D’Angelo: non c’è morte per chi sa rinascere - Lucy sulla cultura
articolo

Daniele Cassandro

D’Angelo: non c’è morte per chi sa rinascere

15 Ottobre 2025

A 51 anni è morto D'Angelo, uno dei più rilevanti cantanti soul della musica recente. I suoi tre dischi ci restituiscono il tragitto di un artista in continua evoluzione insieme allo sguardo di un autore che ha saputo decostruire con delicatezza gli stereotipi sul femminile di tanta musica black.

L’artista R&B statunitense D’Angelo è morto il 14 ottobre per un tumore al pancreas. Il suo vero nome era Michael Eugene Archer ed era nato a Richmond, nello stato della Virginia, l’11 febbraio del 1974. Aveva 51 anni. Lascia una discografia impeccabile fatta di soli tre album anche se si parla di un quarto lavoro già pronto che uscirà postumo.

Amir “Questlove” Thompson, batterista dei Roots e a lungo produttore e compagno di percorso di D’Angelo, nel suo memoir del 2013 Mo’ Meta Blues si definisce un evoluzionista dell’hip hop. Spiega che l’hip hop è un organismo vivo che si evolve naturalmente e si adatta ai tempi. Secondo Questlove segue cicli di cinque anni: 1977: l’anno zero e lo sviluppo della tecnica e dell’estetica; 1982: Afrika Bambaataa e il rap politico; 1987: il picco della cosiddetta old school con Paid in Full di Erik B & Rakim e Rebel Without a Pause dei Public Enemy; 1992: Dr Dre che cambia completamente la faccia del genere con The Chronic e poi il 1997: la morte violenta di Biggie Small e Tupac Shakur e la reazione del gangsta rap che diventa, di fatto, la pop music di fine secolo su Mtv.

“Ecco dove ci trovavamo in quel periodo come nazione hip hop”, scrive Questlove: “Puffy che portava alle estreme conseguenze i campionamenti più scontati e i Neptunes che spogliavano la forma canzone fino all’osso cavalcando l’onda del loro culto della personalità . E noi? Dove eravamo noi? Dov’ero io? Io ero affacciato sul precipizio di quello che in seguito avremmo chiamato neo soul…”.

Questlove ricorda il periodo in cui tutti i suoi amici di Philadelphia si erano spostati a New York agli Electric Lady Studios. I suoi amici erano raccolti in un collettivo chiamato The Soulquarians ed erano tra gli altri il geniale produttore J Dilla, la cantante Erykah Badu e i rapper e produttori Q-Tip e Mos Def. La loro musica era una saldatura organica e un po’ new age tra l’hip hop più progressivo, la jazz fusion degli anni Settanta e il soul più moderno e politicizzato. Da quella scena nascono album fondamentali come Things fall apart dei Roots, Mama’s gun di Erykah Badu e Voodoo del  giovane e geniale soulman D’Angelo. Il neo soul nasce come reazione al rap più commerciale e a quell’R&B da classifica ormai trasformato in una formula stanca se non addirittura caricaturale. Nell’idea di Questlove il nuovo soul era una pianta che cresceva selvatica e rigogliosa ai margini del mainstream grazie a nutrimenti naturali come il jazz, il blues, il soul, il funk e lo studio attento dei classici.

In quel periodo D’Angelo, per quanto giovanissimo, era già famoso. Il suo album di debutto Brown Sugar era uscito nel 1995 e sebbene non avesse venduto gran che all’inizio, è cresciuto lentamente grazie a hit radiofoniche come Brown Sugar, Cruisin’ (una cover ispiratissima di Smokey Robinson) e soprattutto Lady. Quest’ultimo è un pezzo così delicatamente sensuale e spirituale da ricordare un Prince in stato di grazia. È interessante notare come a metà anni novanta Prince fosse in difficoltà ad aggiornare il suo suono, soprattutto faceva fatica a incorporare in modo organico l’estetica hip hop, un genere musicale che negli anni Ottanta aveva fatto fatica a capire e ad apprezzare. Il D’Angelo di Lady invece era un Prince giovane che quel linguaggio lo parlava fluentemente ed era pronto a conquistare quelle classifiche che il genio di Minneapolis faceva sempre più fatica a scalare: la magistrale ballad The Most Beautiful Girl in the World (1994) sarebbe stata la sua ultima hit da top five fino alla ristampa postuma di Nothing Compares 2 U del 2018.

