Come si contano le vittime di una guerra? - Lucy
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Donata Columbro

Come si contano le vittime di una guerra?

22 Febbraio 2024

Gli aggiornamenti quotidiani sui conflitti in corso traboccano di cifre e statistiche su morti, feriti, dispersi, sfollati. Leggere i dati in guerra è una faccenda complessa, quasi mai neutrale ma fondamentale per restituire una parvenza di oggettività agli eventi. Ecco come cercano di farlo i database indipendenti.

Nel romanzo La guerra dei bottoni dello scrittore Louis Pergaud, pubblicato nel 1912 e ambientato nella regione francese della Borgogna, due bande di ragazzini dei paesini di Longeverne e Verlans si affrontano in lotte selvagge il cui obiettivo diventa presto sottrarre bottoni, spille e fibbie ai propri rivali. Il bilancio della refurtiva è il modo per decretare i vincitori delle battaglie quotidiane. Contare i bottoni e le fibbie rubate ai propri avversari però è un’operazione molto più semplice e immediata rispetto al registrare i morti o i feriti in una guerra vera.  

È a partire dalla definizione di cosa stiamo contando e misurando che cambia completamente il modo di raccogliere dati e quindi di costruire le statistiche che poi sostengono la narrazione dell’una o dell’altra parte del conflitto. Per analizzare la situazione delle guerre e delle crisi a livello internazionale esistono diversi database nati in maniera indipendente che aggregano dati dalle fonti statistiche ufficiali dei paesi coinvolti o sostengono gruppi informali di organizzazioni dal basso che monitorano le violenze soprattutto dove non esistono raccolte dati da parte di enti istituzionali o affidabili. Tra i database più usati da chi fa ricerca e dai media ci sono l’Uppsala Conflict Data Program (UCDP) – su cui si basa anche Our World in Data – e l’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED).

Il database compilato dall’università di Uppsala non è aggiornato in tempo reale e viene costruito attraverso le ricerche di eventi di violenza con esiti fatali (cioè, con vittime) dal Dow Jones Factiva, un aggregatore di contenuti da oltre 30mila fonti in diverse lingue. Le ricerche avvengono estraendo tutti gli articoli entro parametri specificati, che in questo caso sono le notizie con informazioni su persone uccise o ferite. Vengono consultati anche rapporti e dati di organizzazioni non governative e internazionali, rapporti di commissioni indipendenti delle Nazioni Unite, archivi storici e altre fonti di informazione. Molte di queste fonti, come spiega l’Ucdp nella sua metodologia, sono locali, come l’INSEC (Informal Service Sector) in Nepal o il SOHR (Syrian Observatory for Human Rights) in Siria e sono indicate in modo specifico per ogni paese.

Il team di Acled, che è un’organizzazione non profit con sede negli Stati Uniti, vuole invece fornire dati in tempo reale su tutte le crisi in corso e per farlo usa i dati ufficiali degli istituti di statistica di ogni paese, ma anche quelli dei gruppi di attivisti e associazioni locali. Acled è stata fondata nel 2005 da Clionadh Raleigh, docente di Political Violence and Geography all’università del Sussex, durante il suo dottorato di ricerca: “Mentre scrivevo la tesi mi sono domandata spesso perché, quando si verificano diversi conflitti all’interno di un unico paese, ci si concentri solo su quelli che hanno una dimensione di guerra civile, tralasciando violenze che però sono importanti per la sicurezza delle persone che vivono in quei territori”. Il motivo, secondo Raleigh, è che alcuni episodi di violenza non rientrano nelle classiche definizioni di conflitto. “La prima cosa che ho fatto è stata capire quale percentuale di violenza fosse in gran parte ignorata dagli studiosi perché non avevano informazioni al riguardo e da lì abbiamo iniziato ad ampliare la definizione di dati da raccogliere”.

“Contare i bottoni e le fibbie rubate ai propri avversari però è un’operazione molto più semplice e immediata rispetto al registrare i morti o i feriti in una guerra vera”.

