Contro la retorica delle piccole cose di "Perfect Days" - Lucy
articolo

Lorenzo Gramatica

Contro la retorica delle piccole cose di “Perfect Days”

18 Gennaio 2024

La poesia della quotidianità, i piccoli gesti, la magia dell’essenziale: l’ultimo film di Wim Wenders sembra fatto per piacere e commuovere gli spettatori, che arrivano a invidiare la vita semplice e routinaria del protagonista. A ben guardare però, c’è poco di bello nella sua vita e tanto di insincero nel film.

La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita è un libro uscito in Italia alla fine degli anni Novanta. Con “una prosa di piccoli tocchi impressionistici” – dice la quarta di copertina –  l’autore, Philippe Delerm, ci riporta “a ritmi pacati e a ritualità del quotidiano ormai dimenticate”: cercare le more nei boschi, godere del profumo delle mele in cantina o del pane appena sfornato, sorseggiare con lentezza un bicchiere di Porto. L’esistenza ridotta a piccole rivelazioni quotidiane. 

Il libro diventa un bestseller che l’autore cercherà poi di replicare con una vasta produzione di titoli pressoché indistinguibili l’uno dall’altro: Un cesto di frutta e altre piccole dolcezze (1999), L’ospite inatteso ovvero i piaceri imprevisti della vita quotidiana (2001), Che bello che bello – Parlare sotto le stelle e altre impercettibili gioie (2002), Il sapore delle fragole (2008), La parte migliore del giorno (2010), Il piccolo libro degli istanti perfetti (2011), Un tango sulla Senna e altre piccole gioie di questo mondo (2016), etc. etc. 

Se il primo libro è a dir poco stucchevole (l’ho letto!), questo elenco dà le vertigini e una sensazione di nausea. Possibile che la vita sia così dolcigna? Si farà attenzione, magari, raccogliendo un giorno i frutti di bosco, alle proprie sensazioni, sperando che non siano come quelle descritte dall’autore; si cercheranno con maggior cura le parole adatte, uscendo con la baguette sotto al braccio dalla panetteria – che ironia: ora che abbiamo il pane con farine di grani antichi, non riusciamo a dire quanto ci piace o quanto lo odiamo!

Soprattutto, ci si chiede: se tutto è piacere – piccolo, imprevisto, impercettibile, dolce, perfetto – cosa non lo è? E se non esiste il suo contrario, come facciamo a riconoscere il piacere in quanto tale? 

Domande oziose – e forse un po’ sceme – che mi sono fatto dopo aver visto Perfect Days di Wim Wenders.

Presentato a Cannes nel 2023 e vincitore del premio al miglior attore (Kōji Yakusho), il film è, superficialmente, un elogio della vita semplice, dei piccoli gesti, della gioia che c’è nell’accontentarsi attraverso la storia di Hirayama, un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. 

Il film sarebbe dovuto essere una serie di cortometraggi commissionata dall’amministrazione di Shibuya – e ora si immagina: ma quanto sarebbe bello un documentario su questi bagni pubblici girato da Frederick Wiseman!

Infatti, di questi bagni pubblici Tokyo è molto fiera, ci ha speso molti soldi una fondazione benefica, la Nippon Foundation, sono state coinvolte delle archistar (Fumihiko Maki, Nao Tamura, Tadao Ando, Masamichi Katayama, tra gli altri) e il progetto, nato nel 2018, ha anche un nome, “Tokyo Toilet Project”, che campeggia sulle divise blu ed eleganti degli addetti alle pulizie. Ci si tiene molto, insomma, a questi bagni. 

Questo forse spiega perché siano così puliti anche nel film – se è nota l’attenzione per gli spazi comuni dei giapponesi, è strano non vedere praticamente mai macchie di piscio in un film dove il protagonista di mestiere è addetto alle pulizie. 

D’altronde, per Wenders  “i bagni pubblici qui sono un santuario di pace e dignità”.

In questi santuari, lavora il protagonista di Perfect Days, Hirayama.

Ha una sessantina d’anni, vive in un piccolo appartamento molto ordinato a Tokyo. Non ha moglie, non ha figli, non ha animali da compagnia, non ha affetti stabili, ma un assistente querulo, irritante, non molto sveglio. 

La sua vita è scandita da azioni che si ripetono identiche o quasi ogni giorno: sveglia all’alba, caffè freddo al distributore, musicassette rock anni Settanta – di cui è cultore e collezionista – ascoltate nel furgone Dahiatsu che lo porta al lavoro. La mattinata la passa a pulire i bagni pubblici progettati dalle archistar; poi Hirayama mangia un panino sempre sulla stessa panchina e scatta foto agli alberi, cercando di catturare la komorebi, la luce che filtra tra i rami. Finita la giornata di lavoro, va in un sentō (i bagni a pagamento pubblici giapponesi), poi a cena tutte le sere o quasi nel solito locale nel sottopassaggio della metro. Torna a casa, legge, si mette a dormire. Ricomincia all’alba. 

