Lorenzo Gramatica
08 Novembre 2023
C2C, il festival un po’ clubber, un po’ avant-pop, è giunto alla sua ventunesima edizione. Con una line up che bilancia bene artisti molto affermati e d’avanguardia, C2C è sempre più maturo. Ma chi ci va a 36 anni, rischia a volte di sentirsi un po’ vecchio…
C’è una tendenza, ben documentata e giustificabile anche attraverso una crescita demografica che in Italia è deprimente, di considerare gli assembramenti di giovani a scopo ludico con accigliata severità, se non proprio con fastidio.
Negli anni Novanta, le parole “movida” e “sballo” ricorrono innumerevoli volte negli articoli dei principali quotidiani italiani. Si impone quindi un lessico giornalistico standardizzato per descrivere uno spettro di attività che vanno dal ritrovo al parchetto alla serata in un locale.
Il sottotesto, più o meno esplicito, è che a queste esperienze si accompagni un uso sconsiderato di sostanze illegali o lecite ma consumate in dosi eccessive.
Di recente, un’amica che, con ammirevole senso civico, generosità e forse sprezzo della propria salute, fa politica nel municipio di una grande città, mi raccontava di una delibera del consiglio municipale che trattava dell’istituzione di un “Tavolo permanente sulla movida”, formato da consiglieri, residenti, lavoratori dei locali, amministratori di condominio. Era incredula che la movida potesse essere considerata un problema di tale urgenza e che necessitasse di un così grande dispiegamento di forze, consistendo poi la suddetta movida in qualche decina di ragazzi che si riunivano, perlopiù nei weekend estivi, fuori dai locali di due o tre strade del quartiere.
Dimostrazione di come questo appiccicoso gergo da titolista sia penetrato nell’immaginario di più generazioni – ma poi alla fine, con grande sforzo dei più giovani, la proposta di delibera è passata senza il riferimento alla parola movida.
Alla musica poi si è spesso attribuita una responsabilità diseducativa, perché nella musica il coinvolgimento è immediato e di massa – e non è un caso che la musica sia elemento fondamentale in rituali di possessione di varie culture, come dimostra il saggio del 1980 di Gilbert Rouget, Musica e Trance.
C’è insomma spesso la musica a fare da sfondo allo “sballo” o alla “movida”.
Forse è anche per vincere questa ostilità che da qualche anno il festival musicale C2C si sta aprendo a una programmazione con più performance e meno dj set, più avant-pop – cioè la musica pop di domani – e meno clubbing. Il tema di quest’anno è El Mundo, ispirato alla ventunesima carta dei tarocchi, ventuno come le edizioni del festival.
C2C è maturo, sempre più istituzionale e internazionale. È nella sua fase da “venerato maestro”. Titolo questo che si è conquistato grazie a una programmazione di altissimo livello, capace di far coesistere armonicamente cose apparentemente distanti.
Nelle scorse edizioni, la direzione artistica del festival (che è di Sergio Ricciardone, che il festival l’ha creato, affiancato da Guido Savini) ha portato al Lingotto di Torino gruppi dream pop e un po’ melò come i Beach House, artisti sofisticati come Franco Battiato e Thom Yorke, entità inafferrabili come i Battles, ma pure decani della techno come Richie Hawtin e Jeff Mills e poi Jamie XX, Aphex Twin, Apparat, Nicolas Jaar, Kode 9, Laurent Garnier.
E quindi molta partecipazione, contaminazione tra generi, coabitazione felice di persone dai gusti diversi, democrazia musicale – un po’ si balla un po’ si ascolta.
Anche quest’anno, il programma – quattro serate – sembra accogliere quasi due festival in uno: performance di King Krule, Caroline Polachek, Flying Lotus, Evian Christ; e poi Bill Kouligas e gli artisti della sua PAN Records (che quest’anno festeggia 15 anni) Bambii, Crystalmess, Honour, Overmono, Tiga, Moodyman.
Faccio due serate, venerdì e sabato. Sul treno studio il programma, ascolto qualche artista, ovviamente non li conosco tutti, ma non voglio farmi cogliere alla sprovvista.
1. Venerdì
Si arriva al C2C venerdì sera. Si chiedono agli amici più preparati informazioni sugli artisti che non si conoscono, si confrontano i rispettivi programmi – questo imperdibile, questo già ascoltato, ma invece lei chi è, qui c’è una sovrapposizione tocca scegliere – ci si danno, come ogni anno, continui appuntamenti disattesi dalle circostanze – gli scambi su WA durante i festival sono quasi un genere letterario del tipo assurdista, io sono qui dietro la cassa, a destra del palco, a sinistra del bar, in mezzo al corridoio sì ma quale corridoio.
