Tomaso Montanari
08 Settembre 2025
Papa Francesco sino all’ultimo ha mantenuto un contatto assiduo con Gaza, consapevole dell’importanza che Dio fosse lì, a portare conforto agli ultimi e ai sofferenti. Da qui, la speranza di una nuova Chiesa e di un nuovo inizio per un’umanità che si riconosce nella sofferenza e non nel potere.
Mi sono chiesto a lungo perché papa Francesco ogni giorno chiamasse Gaza.
Certo: per essere lì, per confortare, per condividere la prova, per portare nel modo più visibile la presenza della Chiesa.
Ma nel vecchio papa che, in punto di morte, parla ogni giorno con questo enorme campo di sterminio dove è in corso un genocidio – un genocidio perpetrato anche dagli stati occidentali che si dicono cristiani, anche dall’Italia – c’è qualcosa di più.
E io credo che fosse questo: Francesco sentiva che Dio è a Gaza.
Non solo nella parrocchia di Gaza, sia chiaro. In tutto quel popolo, senza distinzioni di fede o appartenenza.
In quella terra che ha conosciuto i piedi della Sacra Famiglia che fuggiva in Egitto: incalzata, anche allora, da un massacro di bambini. Dio – lo sappiamo – è in ogni luogo, ogni singolo corpo umano è tempio di Dio.
Ma mentre l’Occidente ricco e potente attraversa una lunga notte di Dio, mentre Dio sembra non farsi trovare nemmeno nelle nostre chiese, a Gaza, con ogni evidenza, Dio c’è. Nella passione e morte di Gaza, c’è il Dio dei vivi. Il sole di giustizia. Il principe della pace.
“Spanderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme, lo spirito di grazia e di supplicazione; essi guarderanno a me, a colui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio come si fa cordoglio per un figlio unico, e lo piangeranno amaramente come si piange amaramente un primogenito”. Le parole dell’Eterno in Zaccaria 12, le parole che Giovanni riferisce al Cristo sulla croce, sembrano la più profonda spiegazione dello sguardo di papa Francesco, e del nostro sguardo, che non riusciamo a distogliere da Gaza, che noi stiamo massacrando: “poseranno lo sguardo su Colui che hanno trafitto”.
Le parole di Giovanna, monaca della Piccola famiglia dell’Annunziata del Monastero di Ma’ in, in Giordania, risuonano in questa direzione:
“Perdonatemi se vi scrivo ancora, è la terza volta. Ma lo faccio con il cuore sempre più pesante. Le notizie che arrivano sono ogni giorno più dolorose, più atroci. Ieri sera Netanyahu ha approvato un nuovo attacco su Gaza, per «distruggere tutto».
Io non ce la faccio più a restare ferma. La mia coscienza mi tormenta, perché questo restare inerti – questo non fare nulla – ci rende complici. Complici di un genocidio. Mi è stato detto più volte: “Tanto non serve a nulla”. Ma questa frase è intrisa di una rassegnazione che non possiamo più permetterci. È un grido disperato che paralizza ogni possibilità di agire. E invece dobbiamo credere che ogni gesto di verità, ogni preghiera pubblica, ogni appello sincero possano rompere l’assuefazione, risvegliare le coscienze e forse anche spingere chi ha potere a muoversi.
Non possiamo cedere alla logica dell’impotenza. Non possiamo tacere.
Mi addolora profondamente vedere una Chiesa quasi silente. Non mi do pace al pensiero che da parte delle comunità religiose non sia nata alcuna iniziativa concreta. Forse perché ci siamo abituati a pensare che la testimonianza debba essere “interiore”, “silenziosa”, “nascosta”. Ma oggi, davanti a una tragedia di queste proporzioni, non c’è nulla di più scandaloso del silenzio religioso. Forse si teme di «esporsi troppo», di “entrare nel politico”, di “rompere gli equilibri”…
Ma non può esserci neutralità davanti a un genocidio. O si è complici, o si sceglie la verità. E oggi, la verità urla dalle macerie di Gaza. Decine di migliaia di morti, bambini mutilati nel corpo e nell’anima, ospedali distrutti, famiglie cancellate. Tutto questo accade nel silenzio – o nella complicità – di molti poteri, anche religiosi
Non basta più dirsi «in preghiera». Non basta condannare «la violenza in generale». Dove siamo noi, mentre un popolo viene annientato? Dove sono le nostre comunità, le nostre diocesi? Dove sono le parole profetiche? Dove sono i gesti concreti?
