06 Marzo 2024
Per un intellettuale del Novecento, militanza e lavoro ben fatto venivano spesso prima di ogni altra cosa. Per questo, l’incontro con il proprio scrittore o attore preferito poteva saltare a causa di una riunione di redazione o di un corteo pacifista. Oggi che quell’età irripetibile è finita, quegli incontri mancati lasciano più di un rimpianto, almeno in Goffredo Fofi che, per la prima volta, racconta i suoi.
INTRODUZIONE
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Per tanti anni una mia abituale occupazione è stata quella di collaborare a riviste o di idearne e dirigerne, sul versante della cultura e della politica o anche della pedagogia, e ho così avuto modo di conoscere molte persone di valore, non solo tra i cosiddetti operatori sociali. Tra gli intellettuali e gli artisti mi è anche capitato, per mia colpa o per circostanze da me non controllabili, di aver perduto la possibilità di incontrarne alcuni tra quelli più amati, non solo per intervistarli o corteggiarli, soprattutto perché tanto li ammiravo e per dir loro la mia ammirazione o la mia riconoscenza per quanto da loro avevo imparato.
Gli incontri che più mi è dispiaciuto di perdere sono stati con un grande attore, Totò; con un grande rivoluzionario della cultura, André Breton padre del surrealismo: con un grande filosofo, Adorno, della “scuola di Francoforte”; con un grande prete ed educatore, don Lorenzo Milani; con un grande scrittore, Beppe Fenoglio…
Ho avuto un appuntamento da Totò (o meglio: dal principe Antonio de Curtis) per intervistarlo per una rivista di cinema francese importante, «Positif», di cui ero peraltro uno dei redattori. Si trattava di un sabato, mi pare, del 1965. Ma sul treno che mi portava a Roma incontrai molti amici, tra i quali c’era Franco Fortini, che scendevano a Firenze per una delle prime grandi manifestazioni contro la guerra del Vietnam, e Fortini mi convinse a prendervi parte. Ma quando la mattina dopo, a Roma, telefonai a casa di Totò mi rispose una cameriera: il principe, molto stanco, si era recato per il week-end a Lugano, dove lui e la sua compagna – più tardi mia grande amica, e coautrice con me del primo grande libro dedicato a Totò: Franca Faldini – avevano un appartamento che li isolava dal chiasso romano e dagli ammiratori italiani. Il principe mi invitava a seguirli a Lugano, ma io non avevo abbastanza denaro per permettermi un altro viaggio, e avevo già il biglietto di ritorno per Parigi sul treno diretto notturno, il Palatino. Mannaggia a me, e a Franco Fortini!
Il secondo incontro mancato fu quello con il mitico André Breton, che aveva molti amici nella redazione di «Positif» e che mi mandò un biglietto della posta espresso parigina fissando l’incontro a molti mesi dopo, ché prima non avrebbe potuto. Disgraziatamente, egli morì un mese prima che potessi vederlo. L’argomento principale dell’intervista avrebbe dovuto essere il suicidio di René Crevel, il giovane poeta surrealista che si era prodigato perché al Congresso per la libertà della cultura del 1935, annuncio di Fronte Popolare, l’intervento di Breton, inviso ai comunisti anche perché amico di Trotskij, l’intervento di Breton venisse almeno letto da un suo ex sodale che stava passando al Pcf, Paul Eluard. Crevel, dopo estenuanti trattative, rientrando in casa si era suicidato col gas lasciando un biglietto con una sola parola: “Dégouté”. ‘Disgustato’. Crevel era omosessuale ed era diventato anche lui filo-comunista e oltre al resto Breton non amava affatto gli omosessuali, e mal sopportava quelli del suo stesso gruppo.
“Ma quando la mattina dopo, a Roma, telefonai a casa di Totò mi rispose una cameriera: il principe, molto stanco, si era recato per il week-end a Lugano”.
