Elena Stancanelli
Con "Bestemmia", la compagnia Teatro Valdoca prova a raccontare dolori e orrori del nostro tempo, affidandosi alla poesia di Mariangela Gualtieri. Che invoca bontà, compassione e un Noi capace di rifondare la specie.
Ho intervistato Mariangela Gualtieri dopo aver visto l’ultimo spettacolo del Teatro Valdoca, Bestemmia, diretto da Cesare Ronconi, che cura anche luci e scenografia. Con Silvia Calderoni, Eugenia Giancaspro, Nico Guerzoni, Giuseppe Semeraro. Il suono, che ha un’importanza capitale e sorregge come uno scheletro l’intero spettacolo, è composto e interpretato dal vivo da Lemmo. Prodotto da Valdoca e Emilia Romagna Teatro, che ha da poco nominato Natalia Di Iorio alla direzione generale e Elena Di Gioia alla direzione artistica, diventando l’unico teatro nazionale diretto da due donne.
Mariangela Gualtieri è autrice del testo, presenza muta in scena e, nella serata speciale alla quale ho assistito (a Cesena, al Teatro Bonci) anche interprete di un prologo dalla finestra, intitolato Parole alla città. Che inizia così:
Questo ti voglio dire: non c’è credi, fino a molti
anni luce da qui, non c’è, non esiste un fiore, un
tepore come qui, non c’è questa impennata che
chiamiamo vita, è una rarità fra le spire dell’universo.
Bestemmia è il terzo movimento di un percorso, Correre, Volare, Pensare, che comprende il video Come cani, come angeli con i versi della poeta Ida Travi, e, come seconda fase, una mappatura di luoghi e suoni – nella foresta di Camaldoli, le gravine di Otranto e l’Adriatico settentrionale – con il musicista Lemmo, il fonico Michele Bertoni e il fotografo e videomaker Pier Paolo Zimmermann.
La scena è nella platea deserta del Teatro Bonci, le cui poltrone sono state coperte da lenzuola bianche come sudari. Il canto accompagna lo svolgersi delle azioni e delle parole, mentre Mariangela Gualtieri, quasi immobile al centro, osserva. Meglio: sembra che quello che accade esca dai suoi pensieri, dalle sue parole, dal suo corpo come una dialisi continua. Sul palco gli attori si muovono tra pochissimi oggetti, cantano e dicono parole di sbilico, ma anche di speranza. È un mondo travolto dal dolore ma anche disposto a ripartire, fremente dal desiderio di tornare a essere umano.
Scrivo a Mariangela Gualtieri alcune domande. Mi pare che in questa comunità non conforme, sbilenca, vitale, ci sia una risposta possibile al nostro sgomento. Mi pare anche che le parole di Mariangela Gualtieri siano ancora più spogliate e lucide di sempre, di quelle che di lei conosciamo. Quello che segue è il nostro scambio.
Vorrei partire dal titolo, Bestemmia. Che mi pare un titolo palindromo. Nel programma di sala scrivete “questo presente bestemmia contro l’infanzia e contro l’umano, contro tutto ciò che vorrebbe nascere e portare il proprio frutto, contro le leggi scritte e le antiche leggi non scritte…”. Ma una bestemmia è anche quella che rimane a noi in gola, di fronte all’orrore. Siamo anche noi a voler urlare quella bestemmia scomposta, a faticare a modulare e trovare un’articolazione di grazia nelle nostre parole che sentiamo troppo fiacche di fronte all’avanzare della guerra come un buio. Come si fa a trovare la calma per scrivere, come fai tu, quando la realtà ci strattona, l’impegno civile, talvolta sguaiato, reclama spazio?