Niente passato, niente psicologismi. Wenders vorrebbe raccontare per sottrazione, debitore del rigore di quello che considera uno dei suoi maestri, Ozu: quindi, solo questi gesti, rituali quotidiani che si ripetono giorno dopo giorno, con piccole variazioni anch’esse parte di una più ampia routine – e alcuni imprevisti che però in questa routine vengono integrati senza troppi sforzi. 

Hirayama – che poi era anche il nome del protagonista de Il gusto del sakè di Ozu – sorride benevolo e grato quando la giornata è bella, quando un bambino lo saluta, quando un barbone un po’ tocco balla per strada, quando un vecchio avventore del bar dove va ogni giorno, ubriaco, si lamenta della squadra di baseball rivale.

Sorride, sorride e sorride ancora guardando le cose che accadono. Ma le cose non accadono a lui, che della vita è osservatore defilato. Accadono agli altri. 

Non riesco a non leggere con scetticismo le recensioni e i commenti al film che fanno l’elogio di questa supposta felicità del protagonista.

Mi sembrano in malafede, così come mi sembra in malafede Wim Wenders quando dice: “C’è tanta felicità, c’è tanta gioia nell’esistenza di Hirayama: credo che vedendolo, parecchi lo invidino un po’! Io per esempio! Cambierei e rinuncerei al cinema per igienizzare i servizi! Mi siete testimoni”. 

Dubito che Wenders andrà a pulire i cessi, temo invece continuerà a girare film, cosa che negli ultimi anni non gli è riuscita particolarmente bene – ma come? Le piccole cose fatte con amore e dedizione non ci salveranno, quindi?

Dico “malafede” non tanto per l’affermazione iperbolica del regista, quanto per quella che mi pare essere una metodica, cinica e insincera ricerca dell’approvazione e della commozione dello spettatore, a volte ricorrendo anche a mezzucci narrativi. Ad esempio: un ragazzo con disabilità cognitive e un malato di cancro all’ultimo stadio sono due personaggi che compaiono nel film quasi solo per manifestare la loro condizione patologica, funzionale alle prese di coscienza del protagonista. 

Sono momenti spudorati, che rasentano il kitsch, ma che potrebbero essere definiti “poetici”.

“Mi sembra in malafede Wim Wenders quando dice: ‘C’è tanta felicità, c’è tanta gioia nell’esistenza di Hirayama: credo che vedendolo, parecchi lo invidino un po’! Io per esempio! Cambierei e rinuncerei al cinema per igienizzare i servizi! Mi siete testimoni'”.

E infatti “poetico” e “poesia” sono tra le parole che sono state utilizzate più spesso, senza parsimonia, per descrivere il film. 

La poesia delle piccole cose, la lucida poesia di Wenders, la poesia di cui abbiamo bisogno, la bellezza che salverà il mondo e tutto lo stucchevole repertorio di luoghi comuni a cui si ricorre in questi casi – e a cui hanno ricorso i giornali da quando il film è uscito nelle sale. 

Ma la vita non è poetica: è difficile, dura, imprevedibile, dolorosa, buffa, ridicola, insensata, crudele. Non è ordine, è caos; il silenzio è spesso sovrastato da un rumore assordante e dal rovello incessante dei pensieri, a volte angoscianti e ossessivi, altre stupidi o turpi, che facciamo ogni giorno.  

Il film di Wenders non vuole essere solo poetico, ma – peggio ancora! – elegante. Il vento che soffia tra le fronde, la luce del sole che abbaglia il protagonista.  

Ma, come faceva notare Manganelli parlando di Hokusai, “elegante” è un aggettivo che mal si attaglia all’Oriente. L’eleganza, qui intesa come leziosità di stile, a volte è solo un tappeto che nasconde il vuoto o camuffa i tormenti, la lotta, l’orrore sublime della vita. 

A cosa pensa Hirayama? Non lo sappiamo. Lui lo sa? A Wenders interessa? I suoi sogni, che il regista ci mostra rarefatti, come confuse digressioni in bianco e nero, sembrano parodie di art film. Inserti eleganti certo, ma forse anche pretenziosi, inutili. 

Wenders fa vivere Hirayama in questo presente ripetitivo ed estetizzato perché sembra importargli più della gratificazione immediata dello spettatore che del suo personaggio. Gli fa condurre una vita esangue.

E quindi: Hirayama è felice? Dovremmo invidiarlo, come dice Wenders?