Il primo impatto è un po’ brusco: ci sono i poliziotti con i cani – vorrei accarezzarli, giustamente chi mi è accanto mi dissuade da questo proposito – e il Lingotto, pure se suggestivo e post-industriale, non è il posto più accogliente che ci sia. Forse invecchiando l’idea di stare con tante persone mi angoscia un po’? Voglio palchi piccoli, la decrescita felice applicata alle serate.
Si lasciano le giacche, si attraversano le due sale dove già gli artisti suonano e si va un attimo fuori, ci si deve acclimatare, prendere le misure a un contesto che si abiterà per le prossime due serate.
La prima persona che si incontra è Luca Guadagnino. Come noi, è in coda ai bagni chimici. Ciao, complimenti, come va, ma che ci fai qui; è la sua prima volta al festival, non lo conosceva, gliene hanno parlato bene. A dimostrazione che C2C ha una capacità di attrazione sempre più forte, è trasversale e riesce a far convivere un pubblico sofisticato, non necessariamente di iniziati, con persone più giovani, clubber, esperti del settore, musicisti.
Un ragazzo, avrà vent’anni, cede a Guadagnino il suo posto in fila: così mentre sei in bagno magari ti viene un’idea per un film! Vai prima tu, vai, tira fuori un’idea! Guadagnino ringrazia ed entra in bagno tra gli applausi.
Si immagina allora una storia d’amore di giovani e bellissimi vampiri sotto cassa, che assumono MD e bevono il sangue di chi è molto fatto; la girerà mai?
Gli Overmono hanno appena finito di suonare; sono gallesi, fanno musica fusion dalle tante influenze e, ovviamente, sono già il primo rimpianto: “performance incredibile”, “i più bravi di tutti”, “che vi siete persi”. Vabbè. Almeno siamo in tempo per Caroline Polachek, che sta per iniziare. Caroline Polachek è un’artista sofisticata e una ninfa: bellissima, sinuosa, la voce gorgheggiante. Il suo ultimo album art pop, Desire, I Want To Turn Into You ha ricevuto ottime critiche.
Ci sono parecchie aspettative. Dopo un po’ che canta, qualcuno dice: “Sembra la colonna sonora del Re Leone”. Ingeneroso. Però, in effetti, questo pop elegante e pieno di vocalizzi… Si conia quindi un soprannome: “Celine Dior”. Lei è molto brava, tiene benissimo il palco, ma il desiderio di ballare è più forte: si va nella sala Stone Island, grazie Caroline alla prossima.
Con più di diecimila partecipanti, al C2C quasi tutto è organizzatissimo; gli spostamenti sono regolati in un modo che a volte sfugge al consumatore di psilocibine, che però docilmente si adegua – c’è un corridoio esterno, non troppo friendly, freddo e illuminato da luci verdi e, novità di quest’anno, due corridoi interni, più bui, con luci soffuse molto instagrammabili che replicano un cielo stellato, dove transitare, a discrezione degli addetti alla sicurezza, tra una esibizione e l’altra.
Nella sala Stone Island ha cominciato a suonare Tiga, dj parecchio di moda quindici anni fa.
Mi sento vecchio, questo a tratti è un tema un po’ patetico di queste serate, perché una ragazza di venticinque anni mi sussurra all’orecchio “Molto bravo questo Taiga”, lo pronuncia così, Taiga, e mi viene in mente che c’è un rapper, Tyga, accusato di violenza domestica, forse li ha confusi. Ma per chi ha più di trent’anni, Tiga è inconfondibile. Tra le sue hit, You Gonna Want Me, con Jack Shears degli Scissors Sisters, e la cover di Sunglasses At Night, due pezzi molto eighties, molto sexy, minimal e avvolgenti.
Tiga è uno zarro e fa un set all’altezza di questo aggettivo: molto divertente, pochi fronzoli, nessun intellettualismo, musica per chi vuole ballare. Adesione al dj set e abbandono totale alla musica lo garantisce anche Avalon Emerson, ex giovane promessa della scena techno ormai confermata, spesso al Berghain e al C2C: mette techno molto dura, ingentilita da sonorità più dream pop – per un attimo penso: i Cocteau Twins con la cassa dritta.
