Chi ha ucciso questa donna? La cultura maschilista raccontata in un quadro - Lucy
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Greta Plaitano

Chi ha ucciso questa donna? La cultura maschilista raccontata in un quadro

28 Novembre 2023

"La femme de Claude" di Francesco Mosso raffigura una donna agonizzante. È stata uccisa. La sua colpa? Essere donna. Ma il titolo originario era un altro. Perché è cambiato? Le ragioni dicono molto del modo, maschilista e pieno di pregiudizi, in cui raccontiamo le relazioni tra uomo e donna.

La scorsa settimana per ricordare Giulia Cecchettin ho provato a spiegare a lezione un’opera dal titolo traditore: La femme de Claude di Francesco Mosso. Ultimata nel 1877 nello studio a Roma, la tela fu concepita circa tre anni prima, quando il pittore torinese, captò per caso il pretesto visivo che mosse la sua immaginazione: dentro una sala della Prefettura di Torino “vide vibrare in un canto un bel raggio di sole, sopra un sofà antico coperto di raso chiaro”. Da qui, nacque il capolavoro, che secondo le parole dello studioso dell’epoca Antonio Stella, “da parecchio era nel suo cuore, nei suoi nervi, nei suoi sogni”.

Dipinta da un artista dotato formatosi all’Accademia Albertina di Torino e morto a soli ventinove anni, La femme de Claude rappresenta una donna agonizzante, sdraiata supina, con indosso una vestaglia chiara  semitrasparente e delle calze di seta. Il lettino su cui giace, come anche i cuscini, le pareti della stanza e il pavimento, sono ricoperti di un broccato in cui un’inquieta tonalità grigio-verde si incontra con delle decorazioni blu scuro. A terra, in primissimo piano, accanto a uno sgabello ribaltato, vi è l’arma del delitto, una pistola. 

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Esposta per la prima volta nel 1877 alla mostra della Società Promotrice di Torino, nonostante il soggetto lugubre, la tela venne subito acquistata dal Museo civico e presentata nuovamente, dopo la morte dell’artista, all’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino del 1880 – e non senza destare scandalo. Le cronache dell’epoca, difatti, raccontano di discussioni e critiche causate principalmente da “pregiudizi morali ed estetici”, prevedibili per un’opera “arrischiata”, che sfidava apertamente i valori familiari della società borghese del suo tempo. In che modo? Presentando agli occhi della buona e puritana società la drammatica agonia di una donna infedele, uccisa con un colpo letale dal marito. 

Tratto presumibilmente da un caso di cronaca nera, questo soggetto, nelle pennellate di Mosso, si trasforma in un quadro monumentale, alto due metri, “ricco di forza esuberante, imperioso, di evidenza terribile, che innamorava e turbava” chiunque lo guardasse. E, forse proprio per questo, rappresentò nella mostra del 1880 uno degli esempi più alti della moderna pittura piemontese, l’unico capace di fronteggiare, in quella gara nazionale, le migliori opere degli artisti delle altre province. 

Pensata in origine per chiamarsi semplicemente L’adultera, la tela di Mosso presto cambia titolo e diventa appunto La femme de Claude, il nome di una pièce teatrale di Alexandre Dumas figlio pubblicata nel 1873: un escamotage perfetto per nobilitare agli occhi della critica un quadro che rappresentava – e in qualche modo denunciava – quello che allora veniva definito sulla stampa “un orribile delitto d’onore”. Utilizzando così la copertura di un testo che parlava di un tradimento femminile non soltanto fisico ma, soprattutto, morale (in cui la protagonista Cesarina, sposata a Claudio Ruper, veniva uccisa a colpi di pistola non tanto per averlo tradito ma quanto per aver venduto all’amante i segreti professionali di suo marito), Mosso riabilita il proprio quadro, trasformandolo in un monito per tutto il pubblico moralista che altrimenti, di fronte a tanta crudele realtà, avrebbe storto il naso.

Questa storia ci porta a domandarci quanto il titolo e gli altri elementi paratestuali – come la didascalia, ad esempio – siano decisivi non solo per catturare il nostro interesse, ma anche per aiutarci a comprendere l’opera e le sue vicende biografiche da tramandare ai posteri.  Un interesse che mostriamo talvolta di soppiatto, con circospezione, perché temiamo che gli altri visitatori del museo possano vedere che non abbiamo capito qualcosa. Altre volte, invece, quasi con orgoglio perché d’improvviso ci sembra l’occasione buona per dimostrare a noi stessi e agli altri che, in fondo, vogliamo capire qualcosa di più. 

Sono le domande, dunque, che ci spingono ad avvicinarci ai testi che contornano e propagano l’aura dell’opera d’arte e dei suoi plurimi significati. Così, dopo aver passato qualche minuto a guardare la nostra tela, incrociando le braccia dietro la schiena e molleggiando un po’ sulle ginocchia sino a chinarci per osservare alcuni dettagli con grande (e simulata) intensità, finalmente possiamo tornare a fare quello a cui siamo abituati: chiedere alle parole di darci qualche risposta.