Consultare i manuali – in gergo codebook – di siti come quello di Acled o dell’Ucdp è una lezione di epistemologia del dato che ci fa comprendere che, prima di contare e misurare, le decisioni da prendere riguardano la definizione del fenomeno da osservare. Rispetto a una crisi posso valutare per esempio se si tratti di un conflitto “attivo”, cioè in corso, oppure no, se ci sono stati accordi di coprifuoco, quanti e la loro durata, se è una guerra “armata” cioè se almeno uno dei due attori coinvolti è un governo riconosciuto oppure se è tra stati, o “intrastati”, e molto altro. Il manuale di Acled ha 42 pagine e quello di Ucdp 39, e forniscono entrambi metadati, cioè informazioni sui dati, con le descrizioni di ogni colonna dei dataset disponibili, utili a capire che guardare solo al numero di vittime di un conflitto è un modo molto riduttivo di analizzare la situazione.

Durante la pandemia da coronavirus ci siamo abituati a osservare infografiche  piene di numeri che venivano aggiornate quotidianamente: abbiamo vissuto il bollettino prima con angoscia e timore crescente per quello che stava accadendo, poi con il bisogno di di capire il significato dietro ogni cifra. Da qualche mese stiamo di nuovo condividendo e commentando un tragico bollettino, quello delle vittime dei bombardamenti di Israele su Gaza. L’ufficio statistico nazionale palestinese aggiorna periodicamente il numero di morti, e i media li usano per creare grafici e infografiche che hanno spesso lo stesso effetto delle dashboard sul covid a fine emergenza: invece di informare, generano apatia. Quindi si fanno altri maldestri tentativi per ridestare l’attenzione dei lettori, per esempio confrontare due conflitti molto diversi come quello tra Ucraina e Russia e tra Israele e Gaza: niente di più fuorviante.Contare i morti in una guerra è una questione complessa, difficilmente neutrale. Se analizziamo la modalità di comunicare e raccontare i dati da parte del ministero della salute di Gaza e del ministero della difesa ucraino, vediamo che si tratta di una scelta politica: il primo elenca i morti del proprio popolo, il secondo le sconfitte dell’esercito nemico.

Secondo gli autori della ricerca Counting casualties: A framework for respectful, useful records decidere di registrare o meno le vittime di una guerra rappresenta un giudizio di valore, una scelta ben precisa. Pare che per rispondere a una domanda sui progressi della campagna militare in Afghanistan il generale statunitense Tommy Franks abbia detto: “Non facciamo la conta dei cadaveri”. Alcuni sostengono questa politica perché eviterebbe una pratica che in passato ha distorto la condotta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, dove il conteggio enfatizzava il numero dei morti dei nemici, piuttosto che le conseguenze sociali, economiche, politiche e ambientali del conflitto. 

A Gaza il conto delle vittime avviene dal primo giorno da parte del ministero della salute e viene comunicato sul sito dell’ufficio statistico nazionale, una fonte ritenuta affidabile da diversi studiosi, come mi conferma Orsola Torrisi, ricercatrice alla ​​New York University di Abu Dhabi, demografa ed esperta dei cambiamenti della fertilità legata alle situazioni di conflitto, che spesso viaggia proprio sul campo per raccogliere dati di prima mano. Quando ci sentiamo è atterrata da sei ore dalla Guinea Bissau, dove, dice, “l’anagrafe praticamente non esiste”, e questo rende il suo lavoro molto più difficile. Sia Torrisi che Raleigh mi confermano che la situazione palestinese è quasi unica, per quanto riguarda le informazioni aggiornate disponibili.

La homepage del sito dell’ufficio nazionale di statistica palestinese si apre con cinque riquadri in cui vengono sintetizzati i principali numeri sulle conseguenze dell’aggressione israeliana dopo il 7 ottobre. Ci sono i martiri, cioè le vittime, le persone ferite, gli sfollati, i detenuti e le case danneggiate. Ogni riquadro porta a una pagina che contiene dati disaggregati sulle diverse categorie di persone uccise, ferite o sfollate, separando i bambini, le donne, il personale medico, i giornalisti e molti altri. 

Come si contano le vittime di una guerra? -

“L’Ucraina si trova in una posizione molto diversa”, spiega Raleigh, “non vuole parlare delle vittime e non vuole parlare degli eventi. E questo è in parte dovuto al fatto che, da un’analisi che ho appena fatto, ho scoperto che nell’ultimo anno la Russia è responsabile di 31mila bombardamenti o eventi di bombardamento in più rispetto all’Ucraina. Il numero di battaglie è quasi uguale, ma la Russia domina di gran lunga quando si tratta di violenze o esplosioni a distanza”. In realtà, aggiunge, “i numeri di questo conflitto vengono oscurati da entrambe le parti per minimizzare quello che la gente sa essere il costo effettivo. Mentre nella situazione di Gaza, il costo viene massimizzato”. 

