Perché è importante insegnare l'Ulisse a scuola - Lucy
articolo

Gaja Cenciarelli

Perché è importante insegnare l’Ulisse a scuola

In collaborazione con

16 Maggio 2024

Il capolavoro di James Joyce è un’opera enigmatica e complessa, considerata inadatta ai giovani lettori. Eppure, studiarlo già al liceo può essere un’occasione unica per allenarsi alla comprensione della realtà.

A un certo punto dell’anno scolastico 2015/2016 è arrivato il momento di parlare di James Joyce. Era la mia prima supplenza, la mia prima quinta liceo. Non si trattava solo di spiegare, di mostrare, di collegare, di sottolineare. La situazione era assai più complessa, più personale: volevo che lo amassero come lo amo io.

Il mio primo incontro con Joyce lo devo alla professoressa di Letteratura inglese che, in prima liceo, mi regalò Dubliners dicendomi: “Questo è il mio libro preferito. Quando lo avrai finito, ne parleremo”. Adoravo la mia professoressa d’inglese, adoravo la sua severità e la sua competenza. Avevo capito che mi stava regalando una parte di sé, una parte preziosa, e volevo averne cura.

Non fu per questo, però, che m’innamorai di Gretta e Gabriel Conroy: appena iniziai a leggere dimenticai tutto, persino la scuola. Era la prima volta che mi succedeva, anche se ero già una lettrice forte. Mi catturarono fin dall’inizio quel modo di narrare, lo spostamento continuo dal mondo interiore a quello esterno, la cura dei dettagli, un certo rancore represso, la frustrazione di Gabriel. Era un libro nuovo, per me, diverso dagli altri.

Quella lingua raffinata mi ha rivelato quello che cercavo, che speravo di ottenere dalla lettura: le domande giuste. Non era la storia ad avermi appassionato: era la scrittura; la rivelazione che conteneva: scrivere è un’arte che scende fino alle radici dell’umano. 

“Mi catturarono fin dall’inizio quel modo di narrare, lo spostamento continuo dal mondo interiore a quello esterno, la cura dei dettagli”.

The Dead è stata la mia prima, indimenticabile epifania, insieme al “To be or not to be” di Hamlet. Joyce e Shakespeare sono sempre stati la mia ossessione. Prima da lettrice, poi da insegnante.

Ma con Shakespeare, in classe, è stato relativamente semplice. So per certo di aver acceso qualche scintilla, l’ho vista chiara nei loro occhi, l’ho percepita nelle domande curiose, talvolta assurde, che però rivelavano una certa partecipazione sulla malasorte di Ofelia, di Amleto, di Lady Macbeth.

A stento sono riuscita a trattenere le risate (e le lacrime) quando, in Terza, una volta mi si avvicinò uno studente e mi chiese: “Prof., lei la conosce questa canzone?”. Mi mise il cellulare sotto il naso: era “Io non piango” di Franco Califano. Gli dissi che no, non la conoscevo, ma che c’entrava con l’Amleto? “La ascolti, poi glielo spiego.” La ascoltai, in silenzio, davanti a tutta la classe. “Scusi, ma a lei  i versi Io piango, su tutto er tempo che ce resta/ E me ce sento male./ Domani se non sbajo è la tua festa/ La prima senza viole non le ricordano la solitudine di Amleto senza Ofelia? Va bene lo stesso se porto la canzone invece che imparare a memoria To be or not to be?”.

Con Joyce è diverso. Joyce è la letteratura di lingua inglese che in sé contiene – nell’accezione più ampia – la Storia, il Modernismo, il Novecento, la Psicoanalisi, la Filosofia, le Arti figurative. È una rivoluzione, il cambio di prospettiva, uno sguardo proiettato da un’angolazione da cui nessuno, prima di allora, aveva declinato l’esistenza.

Volevo che amassero il modo in cui Joyce ha buttato all’aria tutta la letteratura come l’avevamo conosciuta fino a quel momento. Volevo che prendessero sul personale la lingua dell’Ulysses, che lo yes I said yes I will yes di Molly Bloom li riguardasse. Perché, egoisticamente, aveva riguardato la mia vita e quindi sapevo che Joyce poteva diventare per loro molto più di una montagna da scalare senza bombole a ossigeno.

Quel pronunciato da Molly Bloom era l’abbraccio assoluto e senza riserve di un essere umano alla vita. In un ci sono tutto l’entusiasmo e la consapevolezza di un nuovo mondo, di una nuova vita. E non esiste un nuovo mondo senza una lingua nuova. Affrontare la vita piegando il linguaggio alle proprie esigenze – artistiche e comunicative – è esattamente quello che ha fatto Joyce, inventando neologismi che giocano con i suoni e che dialogano tra loro. La sua sperimentazione li riguarda da vicino, perché il linguaggio è lo strumento necessario a ogni rivoluzione, a ogni cambiamento. 