“Pensata in origine per chiamarsi semplicemente L’adultera, la tela di Mosso presto cambia titolo: un escamotage perfetto per nobilitare agli occhi della critica un quadro che rappresentava – e in qualche modo denunciava – quello che allora veniva definito sulla stampa “un orribile delitto d’onore”.

La storia dell’arte  – come tutte le discipline storiche – se la si guarda da vicino assomiglia molto al racconto. E come mostra la vicenda de La femme de Claude, è fatta di parole che spesso si muovono, si trasformano, poi a volte mancano e, più spesso di quanto vorremmo, tradiscono. Non soltanto per volontà dell’artista. 

Mosso aveva osato già tanto, forzando i limiti dell’espressione pittorica, adattando una composizione di stampo accademico a un soggetto reale, vicino al Verismo, ma non poteva di certo permettersi di farlo anche nel titolo. A qualcosa, pur di continuare a dipingere, bisognava rinunciare e, tuttavia, chi guardò da vicino quella tela tragica, qualunque fosse il suo titolo, scrisse che era “piena di uno strano fuoco”, pronto a divampare.

Se la osserviamo bene si può quasi percepire l’ultimo spasmo della donna del quadro, costretta dentro a uno spazio angusto, di cui si perdono i confini, come fosse immersa in uno stagno. Tirata da fili invisibili, questa donna senza nome – ‘la donna di’ – è stretta in una tela in cui si dibatte tra figure ideali che non riesce a impersonare come l’uomo vorrebbe: figlia, fidanzata, moglie, amante, madre.

Il suo corpo per la società in cui vive non è mai stato suo, e anche nella rappresentazione della morte questo viene imbastito in una posa rigida e innaturale, forzatamente erotica, quasi offrendolo a chi lo osserva: gambe leggermente divaricate, pube e seni preminenti, bocca dischiusa. 

Una crocifissione moderna in cui il peccato non si realizza in un’azione o nel disseminare un credo originale, ma semplicemente nell’esistere, nell’essere donna. Lo confermava anche la medicina dell’epoca, che proprio in quegli anni stava montando il fenomeno dell’isteria – le cui paralisi sintomatiche sembrano riprese dal pittore nella posizione rigida delle mani e delle dita – riaffermando come fosse proprio l’utero e, di conseguenza, l’intera fisiologia femminile, a rendere la donna pericolosamente instabile, volubile, desiderosa di praticare ed esercitare una libertà che, secondo la storia, non le appartiene per natura.

Chi ha ucciso questa donna? La cultura maschilista raccontata in un quadro -

Definito erroneamente la prima rappresentazione di un femminicidio, questo quadro e la silente negoziazione del suo titolo, ci raccontano, in realtà, non soltanto un fatto storico, lontano da noi, ma qualcosa che ancora ci riguarda: il modo – testuale o visivo – in cui raccontiamo le relazioni tra uomo e donna. Se si scandaglia la storia dell’arte vediamo con troppa chiarezza come lo spazio della libertà, di pensiero e di azione, anche sulle pareti dei nostri musei, resti ancora appannaggio quasi esclusivo del maschile. Mentre, lo ribadiscono diverse studiose sin dagli anni Settanta – in primis Linda Nochlin con il suo potente pamphlet Perché non ci sono state grandi artiste? – sono ad oggi ancora poche le opere d’arte eseguite da donne all’interno dei nostri patrimoni e, se possibile, ancora meno quelle all’interno dei manuali e dei saggi usati a scuola e in università.

“Definito erroneamente la prima rappresentazione di un femminicidio, questo quadro e la silente negoziazione del suo titolo, ci raccontano, in realtà, non soltanto un fatto storico, lontano da noi, ma qualcosa che ancora ci riguarda”.

L’arte delle donne (una definizione che preferisco a “l’arte femminile” o “l’arte femminista” perché, non implica una svalutazione insita nella lingua o una dimensione politica – tra l’altro non sempre presente o cercata nella loro produzione artistica) e la libertà che qualsiasi loro azione creativa implica, sono ancora considerate esotiche: vivono in un habitat protetto, con percorsi tematici ad hoc, fatti di grafiche rosa e grandi nomi, diventando infine cataloghi senza casa, venduti in libreria in apposite sezioni dedicate al “mondo del femminile”.

Non stupisce, invece, come l’immagine della violenza di genere e della donna traditrice che sembra meritarsi questa efferatezza, nell’arte come nella mitologia, ritorni instancabilmente e, il più delle volte, senza alcuna spiegazione, per chi la guarda, dei titoli tutt’altro che trasparenti che la accompagnano. 

Greta Plaitano

Greta Plaitano è una storica dell’arte, lavora e insegna all’Università di Udine, all’Accademia di Brera e all’Albertina di Torino. Ha scritto per «Il Tascabile» e «L’integrale» e altre riviste. Per Lucy, cura la rubrica Sembra fatto da un bambino.

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