Ma chi vorrebbe invecchiare come Hirayama? Prigioniero dei propri artefatti retro-hipster, la macchina analogica Olympus, le musicassette di Patti Smith, Lou Reed e Van Morrison, gli utensili da lavoro auto-progettati tipo libreria di Enzo Mari? Come si può invidiare chi trova consolazione e salvezza negli oggetti, chi cerca la bellezza in una foto e non nei rapporti umani sfaccettati e imperfetti, che costano certo sforzi maggiori e più manutenzione e cura di una musicassetta vintage? E di certo, questo dei rapporti umani che non riesce a costruire, per timidezza e incapacità, è uno dei drammi di questo protagonista, anche se il dramma non ci viene presentato come tale. 

La disciplina! La bellezza delle piccole cose! La felicità che si ottiene attraverso la reiterazione dei gesti e la ricerca del piacere nella quotidianità! I giorni perfetti!

Sarà, ma a me Hirayama pare un po’ triste, con un lavoro poco gratificante a cui si dedica con ossessività alienante – passa il sapone, togli la macchia, ma poi quale macchia? In questi bagni di design è tutto candido, immacolato, splendente prima ancora che il protagonista si metta al lavoro!  –, prigioniero di questa routine non molto diversa da quella di Fantozzi – barba e caffè, sveglia e bidè, troppo timido e insicuro per dichiararsi alla donna che crede di amare ma che forse non conosce davvero; Hirayama è un uomo solo, che ha reciso i legami con la famiglia ricca, e che non sembra avere desideri di alcun tipo. Ha, in alcuni momenti, dei crolli emotivi che dovrebbero suggerire anche al commentatore più distratto e ottimista, che dietro al fondale di sorrisi e sguardi benevoli, si nascondono i calcinacci di una vita irrisolta, nei legami intimi e nelle ambizioni profonde.

“Wenders fa vivere Hirayama in questo presente ripetitivo ed estetizzato perché sembra importargli più della gratificazione immediata dello spettatore che del suo personaggio. Gli fa condurre una vita esangue”.

Quest’uomo ha scelto davvero di pulire i bagni? Immersi nella retorica un po’ semplicistica delle grandi dimissioni – fateci caso: chi sui social vi dice paternalisticamente che dovreste lavorare meno, godervi un tramonto, ballare con i cani per strada, proprio in quel momento sta lavorando e investendo sulla sua carriera – , ci piace pensare di sì. Ma poi, a guardare la scena in cui incontra la sorella, donna di potere e molto realizzata, non sembra essere andata davvero così. 

Sospetto che le ragioni della simpatia e della benevolenza che sono state accordate al film, risiedano anche in questa mancanza di ambizioni del protagonista, scambiata forse per umiltà.

Tra i tanti film che Perfect Days ricorda, c’è Paterson di Jim Jarmusch, del 2016. Nel film, il protagonista è un autista di autobus e poeta dilettante, che scopre però di voler ambire alla pubblicazione. Insomma, oltre ai piccoli riti che rendono sopportabile la sua vita, si annida un desiderio, sopito, da risvegliare. Capire o accettare di desiderare qualcosa può essere terrorizzante e, per farlo, è spesso richiesta la presenza di una rete di persone intime. Paterson non è solo: ha una moglie, un cane, degli affetti. La vita esiste anche attraverso il racconto che si fa di essa; si capisce chi si è, si diventa quello che si vuole essere grazie allo sguardo degli altri, non solo leggendo Faulkner. 

C’è qualcosa di vagamente consolatorio nel pensiero che qualcuno non voglia migliorare la propria condizione, scelga di non competere in amore e nel lavoro, a differenza di noi spettatori, che possiamo bearci dell’infelicità di Hirayama perché rifiutiamo di considerarla tale.

Hirayama non deve mica lottare per migliorare la propria condizione, che si presume essere già alta dalla nascita. Molti, a differenza sua, non possono scegliere di rinunciare ai propri privilegi di ceto, perché a quei privilegi non avranno probabilmente mai accesso. Anche essere cresciuti in un ambiente che permette di sviluppare il proprio gusto di lettore e di apprezzare un album di Patti Smith è un privilegio.

Ozu piazzava la macchina da presa molto in basso, all’altezza del tatami delle case giapponesi, mettendosi al livello dei personaggi. 

Il film di Wenders comincia con un’inquadratura dal basso; la camera riprende il cielo e la luce che filtra tra gli alberi. 

In quell’inquadratura, che è un riferimento al soggetto preferito del fotoamatore Hirayama, si può forse vedere anche l’impatto soverchiante che ha la vita, che rende impotenti, insignificanti, minuscoli. Si guarda al cielo per cercare conforto, si guarda in alto per immaginare un’altra vita o per sfuggire a quella che ci è stata data in sorte. 

Lorenzo Gramatica

Lorenzo Gramatica è Responsabile editoriale e autore di Lucy.

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