Il terzo non-incontro fu con il filosofo Adorno. Volendo fare un’esperienza di fabbrica (sì, avevo letto La condizione operaia della Weil ed ero nel gruppo torinese dei «Quaderni rossi» attivissimo alle porte della Fiat…) e non essendo certamente accettato alla Fiat per via di quanto avevo scritto contro i suoi padroni seguii in Germania, e siamo ancora nella prima metà degli anni Sessanta, un amico conosciuto nella comunità valdese di Agape, che era “pastore operaio” alla Hoechst di Francoforte (non c’erano solo preti operai, al tempo, c’erano anche dei protestanti pastori-operai), e che mi fece assumere in fabbrica ma al carico e scarico notturno di merci e materiali, dentro un gruppo di immigrati sbarcati da poco dalla Spagna. Fu ancora lui a portarmi raccontare quanto accadeva nelle nostre fabbriche agli assistenti e allievi di Adorno, all’università, alcuni dei quali divennero più tardi dei noti leader del movimento studentesco (tra loro c’era certamente il bravissimo Rudi Dutscke dal tragico destino) e a farmi invitare da sua sorella, violoncellista non professionale, la domenica pomeriggio in casa di Adorno, che era membro di un quartetto di dilettanti che amava esibirsi per pochi amici. Disgraziatamente Adorno si prese l’influenza e l’incontro venne rimandato, e siccome fu quello un inverno freddissimo, e io lavoravo di notte e all’aperto con i miei spagnoli tremando come una foglia, e siccome da Torino il carissimo Giovanni Pirelli richiedeva insistentemente il mio aiuto all’Einaudi per il lavoro redazionale su una grande raccolta di “lettere della rivoluzione algerina”, ché solo di me o quasi si fidava… decisi di tornarmene in patria non appena avuta la paghetta di una settimana… Che faccia avrebbero fatto i miei amici e maggiori Cases e Solmi quando avessi raccontato del mio incontro con Adorno – se ci fosse stato!
Un terzo incontro mancato – mea maxima culpa! – riguardò don Lorenzo Milani. Mi telefonò da Perugia il mio maestro e amico Aldo Capitini che sarebbe andato a trovarlo portato in macchina dal comune amico Mencaroni e che mi avrebbero volentieri raccolto in qualche punto a Firenze, uscendo dall’autostrada. Anche stavolta ci fu di mezzo qualche appuntamento politico di massa, e dovetti rinunciare, piuttosto stupidamente. E ancora me ne pento.
Infine il quarto incontro mancato riguarda uno scrittore per il quale avevo e mantenuto negli anni un’assoluta venerazione, Beppe Fenoglio. Quante volte ho letto Una questione privata? Facevo bozze o altro all’Einaudi di via Biancamano, a Torino dove allora vivevo, e scendendo una sera all’ora di chiusura incontrai sulla soglia un gruppetto di redattori che ben conoscevo, tra quali Giulio Bollati, che mi invitarono ad andare con loro ad Alba a trovare Fenoglio, molto malato. Ci saremmo poi fermati a mangiare, tornando verso Torino, in qualche osteria delle Langhe. Rifiutai molto a malincuore di seguirli, perché quella sera era prevista una riunione del gruppo dei «Quaderni rossi», di cui facevo immeritatamente parte. Ancora il super-io della militanza! Di riunioni se ne facevano mille ma di Fenoglio ce n’era uno solo, e morì qualche mese dopo.
Oggi, peraltro, c’è ancora qualcuno che davvero, davvero!, mi piacerebbe conoscere e che così tanto mi dispiacerebbe di perdere? Coloro che più ammiro li conosco in gran parte, e sì, tra quelli che non conosco ci sono certamente molti stranieri che amerei incontrare. Ma i loro libri mi bastano, e per fortuna non sono affatto un collezionista di firme.
Nel Novecento la venerazione per i propri miti veniva per molti in secondo piano, dopo la militanza e il super-io del lavoro “ben fatto”. L’incontro col proprio scrittore preferito poteva saltare per una riunione di redazione e l’intervista al proprio attore feticcio essere rimandata per un corteo pacifista. Comprensibile, col senno di poi, che si possa restare con più di rimpianto, specie perché si trattava di personaggi del calibro di Totò, Don Milani, Breton e Fenoglio.
Goffredo Fofi
Goffredo Fofi è saggista, critico cinematografico e letterario. Il suo ultimo libro è Cari agli dèi (Edizioni E/O, 2022).
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