Epperò al C2C vige un principio di soddisfacimento orizzontale, quindi chi cerca un approccio elegante e rarefatto alla musica può andare ad ascoltare Evian Christ, artista che pubblica con Warp Records e che ha all’attivo collaborazioni con (ex) giovani favolosi come Yung Lean. Sul palco del main stage si presenta con una maglia della Juventus – passione sfrenata per la squadra o ragioni commerciali, essendo la Juventus sponsor di C2C? – e suona una trance intensa, rarefatta, psichedelica, a tratti commovente. Un pulviscolo sonoro di tante piccole particelle che si aggregano e poi si sciolgono di continuo.
“Mi sento vecchio, questo a tratti è un tema un po’ patetico di queste serate, perché una ragazza di venticinque anni mi sussurra all’orecchio ‘Molto bravo questo Taiga’, lo pronuncia così, Taiga, e mi viene in mente che c’è un rapper, Tyga, accusato di violenza domestica, forse li ha confusi”.
Da lì, si va in giro, si abbracciano persone, si ascolta altra techno, si rimane finché le luci non si accendono.
Le voci degli altri si distinguono appieno, purtroppo: si sentono alcuni membri della sicurezza irridere dei ragazzi “questi si sono presi così tanta droga che non capiscono un cazzo, puoi dirgli quello che vuoi”. Simpatici.
All’alba, la mia ragazza e io si va a casa a piedi, a passo lento e per mano; la strada è sempre dritta, si vedono in lontananza le montagne, sembrano disegnate. A Torino è difficile perdersi, si ringrazia l’urbanista che l’ha pensata su misura di chi ha i riflessi rallentati.
2. Sabato
Come ogni anno e come in ogni festival di dimensioni ragguardevoli, la seconda serata si dimenticano i piani fatti più o meno scrupolosamente in precedenza.
Si sceglie di improvvisare, assecondando le esigenze del momento: voglio ballare attaccato alle transenne sotto cassa, beccare gli amici o stare con la mia ragazza, oppure ascoltare questo artista magari da solo – con la consapevolezza, maturata faticosamente negli anni, che non si riuscirà a vedere tutto, che qualcosa verrà trascurato, che difficilmente si ascolterà una performance per intero.
King Krule è un genietto dall’accento da Billy Elliot – non balla ma da almeno una decina d’anni fa musica –, la faccia lentigginosa da ragazzino, i capelli rossi e un timbro profondissimo. Alfred E. Newman di Mad Magazine che canta come Marvin Gaye.
Dopo venti minuti di King Krule, la voce graffiante e profonda, che arrangia i suoi pezzi a una velocità supersonica (con il suo sassofonista, probabilmente non laureato in lingue, che parla spagnolo per ingraziarsi il pubblico italiano), si lascia il main stage gremito per andare ad ascoltare Bambii.
Bambii è dj e producer e il 2023 è stato il suo anno: dopo aver collaborato con Kelela per alcune tracce del suo Raven, ha pubblicato per PAN Records il suo primo album, Infinity Club: grime, r&b, ritmi caraibici, ottime recensioni.
Ma io queste cose le so ora, dopo averla ascoltata su Spotify e averne letto un po’ in giro. Quando percorro il corridoio simil-stellato che porta da King Krule allo stage Stone Island, non ho la più pallida idea di chi sia Bambii – ci vado senza aspettative, con la speranza che faccia ballare.
“Suona una trance intensa, rarefatta, psichedelica, a tratti commovente. Un pulviscolo sonoro di tante piccole particelle che si aggregano e poi si sciolgono di continuo”.
Non riesco a stare davvero al passo con le cose che escono, con le nuove sonorità, le etichette, i trend e col passare del tempo sempre meno: sono pigro? Epperò questa mia ignoranza si rivela una risorsa perché poi, come nel caso di Bambii, scopro delle cose che mi piacciono molto e ne parlo entusiasta a tutti, a volte atteggiandomi a fine conoscitore (in questo caso, essendo la produzione di Bambii composta da un solo album, è facile farlo), le ascolto tornando a casa. Eccomi, sono fan.
Il set è bello: drum&bass, acido, sensuale. Bambii tritura Toxic di Britney Spears e pezzi di Vanessa Carlton, prende suoni soul e li getta nelle profondità dei suoi bassi martellanti. Si balla accanto alle transenne ai lati del palco, l’angolo scelto per la serata da un’amica un po’ sciamana che distribuisce abbracci, sigarette, goccine, sostanze, consigli. La si troverà, con i suoi amici, sempre lì.