Quando i dati sono affidabili i demografi possono utilizzare lo strumento dell’eccesso di mortalità, che abbiamo visto anche in pandemia, per stimare le vittime e verificare che siano coerenti con le situazioni di pace o di altri periodi di conflitto. “La metodologia dell’excess mortality”, mi spiega Torrisi, “consiste nel confrontare il numero di decessi verificatisi durante un periodo di conflitto con un tasso di mortalità atteso basato su dati storici o previsioni in assenza del conflitto. Questo approccio permette di stimare l’impatto diretto e indiretto dei conflitti sulla mortalità, includendo non solo le morti causate direttamente dagli scontri, ma anche quelle dovute a malattie, malnutrizione, o crollo dei servizi sanitari”.

Anche se funziona solo quando i dati vengono raccolti su base sistematica da istituzioni solide e quando c’è una serie storica abbastanza consistente da poter essere confrontata. 

Cosa succede quando non è così? Bisogna ingegnarsi e trovare altre fonti. “Non avendo accesso ai dati anagrafici russi un collega ha sfruttato il registro per le eredità”, racconta Torrisi. Ha cercato cioè di prevedere le aspettative riguardo alle richieste di eredità da parte dei parenti dei defunti, osservando quante persone avessero presentato una domanda (il numero di “filing”) dal febbraio 2022 ad oggi. Attraverso questo metodo è stato possibile dimostrare un notevole aumento di richieste di eredità, circa 45mila in più rispetto al periodo precedente, indicando un possibile incremento delle morti tra gli uomini le cui famiglie si sono rivolte alle autorità per il trasferimento delle eredità. “Questo approccio offre un’indicazione indiretta, ma significativa dell’impatto del conflitto sulla mortalità, pur con la cautela che tali aumenti di richieste di eredità potrebbero essere attribuiti anche ad altre cause”, specifica la demografa. Ogni numero riportato sui giornali che riguardi un dato di questo tipo non dovrebbe essere mai riportato in modo definito, sostiene Torrisi, ma solo dando una stima, “fornendo gli intervalli di confidenza entro cui è possibile che siano state colpite un certo numero di persone da quel fenomeno o episodio”. 

I ricercatori di Acled hanno di recente presentato il Conflict Exposure Calculator, un nuovo strumento per monitorare la quantità di persone esposte alle violenze osservando l’impatto dei singoli eventi in base alla numerosità della popolazione entro un certo raggio. Non solo le vittime dirette quindi, ma anche quelle indirette, con tutte le conseguenze di vivere in una situazione di crisi per un tempo prolungato. 

“Se analizziamo la modalità di comunicare e raccontare i dati da parte del ministero della salute di Gaza e del ministero della difesa ucraino, vediamo che si tratta di una scelta politica”.

Nelle campagne francesi di Louis Pergaud le ripercussioni più gravi delle battaglie delle due bande rivali ricadono tutte sui ragazzi di Longeverne e di Velrans, puniti dai genitori e dal temibile maestro di scuola Papà Simon. Alla fine, il “libro dei conti” dei Longeverne rimane l’unico documento delle loro epiche contese in mezzo ai boschi, l’archivio di una guerra che per tutto il romanzo è stato “il segreto che costituiva la forza e la gloria dell’esercito di Longeverne”, da difendere anche davanti al maestro che quasi lo scopre durante una lezione a causa di un movimento maldestro del tesoriere Tintin. Tanto diventa urgente per lui controllare che il bottino risulti effettivamente ricco come dal primo conteggio della giornata che fa rovinare a terra tutti i bottoni e l’amico Lebrac fa appena in tempo a salvare il prezioso “registro” dagli sguardi di maestro e compagni.

Quello dei dati è un linguaggio e, in quanto tale, uno strumento di comunicazione che contiene una forma di potere: quella che detiene chi decide cosa contare e come raccontare le statistiche raccolte. In una guerra, un’arma in più da non sottovalutare. 

Donata Columbro

Donata Columbro è giornalista e docente di “Data Visualization” in Iulm. Il suo ultimo libro si intitola Dentro l’algoritmo (Effequ, 2022).

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