Cosa vogliamo da Jannik Sinner - Lucy
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Emanuele Atturo

Cosa vogliamo da Jannik Sinner

09 Dicembre 2023

Sinner incarna lo stereotipo del tennista che ha dedicato ogni momento della propria vita allo sport. Eppure non è mai abbastanza. Gli sponsor gli chiedono di essere più attraente, i critici più vincente, i giornalisti più italiano. Riuscirà a reggere il peso dei desideri di un Paese che cerca in lui un modello?

Sinner elegantissimo, riflessivo, solitario, sdraiato sul divano come dallo psicanalista. Stropiccia degli appunti, completa un puzzle; guarda fuori dalla finestra, stringe gli occhi rincorrendo un pensiero che sfugge. Rimugina come uno scrittore in crisi creativa, osserva sé stesso da fuori cercando di afferrare il proprio mistero. Lo vediamo così, in una recente campagna di comunicazione di Gucci: ritirato nelle stanze di una ricca palazzina affacciata sulla costa ligure, isolato lì per scrivere una sua fantomatica autobiografia – di cui, alla fine dello spot, stringe in mano una copia.

Il fatto che nel video Sinner abbia solo 21 anni è un cortocircuito voluto. Ma da dove potrebbe iniziare questa immaginaria autobiografia di Sinner, questo volume che, nella sua campagna, Gucci ha intitolato con non troppa fantasia Sinner by Sinner?

Per esempio da qui: Jannik Sinner ha 14 anni ed è all’Isola d’Elba. È la prima volta che vede il mare. Accanto alle sorelle Anna e Bianca Turati – che come lui si allenano all’Accademia Piatti – si tuffano dagli scogli provando delle capriole maldestre. Sinner, che non si è mai tuffato in vita sua, riesce al primo tentativo in un salto mortale. Quando risale a pelo d’acqua gli chiedono come ha fatto: “Quando sei in aria, prova a pensare di dover fare due giri. Vedrai che ne riuscirai a fare almeno uno per intero”.

È un aneddoto raccontato dal giornalista Federico Ferrero nella sua biografia dedicata al grande allenatore di tennis Riccardo Piatti, ed è quel genere di storie che circondano gli esseri umani formidabili che fanno sport ad alti livelli; persone con un rapporto privilegiato col proprio corpo, uno spirito agonistico innato e senza dissidi.

“Non basta saper giocare a tennis molto bene, bisogna costruirsi anche un personaggio piacevole,  in qualche modo istituzionale. Un esempio su cui i giovani possano rispecchiarsi, e un modello che i brand possono vendere su un mercato globale”.

I romanzi di formazione dei grandi sportivi somigliano a quelli dei grandi artisti: vi si raccontano a posteriori aneddoti e storie in cui rintracciare segni di una magnifica irregolarità. A differenza degli artisti, però, agli sportivi è chiesto di non avere una vita interiore. Per primeggiare ai massimi livelli della loro disciplina sono costretti sin da piccoli a rinunciare a una  soggettività, nemica della performance. Devono diventare dei vettori impersonali del gioco, lasciarsi attraversare da esso. David Foster Wallace vedeva nei tennisti la macchina suprema del capitalismo performativo. È ciò che ci si aspetta dagli atleti fin da piccoli: pensare il meno possibile, dedicare ogni respiro della propria esistenza a perfezionare ogni micro-movimento. “Vengo descritto come un robot, una macchina, un supereroe”, dice Sinner, che poi replica a sé stesso col vuoto linguistico della pubblicità: “Voglio essere solo Jannik Sinner”. Gli viene chiesto quale superpotere vorrebbe e lui risponde ”Giocare a tennis tutto il giorno”, e quindi fare il proprio lavoro tutto il giorno, spegnere qualsiasi identità al di fuori del perimetro rassicurante del campo da tennis.

Sinner incarna alla perfezione questo stereotipo del tennista ultra-lavorista, che ha piegato ogni atomo della propria vita ai risultati sportivi. “Faccio tanto lavoro in palestra, faccio tanta atletica, lavoro un po’ sulla mente. Mangio meglio, vado a dormire presto, uso meno il cellulare, che è importantissimo. Sto cercando quelle cose che mi fanno dire: ok, ho più energia in campo. Andando avanti, prima o poi, qualcosa ti dà. Magari anche solo lo 0,01, ma qualcosa ti dà”. È solo con questo tipo di mentalità che si scalano i vertici di uno degli sport più duri al mondo, ma il paradosso è che una volta che si arriva in cima, è richiesto di più. Non basta saper giocare a tennis molto bene, bisogna costruirsi anche un personaggio piacevole,  in qualche modo istituzionale. Un esempio su cui i giovani possano rispecchiarsi, e un modello che i brand possono vendere su un mercato globale.