La mia calma, tu dici. Io ho ricominciato a dormire appena finito il testo, pochi giorni prima del debutto. Scrivere, questa volta è stato un lungo tormento, come mai prima. Neppure la guerra nei Balcani aveva disturbato il mio demone come questi due anni di genocidio. Ripensavo a Lucrezio, al suo De rerum natura. Al prologo a Venere, quando prega la Dea di tenere calmo Ares perché in guerra la scrittura e il canto sono troppo disturbati. Nel punto di massima disperazione ho pensato che le parole fossero tutte logore e svuotate e che si potesse solo maledire. Allora ho ripreso il Deuteronomio, una delle massime violenze verbali che io abbia letto, lì dove Mosè maledice gli ebrei – se non obbediranno alla legge. Una legge che detta fra l’altro di non uccidere, non desiderare la roba d’altri, non rubare. Ma quelle parole erano troppo lontane dalla nostra legge e le abbiamo presto abbandonate. E poi avrebbero chiamato in causa tutto il mondo ebraico mentre la nostra ira era ed è verso Israele e il sionismo.
Com’è il tuo tempo di lavoro? La tua giornata? Sento in questo spettacolo e nelle tue parole – da sempre, ma forse in questo momento ancora di più – un Noi che si impone. Un bisogno di fare comunità, bisogno del quale il teatro è sempre stato ambasciatore. Cosa diventa la solitudine quando il mondo chiama a una presenza?
Solitudine e silenzio sono ambiti che mi impegno a frequentare ogni giorno, con tenacia direi perché tutto tira via da lì. La tentazione della torre d’avorio è sempre forte in me e ogni tanto ci cado dentro, pur sapendo che può essere un luogo molto sterile. Mi considero un animale gregario che però ama e ha bisogno anche di stare per conto proprio. Tenere insieme le due cose non è mai semplice. Come pure scrivere durante le prove ed essere allo stesso tempo in scena. Sono azioni quasi inconciliabili. Spesso sono aiutata da un sogno ricorrente, un sogno che non racconterei a nessuno, ma quando arriva so che debbo starmene per conto mio. Il Noi di cui tu parli – la generazione a cui appartengo è stata molto comunitaria – adesso è suggerito anche dagli insegnamenti della scienza. In fondo noi umani siamo ancora tolemaici, ci sentiamo sempre al centro di tutto. E invece la scienza ci grida che no, siamo fra gli ultimi arrivati e siamo tenuti in vita da tutto il resto. Senza api o formiche la vita non si tiene, senza alberi non ci sarebbe respiro per nessuno, anche il verme è ben più necessario di noi, nel suo enorme lavoro di spostamento terra. E in più questo largo Noi è colmo di meraviglie, di rarità cosmiche, di grandi seduzioni. E dunque la nostra idea di Noi va urgentemente allargata e vanno inclusi quelli con ali, con rami e radici, con piume e con pelo, con vette e trasparenze e nuvole eccetera. È vero quello che dici del teatro, il bisogno di fare comunità. Nel modo di lavorare di Cesare Ronconi, questo è un dettame sempre al centro. La formazione del gruppo di lavoro – e Cesare è davvero incredibile in questo – è il primo atto drammaturgico per il Teatro Valdoca. Da quei corpi e da quelle facce e voci, e soprattutto dal loro agire insieme arriverà l’ispirazione fondamentale. In fondo la scrittura registica di Cesare è sempre per un coro, anche se vi sono individualità evidenti, vengono sempre sostenute da tutti gli altri e le altre, che infatti non escono mai di scena.
Nelle tue parole c’è da sempre un richiamo alla terra, alla gentilezza, alla cura del mondo. Ma qualche volta ho avuto la sensazione che quel richiamo portasse con sé l’indicazione di guardare al passato. Leggo invece in queste tue nuove parole una speranza nel futuro, una fiducia in quello che verrà. Come te lo immagini questo domani?
