Elena Sbordoni
10 Giugno 2024
Jón Kalman Stefánsson è una delle voci più originali e interessanti della letteratura nordica. Una conversazione su scrittura, musica, natura, piccoli borghi, sentimenti e passioni, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, "Il mio sottomarino giallo" (Iperborea).
Quando a 17 anni fantastico di intraprendere un viaggio in Islanda con uno dei miei più cari amici, il suo rifiuto è netto: “No, la prima volta dobbiamo essere solo io e Stefánsson”. Stefánsson è Jón Kalman Stefánsson, scrittore. Il mio amico, senza soldi e con la romantica e irragionevole determinazione dell’adolescenza, sognava di raggiungere l’Islanda via nave, con nient’altro che una mappa, un impermeabile giallo e una valigia piena di suoi libri. Una volta lì, avrebbe rincorso tra le brughiere i personaggi di storie che, ai suoi occhi di abitante di una cittadina del Nord Italia, erano così misteriose ed esotiche.
Jón Kalman Stefánsson nasce a Reykjavík nel 1963. Dopo la scuola superiore lavora nell’acquacoltura del merluzzo, in un macello di pecore, come muratore e agente di polizia aeroportuale. Si appassiona alla fisica e all’astronomia e infine alla letteratura: la studia all’Università d’Islanda, senza conseguire la laurea. Inizia con la poesia, poi si orienta verso la narrativa, volgendo la ricchezza evocativa e immaginifica della scrittura in versi alla prosa, che gli permette di affermarsi come uno dei più amati scrittori nordici contemporanei.
La sua opera, che in Italia consta di dieci romanzi e due raccolte di poesie, tutte pubblicate da Iperborea e tutte tradotte da Silvia Cosimini, si può suddividere in due fasi: una più sognante e intrisa di fiducia in cui vengono collocati Crepitio di stelle e Luce d’estate ed è subito notte, seguita da una più cupa e malinconica che raccoglie La trilogia del ragazzo (Paradiso e inferno, La tristezza degli angeli, Il cuore dell’uomo), I pesci non hanno le gambe, Grande come l’universo e La tua assenza è tenebra. Stefánsson però non ama definire la propria scrittura, i propri personaggi o luoghi. Silvia Cosimini in un approfondimento su «TuttoLibri – La Stampa» scrive:
“I suoi sono romanzi pieni di vita, di vite normali, meschine e straordinarie. Spesso ritagliate in momenti e poi ingarbugliate in flashback e fast forward”.
Incontro Stefánsson in una calda giornata primaverile in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro, Il mio sottomarino giallo. È il primo romanzo di aperta ispirazione autobiografica, che scruta la vita di uno scrittore islandese a partire dal momento più traumatico della sua infanzia: la morte della madre.
Stefánsson si presenta nella lounge dell’NH Lingotto con un completo di lino color panna e una maglia a righe bianche e blu. Mi fa sapere che la differenza di temperatura tra Torino e Reykjavík è di 20 gradi e mi domanda se sia mai stata in Islanda. Ci sono stata, sì, da sola.
Il mio sottomarino giallo è “arrivato” mentre stavi scrivendo già un altro libro… in che modo questa storia ha preso il sopravvento sull’altra?
Stavo lavorando a un romanzo storico, ambientato nei Fiordi occidentali islandesi più di 400 anni fa. Ho passato mesi a documentarmi, ho iniziato a scrivere ed ero soddisfatto, mi sembrava di aver imboccato la strada giusta. Ma poi quest’altra storia ha iniziato a insediarsi nella mia mente. Avevo la sensazione di averne già scritto in passato in Crepitio di stelle e in un altro libro, una sorta di fratellastro di Crepitio di stelle pubblicato solo in Islanda e quindi, temendo di ripetermi, scacciavo la tentazione di scrivere questa storia. Ma ha continuato a bussare alla mia porta. Non mi era mai successo prima, perché di solito quando inizio a scrivere un romanzo nulla riesce a distrarmi. Perciò ho deciso di darle una possibilità. Mi sono detto “proverò a scrivere per tre o quattro settimane, vediamo se ne esce fuori qualcosa di buono” e alla fine ho scoperto che il romanzo era più articolato di quanto pensassi, diverso da quello che avevo già scritto. Ero molto grato di scoprire che un romanzo scritto vent’anni prima potesse crescere, cambiare forma. Come scrittore ho spesso la sensazione di non essere io a scegliere davvero di cosa scrivere. In quel momento era come se il destino mi stesse ordinando di scrivere questa storia.