La Chiesa non è un’organizzazione fra le altre, né un’istituzione neutrale: è il Corpo di Cristo. E allora, forse è arrivato il momento di mettere il nostro corpo accanto a quello crocifisso dell’umanità. Non possiamo restare lontani dal pianto degli innocenti.
Vi supplico ancora di prendere contatto con le comunità sorelle, con altre comunità religiose. E ancora vi ripropongo quello che da mesi mi sembra l’unico gesto possibile: radunare un centinaio tra religiose e religiosi, e andare a Roma, davanti al Quirinale, a pregare giorno e notte, a leggere i Salmi e il Vangelo. A chiedere con la forza mite della preghiera che il governo italiano interrompa ogni vendita di armi a Israele, che si rompano i legami economici con chi porta avanti un’opera di annientamento.
E poi, andiamo anche in piazza San Pietro, con cartelli semplici, diretti, che chiedano al Papa di muoversi: di andare a Gaza; di condannare pubblicamente Israele; di lanciare appelli incessanti perché i Paesi occidentali si mobilitino per fermare il genocidio.
Stiamo lì, giorno e notte, a leggere i salmi e il Vangelo. Se la nostra arma è la preghiera, allora è il momento di usarla in modo visibile. Ma se qualcuno avesse una idea migliore ben venga, ma non possiamo rimanere tranquilli nei nostri conventi.
Forse anch’io mi sento stanca, scoraggiata, delusa. Ma la mia coscienza non mi lascia in pace. E un giorno i nostri figli – o i bambini sopravvissuti di Gaza – ci chiederanno: “E tu, dov’eri?”
Vi prego: fate girare questa lettera a tutti i fratelli e le sorelle e anche alle comunità sorelle. Pregate per me!”
Sono parole che hanno due chiavi di lettura.
Quella, urgente, di una mobilitazione piena della Chiesa nel mondo. Una mobilitazione che, lo dico da cristiano, non c’è. Ma ne hanno anche un’altra, per così dire anagogica. Una che porta in alto lo sguardo: verso Colui che abbiamo trafitto. Il senso spirituale di queste parole è: dobbiamo convertirci. Convertirci a Gaza! Lo sguardo verso Colui che abbiamo trafitto è uno sguardo di conversione. Lo sguardo verso Gaza è uno sguardo di conversione. Uno sguardo di metànoia: di capovolgimento totale delle nostre convinzioni profonde, delle nostre priorità, del nostro modo di sentire e vedere. Gaza è il margine, la pietra scartata dal costruttore, la pietra d’inciampo. Cristo è a Gaza.
Scrive Gustavo Gutiérrez, in Teologia della liberazione:
“Una spiritualità della liberazione sarà imperniata sulla conversione al prossimo, all’uomo oppresso, alla classe sociale sfruttata, alla razza disprezzata, al paese dominato. La nostra conversione al Signore passa attraverso questo movimento. …Convertirsi è sapere ed esperimentare che, contrariamente alle leggi della fisica, si sta in piedi, secondo l’evangelo, solo quando il nostro baricentro cade fuori di noi”.
Ecco, il nostro baricentro non è a Roma: è a Gaza.
“Nel vecchio papa che, in punto di morte, parla ogni giorno con questo enorme campo di sterminio dove è in corso un genocidio – un genocidio perpetrato anche dagli stati occidentali che si dicono cristiani, anche dall’Italia – c’è qualcosa di più”.