Come si concilia, però, una personalità ridotta alla pura performance, col carisma richiesto a una figura pubblica? Come stanno insieme, insomma, il Sinner tennista ossessivo e il Sinner personaggio mediatico? Il Sinner che nelle foto private sembra uno streamer asolescente in cameretta, e il Sinner pubblico, elegantissimo, che invece sembra nato per le pubblicità di automobili?

Nelle ultime settimane, dopo aver vinto la Coppa Davis da protagonista, dopo aver fatto finale alle ATP Finals di Torino, Sinner ha vissuto tutte le piccole cerimonie d’incoronazione di rito in Italia. Ha dovuto rinunciare a un incontro con Mattarella, a cui era però stato invitato; è stato ospite da Fabio Fazio, in visita alla Ferrari Maranello e del Milan a San Siro, dove la Curva Sud ha cantato il suo nome. Alla festa della Federtennis si è scattato una foto con Elodie, e ha registrato un video per spingere in extremis la candidatura di Roma a EXPO 2030. Come se il suo tocco magico, all’ultimo momento, potesse ribaltare le sorti di un esito inevitabile.

Come si concilia una personalità ridotta alla pura performance, col carisma richiesto a una figura pubblica? Come stanno insieme il Sinner tennista ossessivo e il Sinner personaggio mediatico? Il Sinner che nelle foto private sembra uno streamer asolescente in cameretta, e il Sinner pubblico, elegantissimo, che invece sembra nato per le pubblicità di automobili?

Insomma, Sinner ha vestito i panni dell’eroe nazionale, e sembra starci comodissimo. Non lo avevamo mai visto così sereno e spigliato, persino ironico; capace di una furbizia comunicativa da diplomatico. Aveva gli occhi lucidi, mentre il pubblico di Torino cantava il suo nome; rideva accanto a Berrettini e Max Giusti alla festa di Federtennis; ha dedicato la vittoria della Coppa Davis a Tathiana Garbin, capitana della squadra femminile di tennis, che avrebbe dovuto operarsi per una recidiva di tumore. Sembra sciolto, sicuro di sé, empatico, più in linea con la figura del campione sportivo che gli italiani si aspettano. Un Sinner molto diverso dalla prima intervista che si può rintracciare su internet, dove il suo italiano è incerto e legnoso e la sua stanza è spoglia come quella di un ospedale. Le buste della Conad alla rinfusa, i rotoli di scottex, la macchina per accordare le racchette e un unico oggetto personale: una maglia con su scritto: “La vita è semplice: mangia, dormi, gioca a tennis”.

Ma l’amore tra Sinner e il pubblico italiano che si è consumato nelle ultime settimane, fino a poco tempo fa non si poteva dare per scontato. Basta tornare a metà settembre, quando Sportweek, inserto della «Gazzetta dello Sport», lo metteva in copertina col titolo “Caso nazionale”. La colpa di Sinner era di non essersi aggregato alla squadra di Coppa Davis a Malaga. Un turno preliminare, contro avversari gestibili per l’Italia, in una competizione che ha perso molta importanza negli anni – perché difficile da conciliare col calendario fittissimo dei tennisti. La prima pagina di «Sportweek» arrivava una settimana dopo un editoriale molto duro nei suoi confronti della «Gazzetta dello Sport». In questi pezzi – firmati da giornalisti storici – si invitava Sinner persino a chiedere scusa, giocando con la traduzione del suo nome (Sinner = peccatore); si diceva che avrebbe dovuto scusarsi “per non essere stato all’altezza di quello che avrebbe dovuto essere”. E scusarsi, si diceva negli editoriali, sarebbe stato per Sinner come vincere uno Slam

La campagna mediatica è parsa subito strana, fuori fuoco, e si è presto capito che nascondeva un problema più profondo del rapporto tra Sinner e il pubblico italiano, o almeno una parte di questo. Perché se la maggioranza degli appassionati ha sempre apprezzato Sinner, per il suo talento ma anche per una personalità umile e i modi dolci, un’altra parte è sempre stata ipercritica nei suoi confronti – ed era questa la parte che voleva intercettare «Gazzetta» con la sua campagna.