Dal titolo si intuisce che i Beatles avranno un ruolo non secondario nel romanzo. E d’altronde la musica è spesso presente nella tua produzione: ne La tua assenza è tenebra è il protagonista Eiríkur prepara una playlist per la Morte, affinché si senta “meno sola” e provi un po’ più di vicinanza alla vita…
Per me romanzi, poesia e musica sono cose vive. Se metto in connessione letteratura e musica con tutto ciò che mi circonda è perché per me sono le uniche cose che ci rendono umani. Credo che la buona musica vada oltre la comprensione umana, quindi se Dio esiste, se il diavolo esiste, se c’è una vita dopo la morte, penso che sia la musica a poterci condurre in quella dimensione del nostro universo.
È vero che da ragazzino, quando scopri della morte di John Lennon, compri una chitarra per poterlo rimpiazzare nel caso in cui i Beatles decidessero di riunirsi…
Sì, beh, magari è vero o magari no… Sicuramente i Beatles sono stati una parte fondamentale della mia vita da quando avevo dieci anni, sono una delle migliori band di sempre, hanno cambiato praticamente ogni cosa nella musica. Non stufano mai, continuano ad uscire articoli e libri su di loro… per il documentario Get back tutti sono impazziti, anche le persone che non li ascoltano. Non è solo merito della loro musica, ma dell’amicizia. Quando cantano, specialmente Lennon e McCartney, le loro voci si fondono come se stessero facendo l’amore. Toccano qualcosa di molto intimo dentro di noi, un desiderio profondo che alberga in tutti noi.
Per usare le tue parole, nei tuoi romanzi “la narrazione non rispetta alcuna legge se non le sue stesse”. I personaggi compaiono e scompaiono nel giro di poche pagine, avvolti da un’atmosfera perturbante e indecifrabile…
Ci illudiamo di poter ricondurre il tempo a un ordine razionale… anche la vita, crediamo di poterla comprendere con la ragione. Dal mio punto di vista, questo è un modo terribilmente limitato di pensare a noi stessi e al mondo, perché non siamo poi così razionali e logici come vorremmo. Siamo controllati dai nostri sentimenti, mossi dalle nostre passioni.
Siamo animali, anche se cerchiamo di negarlo: ci sentiamo superiori, reprimiamo i nostri istinti, convinti che così riusciremo a comprendere con lucidità il mondo. Ma se fossimo davvero in grado di comprendere il mondo, di capire il significato ultimo delle cose, non avremmo bisogno di leggere, scrivere, ascoltare musica. Se lo facciamo, è perché sentiamo che c’è qualcosa di indecifrabile a cui non riusciamo a dare forma. La letteratura per me serve a questo.
“Per me romanzi, poesia e musica sono cose vive. Se metto in connessione letteratura e musica con con tutto ciò che mi circonda è perché per me sono le uniche cose che ci rendono umani”.
Anche la natura è misteriosa, in parte inconoscibile. Nei tuoi romanzi si percepisce la sua forza, ma nessuno dei personaggi prova ad addomesticarla e nessuno prova a sfuggirle. Come un personaggio, condiziona la vita di chi la incontra. Nella Trilogia del ragazzo è inclemente con i protagonisti dall’inizio alla fine. Quando si apre un piccolo spiraglio di salvezza è un’illusione crudele. In Italia c’è sicuramente una concezione della natura molto diversa rispetto all’Islanda. Che rapporto c’è tra gli islandesi e la natura?
È molto diverso qui rispetto all’Islanda. È sempre strano per me quando volo sopra l’Europa vedere che tutto è disposto secondo un ordine preciso, asfissiante… ho la sensazione di soffocare, che la Terra stia soffocando. Gli europei hanno la pretesa di controllare la natura, ma si può controllare solo fino a un certo punto. Puoi sperare di addomesticarla per un po’ di tempo, magari anche secoli, ma alla fine si prenderà la sua rivincita. Nella maggior parte dell’Europa, la natura selvaggia non ha posto, è diventata un rimosso, qualcosa di distante e straniero, quasi una minaccia. In Islanda è diverso.
L’Islanda è una grande isola con poche persone sparse qua e là, e molta natura. È anche una terra giovane – circa venti milioni di anni –, molto vitale, letteralmente: si muove, c’è il magma sotto ogni cosa, ci sono terremoti continui, è febbrile. La natura è sempre stata una parte fondamentale della nostra storia. La storia dell’Italia è costellata da re, signori, papi che, con le loro battaglie, hanno influito per secoli sulle vostre vite in modi terribili. La nostra battaglia è da sempre con la natura, non perché la natura sia crudele ma perché è forte e potente. Anche se guardiamo alla natura in modo diverso da voi, anche in Islanda ci sono persone che la natura vorrebbero dominarla e trarne profitto.
