sensibili, come “Palestina”, “Hamas”, “Israele” o hashtag come “BuchaMassacre”, “Azov”, “StandWithUkraine”.

Lo shadow ban, è quindi un’ammissione di impotenza da parte dei principali social. Ma è anche la conferma della volontà di tenere sempre più lontani dalle piattaforme i contenuti politici, che negli ultimi anni hanno creato numerosi grattacapi a Mark Zuckerberg e soci. Un desiderio di presunta “neutralità” maturato mano a mano che si succedevano, prima ancora delle due guerre in corso, lo scandalo Cambridge Analytica, le teorie del complotto su QAnon, la disinformazione sul COVID. 

“Prima l’invasione dell’Ucraina e poi quella di Gaza hanno fatto salire enormemente la temperatura sui social, portando alla moltiplicazione dei contenuti di natura politica e cogliendo alla sprovvista i colossi del settore”.

“Per i democratici non cancelliamo abbastanza contenuti, per i repubblicani ne cancelliamo troppi. Dopo tutto quello che abbiamo fatto ci gridano comunque sempre addosso. Non ne vale più la pena”, ha raccontato l’ex responsabile della public policy di Facebook Katie Harbath, dando voce a una diffusa frustrazione e giustificando il cambio di direzione, reso necessario anche dai citati tagli all’organico (Meta nel corso del 2023 ha licenziato oltre 20mila persone, indebolendo proprio i dipartimenti che si occupano della moderazione dei contenuti).

Se su Facebook la limitazione dei contenuti politici era iniziata già nel 2021, lo scoppio improvviso di due guerre e il costante spostamento dell’attività social su Instagram ha convinto Adam Mosseri, responsabile della piattaforma, a intervenire. Nel febbraio scorso, Instagram ha così informato gli utenti che non avrebbe più dato alcuna visibilità ai post politici provenienti da account che gli utenti non stavano già seguendo. E che lo stesso sarebbe avvenuto anche su Threads (il clone di X di proprietà di Meta).

Per lasciare agli utenti una parvenza di libertà di scelta, nella sezione “Privacy” è stato inserito un pulsante – attivato di default – che “limita i contenuti di natura politica”. Per continuare a vedere questi contenuti, è quindi prima di tutto necessario sapere che questo cambiamento è avvenuto (cosa non scontata, perché la comunicazione non è stata data in maniera seria e trasparente), poi sapere che è possibile rimuoverlo e infine decidere di farlo. Non è un caso che Instagram abbia deciso di attivare il pulsante di default, eliminando cioè di default i contenuti politici: sa che la stragrande maggioranza degli utenti in casi come questa lascia inalterate le impostazioni di partenza.

L’obiettivo, ha spiegato Mosseri, è di “preservare la possibilità di interagire con dei contenuti politici, rispettando il desiderio di chiunque di averci a che fare o meno”. Una giustificazione poco convincente, visto che era già molto difficile, anche prima, che utenti completamente disinteressati alla politica incappassero poi così frequentemente in contenuti che la trattavano (gli algoritmi ti suggeriscono d’altra parte contenuti simili a quelli che già ti piacciono).

Instagram si limita poi a definire, con vaghezza, “politici” i contenuti che “potrebbero menzionare governi, elezioni o argomenti sociali che interessano un gruppo di persone e/o la società in generale”. Al di là della difficoltà di circoscrivere che cosa sia “politico” e cosa no, la domanda che dovremmo porci a questo punto è probabilmente un’altra: quali sono le conseguenze di una decisione di questo tipo sull’ecosistema informativo?

Per certi aspetti, la si potrebbe considerare una novità positiva: la fine della lunghissima intromissione dei social in un settore che non gli compete e al quale ha causato un’enorme quantità di danni. Lo sappiamo: la ricerca spasmodica della viralità ha troppo spesso compromesso l’accuratezza, la verifica, la ponderatezza e ha dato visibilità alle posizioni più estreme e provocatorie, a contenuti complottisti o estremisti. La sintesi di questa posizione potrebbe essere: restituiamo il controllo dell’informazione ai canali tradizionali (giornali, TV, radio) e lasciamo i social al solo intrattenimento.