Sinner infatti ha due problemi: è incredibilmente talentuoso, e non ha un aspetto convenzionalmente italiano. Due caratteristiche che rendono durissimo lo standard di giudizio nei suoi confronti. Generalmente gli sportivi di successo in Italia rappresentano un bersaglio facile: sono considerati ricchi, privilegiati e moralmente ambigui. Il loro talento li costringe a essere irreprensibili, e agli occhi del pubblico devono avere la perfezione morale dei santi. A calciatori come Donnarumma, o Verratti, non è stata perdonata la presunta avidità, quando sono andati a giocare a Parigi o in Qatar. A Paola Egonu, la migliore pallavolista italiana, non viene perdonato di giocare per la Nazionale pur avendo la pelle nera. Paragonare Sinner a Paola Egonu può suonare irrispettoso per la pallavolista che ha subito attacchi razzisti spesso violenti, eppure anche Sinner viene accusato di “scarsa italianità”. Non in modo esplicito, certo, ma è un’idea che è sempre stata nell’aria, da quando Sinner è emerso come il più grande talento del tennis nazionale. Aldo Cazzullo aveva già messo per iscritto, sul «Corriere della Sera», queste perplessità: “Sinner ha un nome francese, parla tedesco, twitta in inglese e ha la residenza fiscale a Montecarlo (ma quest’ultimo per gli italiani non è un problema). Per ora entusiasma gli appassionati ma scalda poco i cuori di chi non segue il tennis. Prima o poi lo farà”.

“Lo sport è un territorio in cui si negozia il concetto di identità nazionale, e negli sportivi si cerca una proiezione che è sempre problematica. Sinner – coi capelli rossi, dall’Alto Adige – ci ha messo di fronte a un’identità nazionale complessa, che sfugge agli stereotipi”.

Sinner è nato e cresciuto in Val Pusteria da una famiglia madrelingua tedesca. A 13 anni si è trasferito a Bordighera, in Liguria, nell’accademia di Piatti. Con gli anni il suo italiano è migliorato, ma ha gli inciampi di chi visita una lingua altrui. Il suo è un mondo alpino, montano: il padre si chiama Hanspeter, e fa il cuoco in un rifugio in Val Fiscalina. Fino a 13 anni Jannik ha sciato, fino a diventare persino campione italiano. Non aveva mai visto il mare. Ci sono stati altri grandi atleti italiani alto-atesini, ma nessun grande tennista, a parte Andreas Seppi. La storia del tennis italiano recente è segnata da talenti carismatici come Fognini e Berrettini, e quella storica è associata all’edonismo principesco romano di Pietrangeli e Panatta, con la loro bellezza borghese, la loro simpatia da circolo dei canottieri (o parioli). A loro è associata, soprattutto, la vittoria della Coppa Davis del 1976, a cui tutta la generazione dei boomer continua a pensare con nostalgia. Una Davis che continua, spettrale, a infestare l’immaginario sportivo italiano.

Mentre l’Italia ha faticato a produrre grandezza tennistica, come se il talento si fosse inaridito insieme all’economia, si è continuato a raccontare quella Davis come un’epoca di benessere perduto e rimpianto, per quanto immaginario. Rivendicata anche per dire che le generazioni dei figli non saranno in fondo mai felici come quella dei padri, in un Paese che fa pochi bambini ed è ossessionato dal proprio passato.

Forse anche per questo, accanto all’entusiasmo, in queste settimane alcuni reduci di quegli anni si sono sforzati di sminuire questa Coppa Davis. E le polemiche su Sinner, per quanto smorzate dall’enorme entusiasmo per il successo, hanno continuato a scorrere velenose. Cazzullo è tornato ad attaccarlo usando un altro degli argomenti classici contro i tennisti: la residenza fiscale a Montecarlo. Un tema immortale della discussione tennistica, che risale ai tempi di Borg, che spostò la residenza fiscale nel principato per sfuggire alle tasse della Svezia socialdemocratica. Dopo la vittoria della Davis la «Gazzetta dello sport» ha fatto firmare un ambiguo editoriale a Giancarlo Dotto, un elogio di Sinner, in teoria, dove però si rivendicano, esplicitamente e con un’ingenuità affascinante, tutti i pregiudizi di cui abbiamo parlato. “La seduzione di Jannik è diventata giorno dopo giorno micidiale nel suo essere nostro, nel suo scoprirsi definitivamente italiano, senza esserlo davvero, nostro e italiano”. Dotto scrive che di fatto Sinner, in quanto alto-atesino, non è davvero italiano; lo descrive piuttosto come uno straniero affascinato dall’Italia, un tedesco che abbiamo conquistato.

Dietro questa postura c’è anche il rapporto controverso che storicamente l’Italia ha col Südtirol: l’italianizzazione della regione venne imposta dopo la Prima guerra mondiale e si rafforzò durante il fascismo con pratiche quasi coloniali. C’è poi stata una lunga lotta terroristica degli autonomisti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e infine il riconoscimento dell’autonomia negli anni Settanta, e un rapporto ancora oggi in parte conflittuale tra il gruppo etnico italiano e quello tedesco. Dotto, nel suo editoriale, utilizza un linguaggio non distante da un determinismo razziale primo-novecentesco: “Noi abbiamo imparato ad amare Jannik anche perché non ci appartiene sino in fondo. Perché non ci somiglia. Per il suo essere così diverso e così distante dalla nostra anima latina, quando (non esulta) esulta, quando (forse) si deprime, quando (appena) sorride. Quando parla una lingua e forse pensa in un’altra”. Sono frasi ambigue, inquietanti, ma hanno il pregio di mettere per iscritto alcuni pregiudizi che abitano ancora il nostro contesto culturale. La sensazione è che i recenti successi abbiano spento delle polemiche che ai prossimi passi falsi di Sinner potrebbero riaprirsi.

