Peppe De Santis, con "Riso amaro", ottenne uno dei maggiori successi cinematografici italiani a livello internazionale di sempre. Fu lui a lanciare grandi attrici e a portare sulla scena una provincia mai vista. Dopo il miracolo economico, tramontò la sua idea di cinema marxista che, pure, è stata d’esempio a molti.
Nel 1949, quattro anni dopo la fine della guerra, esplose il successo internazionale di un film italiano, un successo che fu, credo, persino superiore a quello di Roma, città aperta di Rossellini. Era Riso amaro di Giuseppe (Peppe) De Santis, un giovane regista di origine ciociara che proveniva dalla critica e aveva collaborato assiduamente a «Cinema», la rivista fondata e diretta da Vittorio Mussolini – un figlio del “Duce” che seppe farne uno spazio di fronda inconsueto per il regime, e sulle cui pagine si esercitarono perfino due dei massimi dirigenti, più tardi, del Partito Comunista, Ingrao e Alicata.
La rivista si muoveva nei limiti del consentito, ma accolse un’invettiva di Luchino Visconti contro i “cadaveri” della burocrazia cinematografica del regime. De Santis proponeva su quelle pagine un “ritorno alla realtà” a partire da una tradizione che era quella dei Verga e degli scapigliati, e fu tra gli sceneggiatori di Ossessione, il primo capolavoro del nascente neorealismo, diretto coraggiosamente da Visconti. Subito dopo la Liberazione, De Santis, che aveva preso parte alla Resistenza da comunista, raccolse documenti su quelle vicende per un lungometraggio che chiamò Giorni di gloria, mettendo insieme materiali d’archivio con riprese ad hoc.
L’ispirazione per Riso amaro venne a De Santis da un articolo di Corrado Alvaro, grande scrittore oggi trascurato, che nella stazione di Milano aveva assistito al passaggio da un treno a un altro di un allegro e vasto gruppo di mondine, reduci dalla “stagione” nelle risaie piemontesi, che tornavano alle loro case in Emilia, in Veneto, in Romagna… L’ambizione dichiarata di De Santis era quella di un cinema che fosse a cavallo “tra Hollywood e Mosca”, altamente spettacolare ma anche altamente educativo e socialmente ambizioso (tanti anni dopo fu questa anche l’ambizione di Bernardo Bertolucci, specialmente nel suo Novecento), ma a colpire il pubblico del film, e soprattutto quello straniero, fu la presenza di Silvana Mangano, reduce da un concorso di Miss Italia e scoperta proprio da De Santis, a cui lei restò sempre molto amica. Fu ancora De Santis a lanciare l’altra bellissima del cinema italiano, Lucia Bosè, che fu protagonista del suo Non c’è pace tra gli ulivi, che Peppe avrebbe voluto si chiamasse Pasqua di sangue. Si trattava stavolta di una storia agreste e ciociara (ma il progetto era stato pensato sulle lotte dei contadini pugliesi, e narrava l’amore tra un reduce e una ragazza insidiata da un losco proprietario terriero).
Fu anche un grande regista di masse, De Santis, come lo sarà più tardi Francesco Rosi, tardo illuminista napoletano a differenza di De Santis, che fu radicalmente comunista. Nell’impossibilità di girarlo nell’Italia democristiana, egli riuscì a farlo in Jugoslavia. La strada lunga un anno era la storia tutta italiana di uno “sciopero a rovescio” – di poveri proletari che si mettono insieme per aggiustare una strada – e fu anche questo un film corale che aveva tra le interpreti la ragazza che Peppe sposò, Giordana, ancora oggi fedele custode della sua memoria. Di interesse minore fu il film di guerra che girò in Russia, quando i fascisti la invasero al seguito dei nazisti. Anche il titolo mi sembrò discutibile, Italiani brava gente… e stavolta la retorica gli prese la mano. Ma la forza di De Santis stava nel non aver paura dell’appello a sentimenti forti, in chiave decisamente populista. Fu migliore una simpaticissima commedia ciociara, Giorni d’amore, interpretata da Marcello Mastroianni assieme a una deliziosa francese di origine russa, Marina Vlady. Raccontava una “fuitina”: non avendo i soldi per celebrare degnamente un matrimonio, i due fidanzati contadini Angela e Pasquale fuggono e consumano il matrimonio, evitandone le spese. Le due famiglie sono segretamente d’accordo, ma nel fingere una lite a uso del quartiere finiscono per insultarsi senza rimedio.
“Fu anche un grande regista di masse, De Santis, come lo sarà più tardi Francesco Rosi, tardo illuminista napoletano a differenza di De Santis, che fu radicalmente comunista”.
Il film fu girato a colori dalle parti di Fondi, con la consulenza di Domenico Purificato, un pittore assai bravo nell’uso del colore e che, ciociaro come De Santis e come Mastroianni, aiutò il film nella sua ambizione popolare ben radicata nell’ambiente da cui essi venivano e che amavano.
Il declino di De Santis negli anni del miracolo economico fu non solo suo, ché l’Italia cambiava veste e si faceva ricca. E la televisione vi imperava, con idealità diverse da quelle del neorealismo, anche del neorealismo “rosa” di Giorni d’amore. Il cinema come De Santis lo intendeva non aveva più un avvenire, negli anni di Senso e della Dolce vita, ma De Santis non si perse mai di coraggio. Ho avuto la fortuna di frequentarlo proprio in quegli anni, e ho un ricordo assai bello della sua fraterna vitalità. A commuovermi fu soprattutto che, poco tempo prima della sua morte, l’ANPI milanese volesse riproporre al pubblico Giorni di gloria ed egli chiese che fossi io a dialogare con lui, come purtroppo non fu possibile fare.
“La via ciociara al socialismo”, come la chiamavano all’interno del Pci i “veri marxisti”, era rapidamente tramontata di fronte all’irruenza del miracolo economico, e in Italia si tornò a parlare di rivoluzione solo col ‘68 (che ebbe però, nel cinema, altri maestri), e con Pasolini e i giovani Bellocchio e Bertolucci, ai quali De Santis appariva come un regista del passato, soprattutto al primo.
Goffredo Fofi
Goffredo Fofi è saggista, critico cinematografico e letterario. Il suo ultimo libro è Cari agli dèi (Edizioni E/O, 2022).
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