Ecco perché papa Francesco, guidato dallo Spirito di profezia, chiamava Gaza; voleva andare a Gaza; non essere separato da Gaza. Il titolo che avete scelto per questo corso, viene da una intervista del febbraio 2025 allo scrittore israeliano David Grossman. A chi gli chiedeva ragione, sul piano razionale, della sua speranza di una convivenza tra due Stati, Israele e Palestina, egli rispondeva: ‘La sua è un’osservazione realistica. Ma questo è il tempo delle cose imprevedibili, non del realismo’. E Mahmud Darwish, il poeta della nazione palestinese, ha profetizzato, una volta: ‘Quando faremo pace rideremo di tutto questo … Gli israeliani non sono più le stesse persone di quando arrivarono, e i palestinesi non sono più le stesse persone di un tempo. Nell’uno si trova l’altro’. Come ha scritto Jürgen Moltmann, non serve la disperazione che dice ‘in fondo tutto rimane sempre uguale’, ma serve soltanto il correttivo della salda speranza che si articola in pensiero e azione». E aggiungeva: ‘il realismo, e men che meno il cinismo, non sono mai stati buoni alleati della fede cristiana’. Sembra assurdo dirlo: ma Gaza è un luogo di speranza. È il luogo di speranza. Le parole della monaca Giovanna sono parole colme di speranza: la speranza di chi vede nella Croce l’unica speranza, e dunque non si adatta al mondo così com’è.
Leggiamo ancora Moltmann:
“Ave crux, unica spes! Ma d’altra parte ciò significa che colui che ha questa speranza non potrà mai adattarsi alle leggi e alle fatalità ineluttabili di questa terra: né al carattere inevitabile della morte né al fatto che il male generi sempre altro male. La risurrezione di Cristo non è per lui soltanto una consolazione in una vita minacciata e destinata alla morte, ma è anche l’atto con cui Dio contraddice la sofferenza e la morte, l’umiliazione e l’insulto, e la malvagità del male. Per la speranza Cristo non è soltanto una consolazione nella sofferenza ma è anche la protesta della promessa di Dio contro la sofferenza. Se Paolo chiama la morte l’ultimo nemico’ (1 Cor. 15,26), bisogna d’altra parte proclamare che il Cristo risorto, e con lui la speranza della risurrezione, sono i nemici della morte e di un mondo che vi si adatta. La fede riprende questa contrapposizione e diventa essa stessa una contraddizione al mondo della morte. Perciò la fede quando si esplica nella speranza non rende l’uomo tranquillo ma inquieto, non paziente ma impaziente. Essa non placa il cor inquietum ma è essa stessa questo cor inquietum nell’uomo. Chi spera in Cristo non si adatta alla realtà così com’è ma comincia a soffrirne e a contraddirla. Pace con Dio significa discordia con il mondo, poiché il pungolo del futuro promesso incide inesorabilmente nella carne di ogni incompiuta realtà presente. … Questa speranza fa della comunità cristiana un elemento di perenne disturbo nelle comunità umane che vogliono diventare una ‘città stabile. Essa fa della comunità la fonte di impulsi sempre rinnovati tendenti a realizzare il diritto, la libertà e l’umanità quaggiù, alla luce del futuro che è stato annunciato e che deve venire”.
Non parlare di Gaza, in tempo opportuno e in tempo non opportuno (per usare le parole di Paolo), non essere a Gaza continuamente con il cuore, non desiderare andare a Gaza significa peccare contro la speranza: cioè adattarsi al mondo com’è.
Se abbiamo speranza, allora dobbiamo predicare che il Risorto è nemico del genocidio del popolo palestinese: è irriducibile a questo scandalo di una morte violenta inflitta dai potenti sugli inermi, di questa strage di massa, di questo satanico trionfo del male.
“Non è tanto il peccato che ci conduce alla perdizione, diceva Giovanni Crisostomo, quanto piuttosto la mancanza di speranza». Ecco perché Francesco chiamava Gaza, ogni giorno. È in questa inquietudine che sentiamo il sussurro dello Spirito. Non nel tuono, non nel fuoco: ma nel sussurro di un vento quasi impercettibile. Come la voce di Gaza, sempre più flebile: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Francesco a Gaza voleva andarci. Lo avrebbe fatto: ma è andato in Cielo. È morto: forse l’unico modo per andare a Gaza, nella pienezza di comunione di una passione condivisa.