Lo sport è un territorio in cui si negozia il concetto di identità nazionale, e negli sportivi si cerca una proiezione che è sempre problematica. Sinner – coi capelli rossi, dall’Alto Adige – ci ha messo di fronte a un’identità nazionale complessa, che sfugge agli stereotipi, e un’idea di individuo difficile da ridurre per farlo entrare nei nostri modelli pre-confezionati. 

D’altra parte, se nelle squadre degli sport collettivi il tifo nazionalistico è più intuitivo, per i tennisti diventa più problematico. Sinner, nelle ultime settimane, pare aver fatto di tutto per mostrare senso d’appartenenza e attaccamento all’Italia. E, nonostante le critiche che continuano a venir pubblicate, gran parte del pubblico italiano lo adora. In generale, però, non c’è sport più individualistico e solitario del tennis. I giocatori rappresentano il proprio Paese in modo molto vago e indiretto. Diamo per scontato che Sinner, come gli altri tennisti italiani, sia in qualche modo nostro. In questo c’è un esercizio di idealismo romantico novecentesco – se non ottocentesco – che stride particolarmente con la vita che oggi fanno i tennisti: esseri umani apolidi che crescono spesso lontani da casa e conducono una vita erratica tra i non luoghi del pianeta – aeroporti, stanze d’albergo, circoli sportivi. Hanno staff composti da persone di tutto il mondo, sembrano vivere senza effetti personali, si portano in campo materiale nuovo e imbustato, e persino quando esultano usano un generico linguaggio internazionale (“Vamos”, “C’mon”).

“I grandi tennisti sono brand globali: si tifa per la loro personalità, di cui il Paese d’origine è un tratto come altri. Il tennista più amato dell’ultimo mezzo secolo, Roger Federer, ha beneficiato anche di avere nell’identità svizzera un tratto lieve e poco problematico”.

Si può dire forse che il tennis è uno degli sport che oggi più facilmente riesce a superare il tribalismo, il campanilismo. I grandi tennisti sono “brand globali”: si tifa per la loro personalità, di cui il Paese d’origine è un tratto come altri. Il tennista più amato dell’ultimo mezzo secolo, Roger Federer, ha beneficiato anche di avere nell’identità svizzera un tratto lieve e poco problematico – dove per Djokovic l’essere serbo è invece spesso fonte di antipatie, diatribe o conflitti. 

I tennisti sono allenati all’egoismo, sono allenati a giocare solo per sé stessi, e l’individualismo sfrenato che gli è richiesto può finire per schiacciarli (non a caso il tennis è lo sport in cui più facilmente sono emersi i cortocircuiti tra agonismo e salute mentale). Sinner sembra nato per fare il tennista, è vero, per competere e trionfare attraverso gli intricati labirinti mentali di questo sport. Dice di aver abbandonato lo sci perché lì basta un errore per compromettere il lavoro di settimane, mentre nel tennis si può sempre rimediare all’errore. Quella tensione al perfezionismo che ha imparato nello sci, gli è comunque tornata utile nel tennis.

Oggi è numero 4 del mondo, ma non ha ancora vinto un torneo dello Slam, cioè uno di quei tornei che certifica lo status d’élite dei giocatori. Negli ultimi mesi ha mostrato dei progressi fisici e tecnici, e di conseguenza anche di risultati. È riuscito dove prima mancava, e cioè battere gli avversari teoricamente migliori di lui. È riuscito a sconfiggere Medvedev, Alcaraz e Djokovic più volte in poche settimane. Ancora però non è riuscito a ottenere quel grande successo che manca, e che tutti si aspettano da lui. Ha una carriera ancora lunga davanti. 

Nella rincorsa ai suoi obiettivi Sinner dovrà però tenere conto dei desideri e delle aspettative di un Paese che ha trovato in lui un modello, un eroe nazionale discusso e controverso, e un bersaglio. Lui non smette di essere impeccabile: sportivo, figlio, essere umano modello. Anche abbassare di una virgola questo livello di perfezione morale potrebbe portargli problemi. Oggi ha gli occhi di tutti addosso; sguardi pieni di speranza, sogni, amore, ma anche invidia, moralismo, intolleranza. Per quanto ancora questi sguardi continueranno a non turbarlo?

Emanuele Atturo

Emanuele Atturo è caporedattore di «l’Ultimo Uomo». Ha scritto Roger Federer è esistito davvero (66thand2nd, 2021).

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