Non nego che, prima di iniziare a parlare di James Joyce, in quell’anno scolastico 2015/2016, mi lasciai andare a lunghissime premesse piene di timore. A dire il vero, iniziai a mettere le mani avanti già a settembre: ciclicamente riproponevo le stesse considerazioni: “Sentite, cercate di prepararvi bene al momento cruciale perché non sarà facile. Joyce è immenso, complesso ma fondamentale. Non sarà facile, io ve lo dico, non sarà facile”.

Le ragazze e i ragazzi mi guardavano scuotendo la testa. Qualcuno sbuffava o annuiva, sconsolato… Una di loro, timidamente, osservò che era forse la ventesima volta che lo ripetevo. Il ragazzo al primo banco sbuffò: “E che sarà mai”. Il suo compagno: “A questo punto spero proprio che lo sia, difficile”.

La presi alla larga. Inquadrai il contesto storico-culturale. Gli parlai di William James, fratello di Henry, il cui lavoro aveva influenzato Henri Bergson. Gli illustrai il concetto di durée: quanto durava il mio tempo mentre tentavo di spiegare Joyce? La percezione individuale del tempo è complicata da spiegare a persone della loro età, per cui un minuto dura un anno e che riescono a polverizzare due settimane in un secondo. Vivono nell’immediatezza e l’immediatezza è già passata. 

“In pratica è come a scuola”, mi interruppe un ragazzo. “Quando c’è la professoressa X il tempo non passa mai, quando invece c’è il professor Y l’ora di lezione vola”. Non sarà facile, mi dicevo comunque, nonostante le osservazioni pertinenti dei ragazzi, mentre tentavo di spiegare che le fondamenta della psicoanalisi, gettate proprio agli inizi del Novecento, sono state la rivoluzione sulla quale sia Joyce che Woolf hanno costruito una nuova letteratura. Lo capite che l’essere umano è stato posto al centro del mondo, vero? Che le sue emozioni, le sue sensazioni, la sua psiche sono diventate un nuovo linguaggio con cui interpretare la realtà? “Lo abbiamo studiato l’anno scorso, Freud”, mi rispose una studentessa.

Ma la lingua di Joyce è un viaggio infinito. È un bildungsroman, è un romanzo di formazione in sé. Lo sappiamo tutti che i ragazzi non leggono, dunque non possiedono un bagaglio lessicale sufficiente per apprezzare il modo in cui Joyce piegava, modellava secondo le sue esigenze la lingua inglese. C’è qualcosa di più difficile di questo? Forse dovevo iniziare da Dubliners.

Partii da The Dead, l’ultimo racconto della raccolta. Quasi sempre, a scuola, si studia Evelyn ma io decisi di approfondire per intero la storia di Gabriel e Gretta Conroy perché conteneva, in nuce, tutto quel che mi serviva per poi introdurre l’Ulysses. La paralisi della società dublinese, la palude delle tradizioni, della religione e delle apparenze che soffocava l’impeto creativo dell’IIrlanda, il bisogno, l’urgenza di trovare una lingua nuova e diversa, le epifanie, ossia i moments of revelation.

Nelle mie lezioni era sempre presente una linea di demarcazione che però era chiara solo a me. Il confine tra il dicibile e l’indicibile era netto ai miei occhi. “Allora, ragazze e ragazzi: vi presento James Joyce, vi consegno tutti gli strumenti a mia disposizione, poi lascio che sia lui a rivelarvi chi è e, in seguito, – ecco l’indicibile – sarete senz’altro in grado di farlo vostro, di portarlo nella vostra vita e comprendere fino in fondo quanto sia attuale, quanto ancora la sua lingua riesca a rivoluzionare e a commuovere”.

Il concetto che volevo assolutamente trasmettere era che Joyce ci fa spostare, con la forza di una lingua nuova, dagli spalti dell’ego, il solo luogo da cui guardiamo e interpretiamo la vita nostra e degli altri, e ci costringe a metterci nei panni di chi ci circonda cambiando continuamente punto di vista. Anche se, in The Dead, il narratore è extradiegetico e onnisciente, noi scivoliamo senza fatica dietro gli occhi di Gabriel Conroy, prima, e di Gretta e di Michael Furey, dopo. Questo shift of point of view è ancora più disturbante nell’Ulysses. Ancora più inquietante per chi si trincera dietro la fortezza delle proprie convinzioni. E niente, più del tormento dell’adolescenza, ha bisogno di punti di riferimento e di fedeltà granitica nei propri ideali. E niente, più di un anti-romanzo com’è l’Ulysses, tenta di scardinare questa dicotomia tra giusto e sbagliato di cui le ragazze e i ragazzi necessitano per restare saldi. 