In questo movimento verso Gaza, in questo movimento estremo, in questa conversione a Gaza, vedo una figura potente della Chiesa: di una Chiesa che rifiuta la stabilità e la sicurezza. Di una Chiesa migrante. Leggiamo ancora Moltmann:
“Chiedendoci quale debba essere nella società moderna la forma concreta di una vissuta speranza escatologica vogliamo attirare l’attenzione sulla nozione centrale di ‘comunità dell’esodo’ perché esprime la realtà della cristianità intesa come ‘popolo di Dio migrante’, secondo la descrizione che ne dà l’Epistola agli Ebrei: ‘Usciamo quindi fuori del campo e andiamo a lui portando il suo vituperio. Poiché non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura’ (Ebr. 13, 13 ss.). Qual è il significato di queste parole in rapporto alla struttura sociale e al compito etico-sociale della cristianità nella ‘società moderna? … Qua si decide se la cristianità può diventare un gruppo conformista, o se il suo esistere nell’orizzonte della speranza escatologica la rende capace di resistere al conformismo, e se la sua presenza ha qualcosa di particolare da dire al mondo”.
Questa Chiesa migrante – questa Chiesa che assume la forma del migrante, cioè di chi è il più (riprendiamo Isaia) “disprezzato e abbandonato dagli uomini, uomo di dolore, familiare con la sofferenza, pari a colui davanti al quale ciascuno si nasconde la faccia”, il Cristo –, questa Chiesa migrante è in cammino verso Gaza, o non è.
Questa Chiesa è capace di speranza se esce dalla città stabile del potere occidentale e del privilegio coloniale, e va verso Gaza. Questa Chiesa è capace di speranza, se vede il Cristo dov’è. E se, pur avendolo rinnegato tre volte prima che il gallo canti, poi prende la sua croce, e lo segue. Nell’inferno di Gaza, la speranza possibile è quel Dio «che fa rivivere i morti, e chiama all’essere le cose che non sono» (Epistola ai Romani). La speranza in un inizio nuovo, scardinante, escatologico: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Apocalisse, 21,5). Re-iniziare da Gaza?
In Vita activa, Hannah Arendt, scrive pagine altissime sulla speranza dell’inizio: quella della nascita. Quella di un bambino che per i cristiani è l’inizio degli inizi, il Dio che pianta la sua tenda tra le nostre, quel Dio che si fa carne. Quel Dio “che fa rivivere i morti e chiama all’essere le cose che non sono”. E a Gaza, spes contra spem, nascono ancora bambini.
Scrive Arendt:
“La facoltà di iniziare qualcosa di nuovo ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare. … Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale, rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.
A Gaza può ricominciare un’umanità che si riconosce nella sofferenza, lontana dai poteri, abituata ai margini. A Gaza, dove si compie e si compendia oggi tutto il male del mondo, dove il male perpetrato anche dai cristiani e in nome dei valori e delle radici cristiane sembra cancellare anche solo la possibilità di Dio – come ad Auschwitz, come ad Ayacucho (dove la povertà assoluta è solo morte, dicevano i teologi della Liberazione).
Proprio a Gaza c’è la speranza di un nuovo inizio, di una nascita scardinante: la speranza di una Chiesa che non si adatti al genocidio, che soffra, contraddica, gridi. La speranza di una Chiesa che si converta a Gaza, liberandosi da ogni colonialismo, da ogni forma di dominio maschile (quel possesso che è all’origine di ogni forma di dominio violento), di potere umano, umano rispetto.
Una Chiesa che – come profetava papa Francesco – vuole andare a Gaza. Porre là – fuori, e non già dentro di sé – il proprio baricentro.
Una Chiesa che abbia il coraggio di guardare Gaza: “alzeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto”.
N.d.A.: Questo testo è il mio intervento all’83° Corso di cultura cristiana della Cittadella Laudato Sì di Assisi, intitolato: Il tempo delle cose imprevedibili. Il realismo della speranza, il cammino della liberazione (21-24 agosto 2025).
Tomaso Montanari
Tomaso Montanari è storico dell’arte, rettore dell’Università per Stranieri di Siena e saggista. Il suo ultimo libro è Libera università (Einaudi, 2025).
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