Dopo Bambii, c’è Crystalmess. Dj, producer, artista e scrittrice e anche qui confesso di averlo scoperto pochi minuti fa. Non serve però una conoscenza pregressa per apprezzarne il set, con i BPM che accelerano e rallentano, la dancehall che si fonde con la techno e i ritmi afro. Si balla, sempre lì, appoggiati alle transenne fino a quando non si realizza che dall’altra parte, nel palco principale, è cominciato Flying Lotus: si va? Nessuno sembra dell’idea.
Nemmeno io lo sarei, se non fosse per un barlume di senso di colpa; penso che devo scrivere questo pezzo, mi convinco che, pur avendolo già sentito live almeno due volte, questa potrebbe essere imperdibile. Vado da solo, interrompendo un mood molto piacevole, con il timore di pentirmene.
Flying Lotus è produttore e musicista di culto, con tutto un suo seguito di ammiratori molto nutrito. Di ottima famiglia, essendo imparentato con i Coltrane –John e Alice –, ha dei riferimenti musicali molto variegati, che spaziano dal free-jazz all’hip hop, passando per la IDM, che riesce a fondere in modo personale all’interno dei suoi lavori e delle sue collaborazioni – anche queste molto eclettiche: da Kendrick Lamar a Thom Yorke fino a Kode9.
“Non riesco a stare davvero al passo con le cose che escono, con le nuove sonorità, le etichette, i trend e col passare del tempo sempre meno: sono pigro? Epperò questa mia ignoranza si rivela una risorsa”.
La sala del Lingotto, che pure è enorme, è pienissima. Visual molto tripping, esibizione versatile e ricca di generi. Non mi pento della mia scelta ma, dopo venti minuti, voglio solo ballare. Evidentemente sono qui per questo, mi ripeto sempre le stesse cose, finalmente mi convinco che lo stage Stone Island, più piccolo e più da rave, pensato per l’esperienza uditiva, non per gli occhi – infatti l’artista sul palco è avvolto dal buio e circondato da casse – è quello più adatto alle mie esigenze.
Ci torno, solito posto, bellissima atmosfera, c’è la mia ragazza e poi degli amici e sul palco Bill Kouligas, fondatore, come si è già detto, di PAN Records, una delle più importanti etichette discografiche di questi anni: Amnesia Scanner, Arca, Marina Herlop e altri artisti molto interessanti vengono da lì.
Post-techno? Post-noise? Elettronica di concetto? Boh, non saprei. Certo è che, come lo scorso anno, anche in questa edizione il suo set è splendido: emozionante e cerebrale, gelido e coinvolgente, cose solo apparentemente in aperta contraddizione.
Quest’anno al C2C sembra esserci anche più attenzione al benessere del clubber.
C’è una chill room, una sala dove Anonima/Luci ha allestito giochi e riverberi di luci verdi – le si fissa, imbambolati, e poi si scopre che l’installazione è sponsorizzata da una multinazionale dell’energia che da qualche anno si impegna tantissimo a sembrare più sostenibile quindi forse ecco perché le luci sono verdi, si pensa, prima di tornare a guardarle; c’è uno spazio informativo sulle sostanze, molti infermieri e paramedici, vigili del fuoco. C’è insomma parecchia attenzione e premura per chi frequenta il festival.
Rassicurante certo, anche se ci sente un po’ controllati, smistati nelle sale. C2C è una macchina enorme che gestisce i movimenti, il tempo e lo spazio di chi lo frequenta. Politica dei corpi? Società del controllo? Bentham e Foucault? C’è questa tendenza, mi pare, a intellettualizzare l’esperienza musicale, tendenza che io fuggo per evidente impreparazione.
Credo però che queste sensazioni che riporto siano riconducibili a tutti i festival di queste dimensioni e di questa importanza. Molte persone, molte responsabilità.
Alcune cose non funzionano: le code al guardaroba, pure se organizzate con un percorso apparentemente molto ordinato fatto di transenne, fanno venire voglia di tenersi la giacca tutta notte, l’acqua dovrebbe essere gratuita e invece la si può comprare solo in bottiglie di plastica al bar.
Ma sono piccole cose se soppesate con quelle che invece vanno molto bene, cioè la musica e le persone; la prima è sempre di grande qualità, bilancia molto bene le aspettative di chi cerca nomi già affermati e di chi vuole cose più d’avanguardia; le seconde sono quelle che da anni si incontrano qui, un arcipelago di amicizie e conoscenze che danno al festival questo aspetto molto rassicurante da enorme fiera di paese.
Me ne vado mentre Moodyman sta suonando da qualche minuto e penso: ma lo devo scrivere che ero troppo stanco per ascoltarlo o fingo invece di essere rimasto fino alla fine?
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