Come donna non ho nessuna nostalgia del passato: in qualunque altra epoca ci sarebbe andata molto peggio. Sono nata al momento giusto, quando le donne avevano da poco cominciato ad uscire di casa. Nella mia classe di liceo ad esempio ero l’unica che avesse la libertà di un ragazzo. Anche il mondo della mia infanzia, negli anni ’50, lo ricordo profondamente ingiusto, classista e violento, soprattutto nei confronti di donne, anziani, bambini e animali. Ricordo che spesso mi vergognavo ad esempio della superiorità con cui le persone di città trattavano i contadini. Mi sembra chiaro che la nostra specie è dentro un’ascesa. Se penso al passato, mi pare che la Storia sia il racconto del più forte contro il più debole: schiavismo, razzismo, colonialismo e via dicendo, erano perpetrati legalmente da governi considerati civili, da figure considerate autorevoli. Avevo quattordici anni quando Franca Viola si rifiutò di sposare il proprio rapitore e violentatore e ricordo molto bene quella vicenda. Fu solo nel 1981 che venne abrogata la legge che estingueva il reato nel caso in cui lo stupratore avesse sposato la propria vittima. Nello stesso anno fu abrogato il delitto d’onore. Cioè fino all’81 uccidere una donna (moglie, figlia o sorella) che avesse tradito garantiva la comprensione dei giudici e portava a un’attenuazione della pena. Il femminicidio ha radici lontane.
Adesso quei fatti solleverebbero le piazze, ne sono certa. Tutto questo per dire che siamo in un’ascesa, anche se ora pare che tutto voglia tornare alle prepotenze e alle ingiustizie del passato, e parole come libertà uguaglianza fraternità che per noi sono ovvie, sono ora depotenziate, se non irrise. O miglioreremo come specie e terremo a bada i prepotenti, gli avidi, i folli, o non credo ci sarà futuro. Mi chiedi come mi immagino il futuro: voglio pensare che nel futuro i super ricchi saranno considerati malati di bramosia e verranno curati, che diventeremo consapevoli della rarità di ciò che chiamiamo vita e la metteremo al primo posto e la proteggeremo, in quanto innamorati delle sue innumerevoli manifestazioni. Immagino che i bambini saranno bambini e non infelici e un po’ nevrotiche miniature nostre. Che non mangeremo più gli animali. Che i caratteri del femminile saranno dominanti, e dovranno spegnersi manifestazioni aggressive, perché la forza che all’inizio ci ha permesso di sopravvivere su questa terra, ora minaccia la nostra estinzione. Il resto si può immaginare, perché tutto in questa visione è concatenato e quasi ovvio.
Lo spettacolo è dedicato al popolo palestinese, e agli applausi Silvia Calderoni regge una bandiera della Palestina e poi la deposita con cura sulle tavole del palcoscenico. Le poltrone di platea, coperte da un telo bianco, richiamano tutti i sudari che abbiamo visto in questi ultimi anni coprire corpi di civili innocenti. Come si fa a stare nelle macerie e a continuare a cercare l’incanto?
Perché l’incanto c’è. La bellezza, cioè la natura, ancora c’è e va indicata, va affermata nelle sue meraviglie. E anzi, se tutto va storto ora, è forse proprio perché siamo ossessionati da noi stessi, da un narcisismo di specie che ci impedisce di essere in consonanza col resto, di appassionarci al resto. Eppure basterebbe entrare in un bosco e notare come, quando ne usciamo, l’assillo dei nostri pensieri si sia attenuato, come qualcosa ci venga in soccorso, col suo respiro – che alimenta il nostro – il suo colore, il ritmo che ci impone. Basta avere un gatto, un cane dentro casa per sentire come gli altri viventi ci sollevano nelle nostre cupezze. Qualche pianta sul balcone. A volte basta guardare il cielo. Una mente malata ci fa sentire tutto questo come già noto, a volte come poetico e cioè debolmente femmineo, decorativo, fasullo, inefficace. Io voglio affermare l’efficacia, la potenza, la meraviglia di ciò che abbiamo intorno. Voglio affermare che le macerie sono affare nostro, delle nostre teste malate, che sono anche dentro di noi e che intorno qualcosa, se visto nella sua pienezza, può curarci. La terra non è nostra, siamo noi ad appartenere ad essa. Non dico che questo sia sufficiente. Ci vuole un pensiero rettificato per cambiare qualcosa, e da quello le giuste parole. Ma farsi sedurre dall’incanto della terra è sempre un buon punto di partenza, perché ci calma e ci rende più rispettosi. E un po’ meno infelici.