Come la britannica Sade, anticipatrice e spirito guida del neo soul, anche D’Angelo lascia passare molto tempo tra un album e l’altro. Tra Brown Sugar e Voodoo, il suo secondo album, passano cinque anni, che per la discografia bulimica di metà anni Novanta è un’era geologica. Per D’Angelo sono anni di ricerca spirituale alle radici della musica soul. Con Questlove s’immerge nello studio dei grandi: James Brown, Al Green, Smokey Robinson, Marvin Gaye, Jimi Hendrix, Sly Stone e naturalmente Prince al cui fascino proibito D’Angelo, nato in una famiglia molto religiosa, era stato iniziato dal fratello Luther. Questlove e D’Angelo chiamano questi colossi della musica afroamerocana i loro Yoda, i loro maestri mistici.

Tra gli Yoda c’erano anche diverse donne: tra tutte Aretha Franklin e Nina Simone che avevano una caratteristica in comune con D’Angelo, anche loro erano cantanti e pianiste. Se il virtuosismo pianistico di Nina Simone è cosa nota (aveva studiato pianoforte classico negli anni Quaranta grazie all’aiuto di una ricca benefattrice), quello di Aretha Franklin è meno riconosciuto, eppure il suo pianoforte è stato fondamentale nello sviluppo di quella che oggi chiamiamo musica soul. E D’Angelo che compone partendo dal piano studia Nina e Aretha con attenzione. In quegli anni oltre che alla musica si dedica anche al suo corpo: dopo aver preso peso durante il tour di Brown Sugar comincia ad allenarsi con un personal trainer. Più avanti vedremo come il suo corpo diventerà un elemento fondamentale del suo successo e, poi, della sua profonda crisi personale e creativa.

Voodoo, che esce nel 2000, è un manifesto del neo soul a partire dalle note di copertina scritte dal poeta Saul Williams che attacca anzitutto il rap, più concentrato sui soldi che sull’originalità musicale. In un passo particolarmente profetico Williams scrive che i rapper di quegli anni “esaltano più Donald Trump che Sly Stone”. Williams tocca anche il tema della mascolinità: “Se dobbiamo esistere come uomini in questo nuovo mondo molti di noi dovranno imparare ad abbracciare e proteggere tutto ciò che è femminile. Ma c’è ancora posto per l’arte in questo palazzo in rovina che è oggi l’hip hop?”. L’elemento femminile, acquatico, sensuale e creativo è fondamentale nell’estetica neo soul e  D’Angelo, un giovane uomo eterosessuale e nero, lo fa suo con grazia e naturalezza. Mentre i rapper chiamano le donne “bitches” e “hos” D’Angelo vede nella donna e nella donna nera in particolare una fonte di sostentamento anzitutto artistico e musicale.

Sua compagna nel periodo in cui lavora a Voodoo è la cantante Angie Stone (morta a marzo del 2025), un’artista e una donna della diaspora africana dalla pelle scura e dalle forme generose e sensuali, lontanissima dall’estetica da pornostar delle modelle che compaiono nei video dei rapper di fine anni Novanta.

Come Marvin Gaye e Prince prima di lui, anche D’Angelo entra in contatto col femminile con meraviglia e timore quasi reverenziale. E il fatto che in Voodoo ci sia un pezzo funky come Left & Right che contiene interventi decisamente misogini dei due rapper Redman e Method Man non fa che sottolineare la distanza tra due modi antitetici di rapportarsi al femminile. La critica musicale Faith A. Pennick ricorda che, come ascoltatrice donna e nera, si sentiva in colpa a considerare Left & Right il suo pezzo preferito dell’album. Col tempo ha capito che anche quel brano era parte del processo alchemico della musica di D’Angelo che dalla materia più vile era capace di tirare fuori l’oro. E soprattutto era parte della vita di qualunque ascoltatrice di rap e di hip hop: questo apprezzare la musica pur camminando in un campo minato disseminato di sessismo e misoginia. Lo stesso Questlove ha in seguito ammesso che l’oggettificazione della donna negli skit di Redman e Method Man fanno ancora male. “E facevano male allo stesso D’Angelo”.