Il problema di questa posizione è che, prima di tutto, è illusoria e consolatoria, e non tiene conto di quanto siano cambiate le abitudini informative negli ultimi decenni. Una recente indagine di «Pew Research» ha mostrato come esattamente il 50% della popolazione statunitense si informi “spesso o a volte” tramite i social network, mentre uno studio dell’Eurostat ha mostrato come per il 28% della popolazione europea i social media siano il principale veicolo d’accesso all’informazione online (in crescita rispetto al 23% del 2018), superando i siti di news e i motori di ricerca. Non solo: la predilezione per i social vale soprattutto per la fascia anagrafica 18-24, che “ha molta più probabilità di usare i social media invece di un sito o di una app d’informazione”.

Certo, a differenza di quanto avviene sui siti o sulle app delle varie testate giornalistiche, la ricerca dell’informazione sui social non è quasi mai attiva: le notizie compaiono sul nostro feed a seconda di quanto l’algoritmo ci ritenga interessati a politica, temi sociali, ecc (o quanto l’abbiamo addestrato a farlo, seguendo varie testate, giornalisti, divulgatori e così via).

Certo, un discorso simile, si potrebbe fare per la televisione, soprattutto se si considera l’uso che in molte case se ne faceva – e sicuramente in parte ancora si fa – prima dell’avvento degli smartphone e dei social: accese in sottofondo tutto il giorno, a trasmettere programmi d’intrattenimento, sit-com, trasmissioni sportive e informazione.

Anche nel caso della televisione, spesso, le news ci capita di subirle, più che di ricercarle, strette tra un programma di intrattenimento e l’altro. Ciononostante, la TV ha permesso a una grande fetta di popolazione che non leggeva i giornali (un discorso simile si potrebbe fare anche per la radio) di avere accesso all’informazione. Che cosa avremmo pensato se, da un giorno all’altro, i principali canali televisi avessero deciso di abbandonare i temi politici per semplificarsi la vita?

“È ancora possibile cambiare direzione? Probabilmente sì, ma bisognerebbe agire a livello istituzionale, visto che le piattaforme non hanno nulla da perdere dalla decisione di limitare o rimuovere i contenuti politici”.

Sui social molti fanno un buon lavoro di informazione: ci sono giornalisti e divulgatori, testate native Instagram e TikTok, profili social di media tradizionali e online. Ora tutto questo rischia di sparire. I giovanissimi appena approdati sulle app (o che devono ancora farlo), si ritroveranno un feed privo di contenuti politici, e quindi informativi. Avranno scarse probabilità di venire a conoscenza di temi e vicende estranei alle loro abitudini mediatiche. 

Come ha titolato «The Conversation», la decisione di Instagram e Threads è “pessima per la democrazia”: “La serendipità di scoprire vicende politiche che motivano le persone ad agire o pensare si perderà”. Tutto questo, tra l’altro, avviene in un anno estremamente delicato, in cui si vota in India, in Unione Europea, negli Stati Uniti e in tantissime altre nazioni. È ancora possibile cambiare direzione? Probabilmente sì, ma bisognerebbe agire a livello istituzionale, visto che le piattaforme non hanno nulla da perdere dalla decisione di limitare o rimuovere i contenuti politici. 

Un po’ come accade per la Rai che, in quanto servizio pubblico, è tenuta a trasmettere programmi di carattere educativo e sociale, c’è chi ha in mente qualcosa di simile per i social media. In Europa, si sta pensando di imporre alle piattaforme il rispetto della pluralità dei contenuti, l’eliminazione dei filtri anti-politici, l’utilizzo di una quantità adatta di moderatori a seconda della diffusione del contenuto nelle varie lingue. Di certo Meta, dall’alto dei suoi 40 miliardi di guadagni nel 2023, è in grado di affrontare la spesa. 

Prima di immaginare rimedi di questo tipo, sarebbe però necessario un dibattito più consapevole sul ruolo dei social nel mondo dell’informazione, che vada oltre le interpretazioni semplicistiche – e anacronistiche – secondo cui le piattaforme sono intrinsecamente nocive. È sui social che le persone trascorrono la gran parte del loro tempo online. Ed è lì che l’informazione, possibilmente di qualità, deve andare a trovarli. Non possiamo essere drastici. Fare di tutto l’erba un fascio, da una parte, e permettere dall’altra alle piattaforme social di cancellare ogni parvenza di informazione non può portare a nulla di buono.

Questo contenuto è stato realizzato in collaborazione con La Content, agenzia di comunicazione e accademia di formazione sullo storytelling. Partner di Lucy per i corsi di scrittura.

Andrea Daniele Signorelli

Andrea Daniele Signorelli è giornalista e collabora a diverse testate tra cui: «Domani», «Wired», «Repubblica», «Il Tascabile». È autore del podcast Crash – La chiave per il digitale.

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