Leggo e vedo a teatro e al cinema sempre più spesso richieste di umanità, parole che diano calore e conforto. Il corpo, avere un corpo, raccontare il corpo sono la nostra nuova urgenza. Dal tuo speciale osservatorio di poeta e artista di teatro, senti che è cambiato il nostro rapporto con l’umano, che negli ultimi tempi sentiamo il bisogno di prendercene più cura perché l’inumano, il disumano, il post umano gratta contro le nostre porte?
Mi sembra ci sia un enorme bisogno di abitare un ambito in cui la lingua entri in contatto con una profondità nostra, ora denutrita e direi pochissimo visitata. Nella ridondanza di cronaca, notiziari, parole ultimative, si sente una generale mancanza di parole: in tanti sentono di avere solo dei gingilli logori. Mancano poesia e filosofia, soprattutto poesia, perché parla al cuore/mente. Gli adolescenti sono senza parola, tutti ininterrottamente sporgenti alla finestra di una tecnologia seducente, non sanno nulla della loro stessa casa. La parola è al centro di ciò che ci rende umani. Sperimentiamo impotenza linguistica, proprio mentre i valori basilari della convivenza umana, le leggi, il diritto internazionale, le leggi non scritte, tutto viene infranto da figure al comando che tradiscono il proprio compito e fanno gli interessi propri e di una piccola parte che li sostiene. E fanno questo irridendo la solidarietà, la pietà e i valori di cui parlavo prima. Questo è un ribaltamento nuovo nel nostro tempo e forse quelli che Dante chiama gli intelletti sani stanno raccogliendo le forze per rinominare con energia ciò di cui non possiamo fare a meno. Sì, la barbarie gratta alle nostre porte, è già entrata dentro le nostre case, forse dentro le nostre teste e ogni giorno ci stiamo occupando di lei e del suo teatrino violento ed egocentrico. È così pervadente che sembra imbattibile.
Il personaggio di Silvia Calderoni mi è sembrato una specie di infermiera del mondo, che si carica il dolore sulle spalle, che si prende cura, di te per esempio, in silenzio. Ma è esausta, travolta dal pianto. Chi sono, secondo te, le persone alle quali dobbiamo guardare, che dobbiamo ringraziare?
Al di là di tutti coloro che resistono a questo assedio dell’inumano e aiutano chi ne è oppresso – poiché ho fede nella parola, mi sento di ringraziare qualunque voce illumini le nostre teste indebolite. Ringrazio chi ora sta concentrato sulla parola e mette lì il suo contributo sincero, la sua analisi ponderata e acuta, il suo suggerimento prezioso. Ringrazio chi mette insieme i sensibili, o ci prova, perché si dovranno trovare modi di tornare a ragionare e agire insieme ad altri indignati e addolorati quanto noi. Grazie di questo suggerimento sul ruolo di Silvia Calderoni che sì, si può vedere in questo tentativo di un avere cura affettuosa, affratellante, certo molto fragile ma potentemente risvegliante, come è stata ad esempio l’impresa della Global Sumud Flotilla. Ecco, ho provato moltissima gratitudine per loro perché sentivo risvegliata in me una fede nell’impossibile che certamente era spenta e che credo sia alla base di tutte le rivoluzioni. Silvia Calderoni che adesso è a un punto di maturità artistica e umana altissima, ha quasi spontaneamente creato questa figura scenica, assumendo in sé un ruolo necessario, con Cesare che l’ha lasciata fare quasi come una co-drammaturga.
Credi che il nostro mondo si sia curato troppo, il nostro io sia stato troppo coccolato, che un po’ di dolore venga anche dalla debolezza che segue l’eccesso di sutura?
Essere vivi
accettare la ferita
essere sempre incinta dice un personaggio denominato Ragazzo pensoso.