E poi è arrivato quel video. Il video. Voodoo viene lodato dalla critica ma in classifica si muove lentamente: a differenza di Brown Sugar non ha pezzi pensati per le radio o per Mtv. Devil’s Pie e Left & Right, i primi singoli tratti dall’album arrancano. Ci vuole un’idea per rilanciare D’Angelo e l’idea che ha il manager Dominique Treiner è quella di spogliarlo e di fare di lui un sex symbol. Il giorno delle riprese  del video per Untitled (How Does It feel?) D’Angelo si pente: non vuole uscire dalla limousine che lo aveva portato nello studio di New York dove il regista Paul Hunter lo sta aspettando. Treiner lo convince e il video di Untitled viene girato. Il corpo di D’Angelo è di una bellezza abbacinante. Sulle note di una canzone che è un diretto omaggio a Prince, in particolare a  (How Come) U Don’t Call Me Anymore, D’Angelo è in piedi, nudo fino a sotto l’ombelico, fino a dove la tv può permetterlo.

La cinepresa indugia sui dettagli: l’orecchio, il collo, le ciglia che sbattono sui suoi occhi nocciola scuro, le spalle, i tatuaggi, quella pelle bruna lucida e imperlata di sudore e poi giù, fino agli addominali scolpiti e all’ombelico e se possibile ancora più giù. Faith Pennick descrive l’effetto che quel video ha immediatamente sul pubblico delle donne nere: incredulità, esaltazione, arrapamento. Lei e le sue amiche non parlano d’altro che di quest’uomo dalla bellezza apollinea che guardandoti negli occhi ti chiede “How does it feel”? E allora, come ci si sente? In altre parole: ti piace? La nudità di D’Angelo nel video è antitetica a quella esibita da rapper come 50 Cent. Per 50 Cent i muscoli sono un’armatura, un simbolo di mascolinità e di potenza da esibire. Sono i muscoli di uno che si ammazza di flessioni e di trazioni alla sbarra in carcere.

Il corpo di D’Angelo è il corpo di un dio pagano, è un corpo da desiderare, da accarezzare e da adorare. Più che i suoi muscoli è la sua pelle che buca il video. Per quanto ovviamente apprezzato dal pubblico gay, il video di Untitled non è omoerotico, o almeno non lo è nelle intenzioni. È un video pensato per occhi femminili. È, come scrive Faith Pennick, “the reversed male gaze”, lo sguardo maschile rivolto verso se stesso. Anche Prince era spesso comparso nudo: esce da una vasca da bagno per attraversare carponi una stanza coperta di fiori nel video di When Doves Cry, in una foto per l’album 1999 è sdraiato con la parte superiore delle natiche in bella vista mentre dipinge con degli acquarelli ed era stato ritratto senza niente addosso da Jean Baptiste Mondino per la copertina dell’album Lovesexy.

Ma se in Prince c’è sempre un lampo di ironia, una consapevolezza che dimostra quanto sia sempre in controllo della propria immagine, D’Angelo si offre allo sguardo in maniera assolutamente passiva. Il suo corpo viene oggettificato come siamo abituati da secoli a oggettificare le donne, e questo dettaglio risuona con forza nel pubblico femminile.

Quando si tratta di corpi nudi di maschi neri, nota Pennick, entra in gioco anche un’altra variabile che rende problematico il meccanismo dell’oggettificazione erotica. Ed è la rappresentazione dello schiavo messo in vendita i cui muscoli, denti e sesso vengono considerati, soppesati, giudicati e monetizzati. La passività di D’Angelo nell’offrirsi allo sguardo del pubblico ha anche una fortissima carica razzializzante che i bianchi non percepiscono ma i neri sì.

Il video di Untiled (How Does It Feel) ha un successo senza precedenti e lancia D’Angelo nel mainstream. La potenza di quelle immagini è tale che la complessità e la bellezza dell’album Voodoo passano in secondo piano. Il tour di Voodoo, sapientemente messo insieme da D’Angelo e Questlove, diventa un incubo: il publico vuole vederlo nudo, gli grida di spogliarsi, di togliersi la camicia, di sfilarsi i pantaloni. “Mi trattavano come uno spogliarellista e non come un musicista”, ricorda lo stesso D’Angelo. A volte volavano anche delle banconote sul palco, come nei locali di stripper.

