Che noia questo sicario stressato! "The Killer" di David Fincher - Lucy
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Lorenzo Gramatica

Che noia questo sicario stressato! “The Killer” di David Fincher

04 Settembre 2023

David Fincher delude con la storia di un killer un po' fragile e pedante.

Il protagonista di The Killer (Michael Fassbender) è un tipo in forma. In trasferta di lavoro a Parigi ascolta gli Smiths, fa ginnastica, si monitora il battito cardiaco sullo smartwatch. A ricordarci che la sua professione non è tutelata da nessun contratto nazionale, un fucile con mirino e silenziatore poggiato sul tavolo che gli fa da “scrivania” e da letto. 

Aspetta la sua vittima di fronte all’albergo in stile husmaniano dove quella dovrebbe pernottare. I giorni passano, ma non arriva nessuno. 

Parigi si sveglia lentamente, “come nessun altro posto al mondo”, dice il killer che non ha nome. Prime avvisaglie dell’insofferenza per l’attesa, primi accenni di maniacalità. Soprattutto: la noia porta con sé il rovello incessante del pensiero e il killer si abbandona al soliloquio, filosofeggia. Anche se non lo sa, noi gli facciamo compagnia, ascoltando le sue considerazioni sulla vita e sulla morte; tensione e solitudine lo rendono petulante. 

Infatti questo killer ci pare da subito un po’ fragile anche quando, ripetendo incessantemente delle formulette motivazionali – “Attieniti al piano, gioca d’anticipo, non improvvisare” – sembra volersi convincere del contrario. La sensazione è che cerchi solo di dare ordine al caos con la pretesa impossibile di sottometterlo. Tic e frasi fatte sono formule rituali, incantesimi.

Si regge a fatica questa attesa del protagonista – è merito della regia di Fincher o è a causa del monologo seccante del killer? 

Quando arriva la vittima, il killer srotola le cuffie – la voce di Morrissey lo aiuta a calmare l’agitazione –  e già sappiamo che qualcosa andrà storto. 

La Francia non porta bene a Michael Fassbender. Anche nei panni di Archie Hicox, il tenente scozzese cinephile di Inglorious Basterds, viene tradito dalla sua impazienza – e dalle sue dita. 

Le formulette, come incantesimi orecchiati e ripetuti male, hanno dato forma allo scenario più temuto. Il killer fugge e qui comincia un altro film, fatto di appostamenti, inseguimenti, scazzottate, soprattutto: vendetta. il protagonista non può più nascondersi, deve giocare d’anticipo. 

Sì, ma adesso che il piano non c’è, che si fa? Gli tocca improvvisare, violando così una delle regole che ha sempre ossequiosamente seguito.  

La svolta, forse, poco prima di affrontare un grave pericolo, quando il killer abbandonerà lo smartwatch e l’ansia di avere il battito e tutto il resto sotto controllo.

Fino a quel momento, il killer di Fincher è un lavoratore qualunque che cerca di mettere in atto delle modalità di gestione dello stress; per questo fa ginnastica e ascolta gli Smiths. Più che amarli, gli Smiths gli servono. È solo un tizio che cerca di portare a termine il compito che gli hanno assegnato e che, quando non ci riesce, va nel panico. 

Impara, suo malgrado, a improvvisare. Forse sta guarendo dalle sue ansie e dalle sue ossessioni? Quando finalmente la sua vendetta pare vicina, nemmeno lui saprà che fare nel momento decisivo. Si vedrà. Forse per cambiare bisogna concedersi il lusso di sbagliare. 

Paragonato ai suoi colleghi, che sono o muscolosissimi ma rozzi o tanto intelligenti e sofisticati, il protagonista sembra quasi un uomo medio che deve affrontare le sue debolezze e venire a patti con i suoi errori. Quando è a pezzi, si fa una doccia – cliché a cui Fincher ricorre per evidenziare i turbamenti dei personaggi, come già in The Girl with the Dragon Tattoo e Gone Girl. Non sembra avere nessuna passione. Non ha granché di interessante, a parte la vendetta che ci lega, per quasi due ore, a lui. Non è quindi l’assassino che si è soliti vedere sullo schermo, potrebbe quasi essere un collega che si incontra il lunedì mattina di fronte alla macchinetta del caffè.

E quindi: che bel personaggio, no? Insomma. 

Fincher è uno scrittore che non ha bisogno di scrivere una riga per dare spessore e coesione alla sua opera. Usa il montaggio come punteggiatura, la colonna sonora – anche qui, come in passato, di Trent Reznor e Atticus Ross – come un’accurata descrizione di contesto. Racconta usando il volto dei suoi attori. 

A titolo di esempio, la scena The Girl with the Dragon Tattoo in cui la Lisbeth Salander interpretata da Rooney Mara con un’occhiata si prende gioco dell’inettitudine di Mikael Blomqvist/Daniel Craig, poco avvezzo all’utilizzo della tecnologia. In quello sguardo c’è tutto: fastidio, scherno, compassione per questo giornalista un po’ borioso ma anche le prime avvisaglie dell’innamoramento. 

Fincher ha sempre dimostrato grande rispetto degli spettatori, che non tratta da scemi. Sa che non vanno troppo guidati o eccessivamente rassicurati.

Per questo non ha bisogno di perdersi in spiegazioni pedanti e le parole nei suoi film sono spesso utilizzate con parsimonia e precisione – The Social Network scritto da Sorkin è forse un’eccezione.

In The Killer non si parla poi molto, ma si pensa troppo e a noi spettatori tocca ascoltarli questi pensieri; come se a Fincher d’improvviso mancassero le immagini – che per lui sono parole – per raccontare. Quanti monologhi che spiegano cose che con la camera Fincher potrebbe dire meglio! E quindi che film poco fincheriano questo film che di Fincher ha invece temi, come la nevrosi, la solitudine, la vendetta e lo sguardo distante e asettico – ma Fincher è pessimista e misantropo come uno zio burbero a cui non si crede fino in fondo. 

La vendetta del killer è così banale in confronto a quella iper-cerebrale di Amy Dunne in Gone Girl o a quella viscerale e straziante di Lisbeth Salander; se nella paranoia avvolgente di Zodiac era difficile non rimanere invischiati, qui basta distogliere lo sguardo. 

Rimangono dei dubbi: siamo sicuri che il killer non faccia tutto questo, più che per vendicarsi del torto subito, per riparare alla sua negligenza professionale? Non è che sotto sotto è l’orgoglio, più dell’amore, a muoverlo? E che non tanto sono le aspettative di un futuro sereno a interessargli, quanto invece la consapevolezza – di grande consolazione per chi è affetto da manie di controllo – di avere rimesso in ordine quantomeno il passato?

Alcuni indizi sembrano suggerirlo, ma in fondo questo killer coinvolge così poco; che importa? Anche perché nemmeno Fincher sembra volerlo conoscere fino in fondo, in questo film minore che si potrà guardare su Netflix ma che difficilmente io riguarderò al cinema.

Lorenzo Gramatica

Lorenzo Gramatica è Responsabile editoriale e autore di Lucy.

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