Recentemente, ad esempio, ci sono frequenti eruzioni nei pressi di Reykjavík. Per me è assurdo pensare pensare che il magma che sale dal centro della Terra abbia centinaia di anni, è come se fosse un messaggio che arriva da Dio, o dal diavolo, o magari dalla Terra stessa. Nonostante non siano eruzioni di grande portata sono così potenti che non ci si può opporre in alcun modo e questo mi ricorda quanto gli esseri umani siano in realtà creature straordinariamente fragili.
“È sempre strano per me quando volo sopra l’Europa vedere che tutto è disposto secondo un ordine preciso, asfissiante… ho la sensazione di soffocare”.
Nella formazione del protagonista de Il mio sottomarino giallo i personaggi di Sesselja e Guðmundur, i due anziani coniugi del piano di sopra sono fondamentali. Gli raccontano del loro viaggio in Italia, tra borghi arroccati, come Sori, un piccolo paese ligure tra Genova e Recco, e città d’arte, lo invitano a studiare l’italiano. “A volte nei posti piccoli la vita diventa più grande” scrivi in Luce d’estate. Che legame hai con quel luogo e con l’Italia?
Quando ero bambino, l’Italia era qualcosa di incredibilmente distante, anche culturalmente. Per noi un paradiso per via del clima, della frutta. Poi cresci e realizzi che l’Italia non è perfetta ma, come per l’Islanda, è quasi impossibile non innamorarsene…
Per quanto riguarda Sori… ci sono stato un paio di volte e ha qualcosa di speciale, mi è rimasta impressa. In Italia, come in Islanda, molti luoghi soffrono a causa del turismo. Da un lato ne soffrite, dall’altro ne traete beneficio: i turisti permettono di guadagnare molto, ma il rischio è di perdere il valore del tempo, che lì scorre diversamente, più lentamente, come fosse eterno. Nei piccoli borghi, come Sori, entri in un ufficio postale e vieni trasportato negli anni Sessanta. Abbiamo bisogno dei paesini per riequilibrare la frenesia delle città, senza nostalgia, ma con la curiosità di esplorare tutte le sfumature di una cultura.
I tuoi personaggi sono sempre molto riservati, cinici e freddi nelle relazioni. Riescono a rivelare il loro lato più tenero e vero solo in contesti intimi e familiari. Sono le relazioni più sincere che ci permettono di capire la nostra umanità…
Non voglio spiegare il modo in cui agiscono i miei personaggi, dire “questo personaggio è così e così…” perché voglio che siano loro stessi a esprimersi, ciascuno secondo il proprio carattere. Si impara a conoscerli, a odiarli, a volergli bene leggendo, proprio come nella vita accade con le persone.
Scrivere i pensieri dei personaggi è come fare musica: detti un tono e segui il flusso della melodia. Se provo a fare qualcosa di diverso, i miei personaggi mi dicono “mh mh, questo è il tuo lavoro, puoi fare di meglio ”. Non riesco a fargli dire quello che vorrei, è come se avessero vita propria.
Nei tuoi romanzi, ti bastano pochi passaggi per tracciare collegamenti profondi con l’attualità: qui compare Putin, parli di Gaza, dei palestinesi e degli israeliani, in altri libri c’è pure Trump. Come si deve porre uno scrittore rispetto agli eventi che accadono nel mondo?
Se qualcuno vuole esprimere la propria opinione, relazionarsi con gli eventi contemporanei, ad esempio ciò che sta accadendo a Gaza, o la guerra in Ucraina, ci sono modi migliori per farlo rispetto ai romanzi. Questo perché i romanzi hanno bisogno di tempo per essere scritti, si muovono lentamente. A volte servono anni prima che siano pubblicati. Se vuoi avere un’influenza sulle cose, meglio scrivere un pezzo per un giornale. O una canzone. Ma se sei uno scrittore, tutto ciò che accade ti risuona dentro.
Quando ho inserito Trump in uno dei miei libri, è perché la storia lo richiedeva. Se inizi a giudicare però, ad accusare Trump o Putin, a quel punto il lettore smette di credere nella finzione che stai raccontando. Trump, Putin, Netanyahu – o altri di quei bastardi – devono essere funzionali alla narrazione. Pochi autori sanno raccontare in modo puntuale e critico il loro tempo. Penso a Bulgakov, che ne Il maestro e Margherita esplora il periodo terribile dello stalinismo e la corruzione dell’Unione Sovietica in modo brillante, ma pochissimi sanno scrivere come lui e questo rende il suo romanzo ancora geniale e attuale cento anni dopo. Io credo, in quanto scrittore, che dovremmo essere in grado di incidere su ciò che ci circonda e sul nostro tempo. Vorrei che i miei romanzi potessero davvero influire sul genocidio che sta avvenendo a Gaza, ma sono consapevole che ciò che posso fare è molto limitato. Ci provo sempre, ma alla fine è sempre il romanzo che comanda.
Le foto di quest’intervista, a eccezione della copertina, sono di Elena Sbordoni.
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