Sì. Credo di sì. Siamo tutti estremamente egocentrici, come erano nella mia infanzia i poveri bambini ricchi, e i bambini che non avevano fratelli e sorelle e venivano troppo seguiti. Siamo deboli come loro. Abbiamo un ego gigantesco. Ricordo un racconto di Joseph Campbell: un indù porta il proprio io al guru e il guru gli dà un martellino che lo aiuterà a schiacciare quella piccola noce. Poi un occidentale va dal guru e gli porta il suo io e di nuovo il guru gli presenta il martellino. Ma questa volta l’io è un enorme cubo di acciaio e anche martellando tutta la vita non verrà scalfito. Siamo casi gravi.
La ragazza dei segni usa la LIS in una maniera spettacolare. Non ricalca soltanto le parole per renderle comprensibili, ma le allarga, le rende una danza, le segue e le precede con la voce, ne fa un universo nel quale viene voglia di entrare per giocare con lei.
Cesare e io siamo gratissimi a Eugenia Giancaspro che ci ha portato la lingua dei segni. Ci siamo un po’ tutti innamorati di questa lingua che prima di questo incontro era lì, ai margini di vari eventi, incomprensibile, mai guardata veramente. Eugenia ci ha fatto capire la meraviglia della LIS che rivela una tensione verso l’altro da sé, una cura esatta, concreta, bella, quasi danzante. E questo rinnova un ardore per la parola, “il dono più pericoloso che riceverai” e certamente uno dei più necessari.
Ancora lei, la ragazza che usa il linguaggio dei segni, dice che non crede nel bene, che il bene è troppo complicato. Crede invece nella bontà. E dice anche “una bontà non più sentimentale ma intelligente e vegetale”, un concetto che mi ha ricordato molto Donna Haraway. È anche, la bontà degli animali, l’incapacità di fare il male per il male?
Il suggerimento in realtà mi è arrivato da un cortocircuito fra Vita e destino di Vasilij Grossman – che ho letto solo due anni fa e che ho trovato sconvolgente, fuso con una lezione di Stefano Mancuso su come e quanto le piante cooperino fra loro. Nel libro di Grossman, a un certo punto in un lager nazista uno dei reclusi dice che forse anche quel lager è stato edificato per il bene di qualcuno e che lui non crede al bene. Crede solo nella bontà. E così si è aperta in me una riflessione su queste parole così pericolose, così piene di tranelli e retoriche: bene e bontà. È tempo credo di rifondare anche questi termini, di tornare a nominare queste parole e sentirne il giusto peso. Quando ero piccola, la parola bontà era al centro dell’educazione infantile, fino alla retorica, mentre ora ai bambini si chiede di essere intelligenti e veloci. Ma una intelligenza senza compassione e senza bontà è una minaccia per la specie. A questo ci si deve educare, non è nella nostra natura essere buoni – penso a libri come Il Signore delle mosche di Golding – qualcuno ce lo deve insegnare.
Le parole che chiudono questo spettacolo mi hanno spezzato il cuore:
È bello qui. È molto bello qui
Forse è adesso. Forse si avvicina
L’ora più giusta perché nasca da noi
Qualcuno che non chiede.
Che non chiede
Come noi – d’essere amato.
Un animale che ama
e amando
rifeconda la specie, le teste,
l’immenso panorama
rovinato
del mondo.
Mi sembra che in queste parole ci sia tutto quello che c’è da dire oggi. Non Io ma Noi, non chiedere ma dare. Scrivere poesia, scrivere quello che scrivi tu è un atto simile a quello che vede la Donna che guarda. Come la immagini questa specie rifecondata, cosa dell’umano ti piacerebbe seppellire e cosa illuminare?
Mi piacerebbe che quelli che hanno gli intelletti sani, e spero di poterci mettere anche me, anche noi, si incamminassero in una ascesa verso un ego diminuito e verso un più largo noi nel quale tenere insieme umane, umani e ogni forma vivente e ogni pezzo di terra e di cielo. Non basta più essere intelligenti e colti, o geniali. Non basta più essere intellettuali o artisti. A questo va aggiunta una immensa capacità di innamoramento, una grande compassione, una grande pietà.
Foto di Simona Diacci.
Elena Stancanelli
Elena Stancanelli è scrittrice, giornalista, conduttrice radiofonica. Il suo ultimo libro è Il tuffatore (La Nave di Teseo, 2022).
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