Anche a Prince le fan chiedevano si spogliarsi durante il Purple Rain Tour, ma lui lo sapeva e conduceva il gioco: arrivava con pantaloni completamente trasparenti dietro, si denudava e copulava con l’asta del microfono, sul finale dei suoi show tirava fuori anche una chitarra che spruzzava acqua sul pubblico in una ridicola parodia dell’orgasmo maschile. Prince gioca con i desideri del pubblico e con la sua carica erotica; D’Angelo la subisce e ne rimane schiacciato. Il grande errore del suo manager è stato quello di non aver preparato un giovane uomo di 25 anni all’esperienza dirompente di essere visto e consumato come un sex symbol.

Il critico musicale Touré nel 2003, dopo averlo intervistato, ha detto: “Vuole ingrassare, non vuole più parrucchieri che gli fissino i braids, non vuole più gli addominali. Non vuole più sentirsi addosso la pressione di essere il video di Untitled”. Quella pressione finisce per schiacciarlo: D’Angelo scompare dalle scene e di lui si parla solo quando viene arrestato in stato di ubriachezza o adescato da poliziotte in borghese che si fingono sex worker. In una foto segnaletica che gli scattano nel 2010 appare gonfio, con le occhiaie e i capelli in disordine: gli rimangono solo quegli inconfondibili occhi nocciola dal taglio allungato.

Quando nel 2015 D’Angelo esce con Black Messiah, il suo terzo album, nessuno si aspettava più nulla da lui. Il critico musicale Sasha Frere-Jones sul New Yorker firma una recensione intitolata “The second coming”, la seconda venuta. Del messia appunto. Black Messiah, che esce senza alcun preavviso sulle piattaforme di streaming allo scoccare della mezzanotte di un lunedì, non è l’album di un sopravvissuto ma è il lavoro di un artista che anche nel suo periodo più buio ha continuato a crescere. Frere-Jones paragona l’album a un vecchio radiatore newyorchese che scalda la stanza pur essendo un po’ rumoroso a tratti. Più che un patchwork di canzoni Black Messiah sembra un unico pezzo di musica, ricchissimo in texture e in riferimenti.

Anzitutto D’Angelo ha imparato a suonare la chitarra e ha cambiato il suo modo di comporre anche se i suoi numi tutelari rimangono Prince e Sly Stone. E poi il tempismo: Black Messiah esce proprio a ridosso dell’uccisione da parte della polizia del diciottenne Michael Brown a Ferguson, nel Missouri: l’ennesima esecuzione di un giovane uomo nero fermato arbitrariamente per strada. Nel pezzo The Charade D’Angelo ci lascia un verso memorabile: “All we wanted was a chance to talk, ‘stead we only get outlined in chalk”, ‘Volevamo solo un’occasione per parlare e l’unica cosa che ci rimane è il contorno del nostro corpo tracciato col gesso’.

“Ma se in Prince c’è sempre un lampo di ironia, una consapevolezza che dimostra quanto sia sempre in controllo della propria immagine, D’Angelo si offre allo sguardo in maniera assolutamente passiva. Il suo corpo viene oggettificato come siamo abituati da secoli a oggettificare le donne, e questo dettaglio risuona con forza nel pubblico femminile”.

Sono passati dieci anni da Black Messiah e D’Angelo con la consueta lentezza e attenzione per il dettaglio stava lavorando alla sua nuova musica quando si è ammalato di cancro al pancreas. Esisterà un suo quarto album postumo dunque, anche se i tre lavori che ci ha lasciato, Brown Sugar, Voodoo e Black Messiah, formano da soli un’opera entusiasmante che già così racconta lo sviluppo di un’artista baciato dalla bellezza e dal genio.

L’ultimo pezzo di Black Messiah, intitolato quasi profeticamente Another Life, è anche una delle sue canzoni d’amore più belle, ancora una volta dedicata all’eterna forza magnetica e creativa che il femminile ha avuto nella sua vita e ancora una volta giocata sulla dinamica tra corpo e spirito. “Voglio portarti con me”, canta D’Angelo, “Nelle stanze più segrete del palazzo della mia mente, inondarti di tutto ciò di cui hai bisogno. Prendimi per mano, te lo prometto, farò le cose con tutta la calma”.

Daniele Cassandro

Daniele Cassandro è giornalista di «Internazionale» e collabora con diverse testate. Il suo ultimo libro è Dischi volanti (Curci, 2024).

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