È incredibile, mi ripeto ogni volta che porto in classe James Joyce, quanto le sue opere possano riguardare ognuno di loro. Gabriel Conroy, nell’epifania finale, capisce di non essere mai stato lui il grande amore della moglie, si rende conto che ha vissuto raccontandosi una storia inesistente, rassicurante ma falsa. Un amore più grande della morte, quello di Gretta per Michael Furey, un amore che non svanirà mai, perché non muore mai davvero chi vive nella memoria. Un concetto retorico e melenso, forse, ma che gli studenti comprendono nel profondo. Chi, più intensamente di loro, si scontra con l’amore, con il tradimento, con il per sempre

“His soul swooned slowly as he heard the snow falling faintly through the universe and faintly falling, like the descent of their last end, upon all the living and the dead”. Ecco un brano che non resta mai inascoltato, mai incompreso. Di queste frasi finali, i ragazzi percepiscono le s e le f, si lasciano trasportare dalle assonanze dolci che riproducono la neve che scende, indistintamente, sui vivi e sui morti. Nessuno è mai rimasto insensibile al dolore di Gretta e alla consapevolezza di Gabriel che non esisteva più, per lui, alcuna via di scampo. La stessa consapevolezza – la stessa epifania – che portò Joyce a lasciare l’Irlanda, alla ricerca di un posto dove poter scrivere e sperimentare liberamente. Tuttavia fu evidente, dalle sue opere, che questo allontanamento fosse solo fisico, perché continuò a scrivere di Irlanda anche da espatriato. Ed ecco che, nel cuore e nell’istinto di un/una diciottenne, Joyce diventa Gretta: costretta a lasciare il grande amore morto per ricominciare a vivere, ma con il pensiero sempre fisso sulla sua ossessione.

Non sarà facile, mi dicevo quando, sempre nell’anno scolastico 2015/2016, affrontai la differenza tra monologo interiore e flusso di coscienza. I dialoghi sono sostituiti, soprattutto nell’Ulysses, da lunghissime riflessioni personali, intime, senza punteggiatura, proprio come i pensieri che procedono avanti e indietro senza un ordine logico, per associazione di idee. Da Gabriel Conroy, che riflette sull’inganno della vita e lo fa con frasi comprensibili e strutturate, a Molly Bloom che dice sì sì sì a Leopold Bloom quando capisce che è lui l’uomo della sua vita, c’è tutta la consapevolezza culturale, artistica, letteraria di Joyce che diventa definitivamente, grazie alle sue opere, un alfiere di quella rivoluzione che definiamo Modernismo e che annovera, tra i suoi capisaldi, la Psicoanalisi freudiana. Non è facile, certo, ma non è nemmeno complicato spiegare certe convinzioni a una classe composta da diciottenni. 

“Il concetto che volevo assolutamente trasmettere era che Joyce ci fa spostare, con la forza di una lingua nuova, dagli spalti dell’ego, il solo luogo da cui guardiamo e interpretiamo la vita nostra e degli altri”.

Un giorno, proprio mentre parlavo della questione della lingua in Joyce, mi resi conto di provare disagio e sconforto, come se mi sentissi sconfitta in partenza. Credo mi si leggesse in faccia, questo scoramento, tanto che una studentessa mi interruppe: “Professoressa, lei non fa altro che dirci che Joyce è difficile. Ogni volta la stessa, lunghissima premessa: attenti, state attenti. Ma guardi che noi Joyce lo abbiamo capito benissimo. Abbiamo capito che certi vivi sono più morti di chi è sottoterra e abbiamo capito il ‘Metodo mitico’. In fin dei conti si è ispirato all’Odissea perché il suo non era un romanzo e lui aveva bisogno di una struttura che tenesse in piedi l’Ulisse”. Scosse la testa, poi riprese: “Lei ci sottovaluta. Non deve, professoressa. Anzi, stia tranquilla. Molti di noi porteranno Joyce all’esame di maturità”.

Andò proprio così. Erano ancora gli anni in cui gli studenti potevano preparare una tesina ed esporre gli argomenti scelti a piacere operando collegamenti interdisciplinari. Avevano capito Joyce. Non solo: gli era piaciuto. Succede, a volte, che scocchi una scintilla tra una classe e un autore/un’autrice. Piansero a dirotto anche quando gli lessi la lettera d’addio che Virginia Woolf aveva scritto al marito Leonard. Il Novecento aveva fatto breccia in loro.

James Joyce ha davvero un’identità composita e struggente e le sue opere contengono un valore culturale e una portata letteraria dirompenti. Ma è proprio questo il motivo per cui è importante continuare a insegnarlo: per alzare l’asticella dell’attenzione. Perché la vita non scorre in modo logico e lineare come nei romanzi, ma – anzi – è più simile a un anti-romanzo come l’Ulysses. Joyce ci insegna a prepararci a quello che non conosciamo, per quanto spiacevole e inaspettato sia, butta all’aria le certezze, i confini, la rassicurante convenzione della grammatica. È difficile studiare un autore che conosceva le regole tanto bene da poterle infrangere – e costruire un’altra letteratura sulle sue macerie -, ma leggere James Joyce equivale anche, e soprattutto, all’opportunità di aprire un varco diverso alla nostra interpretazione della realtà e alla ricchezza che a essa deriva da un continuo spostamento di prospettiva. 

Questo contenuto è stato realizzato in collaborazione con La Content, agenzia di comunicazione e accademia di formazione sullo storytelling. Partner di Lucy per i corsi di scrittura.

Gaja Cenciarelli

Gaja Cenciarelli è scrittrice, giornalista, insegnante e traduttrice. Il suo ultimo libro è Domani interrogo (Feltrinelli, 2024).

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