Graziano Gala
Tra scartoffie, scadenze e continue emergenze, insegnare è diventato sempre più difficile. E le paure dei docenti raccontano cosa non funziona nella scuola di oggi.
Io, cinque minuti prima che suoni la campanella, sono in classe ad addossare la cattedra al muro. A guardarla male, a odiarla, a sperare che un giorno si dissolva: colpa di una professoressa, la Morguzzi, che entrava in aula, ci faceva sedere lì vicino e sussurrava senza mai ridere raccontami tutto quello che sai. Niente sapevo: sapevo di avere paura e che da quel momento avrei disprezzato con ogni mia forza il suo banco grosso due volte il mio. La vita poi è strana e si scandisce un contrappasso alla volta: sono cresciuto, ho la barba bianca e al posto della Morguzzi adesso dovrei sedermici io, lì, nelle vesti di docente. Io però la cattedra la spingo al muro, la scambio con il banco di qualche studente e spero che un giorno o l’altro scompaia per sempre.
Mi piacerebbe davvero parlare di questa mia paura, ma oggi nella scuola ce ne sono di ben più serie che sento il bisogno di affrontare. Paure nuove e contemporanee alcune, altre antichissime eppure ancora irrisolte (anzi, se possibile, ingigantite). E che gravano sulla figura del docente, che molti vorrebbero tutta d’un pezzo ma che a me a pezzi pare cascare. Eccoci dunque a camminare tra documenti che evidentemente si moltiplicano di notte, colleghi che scompaiono come in trucchi di magia e timori di non essere buoni nocchieri per classi in mezzo alla tempesta.
Morire di burocrazia: lessico e lungaggini di una scuola-circolare
Io li vedo, alle sette e mezza, alla macchinetta del caffè: se le raccontano, le snocciolano, qualcuno le interpreta per gli altri. Addirittura so di che colleghi che preparano compendi, bignamini di spiegazioni delle circolari del mese, eventuali interpretazioni per i punti più controversi. Si parla sempre meno di come Arnenghi possa migliorare in lettere, sempre più della numero 37 o della 79, di come possano impattare sull’operato nella classe. Il docente ha smesso e da tanto di essere un homo paiedeuticus, un educatore e un mentore. O almeno di esserlo per la maggior parte del tempo possibile.
Oggi, l’homo, se esiste, è burocraticus, più incline all’applicazione che all’azione, perché a furia di infilare in una ragnatela di comunicazioni urgenti e di altre necessarie può essere che l’energia si consumi, che la passione (ove presente) si assottigli e che il docente sfibrato diventi un fantastico signorsì. Le circolari arrivano a qualsiasi ora, si moltiplicano e ricircolano a volte riscritte e corrette: possono venire di notte come la befana o al mattino presto e hanno un lessico tutto loro, il circolarese, che odora di giuridico e di biblico insieme, perché se poi sbagli ad applicare, se non leggi, in qualche misura non ti senti un docente contemporaneo e all’altezza. Confesso di aver invitato una collega a bere solo per farmi raccontare cosa avesse capito del piano antisismico. Quando oggi nella scuola si vuol far spaventare un docente – un docente perbene, che fa il suo mestiere con impegno e devozio – basta insinuare il dubbio. Basta sussurrare Collega, queste indicazioni erano fornite nella circolare 106 del 12 dicembre, forse ti è scappata. Eccolo che tituba, che crolla, che dice sì e si rintana.
Sembrano tribunali, le riunioni: con una circolare giusta si possono minare le certezze del migliore insegnante. A volte è come stare su una scala mobile che ti porta a suo piacimento, ché se arriva la rettifica e cambia la circolare cambiano le regole del gioco e da corretto esecutore diventare fuorilegge è questione di una mancata lettura. Ho visto colleghi anziani arrivare con caterve di mail stampate come se stesse per iniziare una seduta in parlamento, o con la lente di ingrandimento cercare di indagare il testo legato alla durata degli intervalli per trovare un cavillo, un eureka, qualcosa che potesse risolvere il dilemma.
Io stesso, negli anni, mi sono percepito in cambiamento: ricordo quando una volta, davanti ad una proposta di voto basso in scrutinio, il collega mi chiedeva se tutti i verbali fossero stati redatti a regola d’arte. Chistu sennò è nu ricorsu, diceva in dialetto: questo altrimenti è un ricorso. Mi arrabbiavo, protestavo, dicevo che si era perso il punto: il ragazzo andava male in lettere e scriveva peggio, come potevamo pensare ai verbali in quel momento? Quest’anno, invece, davanti a una proposta di bocciatura per uno studente che ritenevo valido non ho potuto fare a meno di alzare le mano e chiedere Signori, vi dispiace se controllo i verbali? quasi cercando di spaventare il coordinatore, creando in lui dubbi e incertezze, vestendo perfettamente questi miei nuovi panni di homo burocraticus pronto a confermare o ribaltare la decisione degli altri in virtù di una scartoffia ben compilata.
Diventare un alchimista: rendere classe un gruppo di persone nell’aula
Poniamo adesso il caso che la burocrazia sia finita, le circolari interpretate e gli obblighi assolti. Alzati gli occhi dal computer bisogna dedicarsi a loro, il vero motivo di tutta questa faccenda. Loro che non sono noi alla loro età, perché di mezzo c’è stata una pandemia e almeno un paio di crisi economiche, loro che a quindici anni già troppe volte lavorano o improvvisano, loro che hanno dei gran buoni motivi per arrivare a scuola – usando una perifrasi – poco sereni. Al primo anno dicevo, nel fare esempi pratici, se mamma, papà o chi vi vuole bene. Oggi mi sento costretto a dire se mamma, papà, zio, zia, vostro fratello, sorella o chi si occupa di voi perché parecchi mamma, papà o chi gli vuole bene lo hanno perso per strada alla svelta e sono parcheggiati in comunità o strutture ospitanti in attesa di età maggiori e maggiori provvidenze.
Non si può entrare in classe, aprire il libro, sistemarsi sulla maledetta cattedra e iniziare a pontificare su Saba e sulla povera Carolina Wölfler costretta a fare da moglie e madre. È fondamentale, entrando, capire la temperatura, vedere se la pentola borbotta o se l’acqua ancora deve entrare in ebollizione. Prima di cominciare bisogna guardarli in faccia e intuire senza chiedere troppo. A volte, prima che docenti, bisogna sostituirsi ai genitori: mai dimenticherò del ginocchio di Luca che si gonfiava un po’ per giorno, delle raccomandazioni di andare in ospedale, della madre che diceva professore io faccio le pulizie e quando torno è notte e gli do un Oki; mai scorderò di Fatima che era miope ma per il padre semplicemente non si sforzava abbastanza nel guardare la lavagna; sempre scrivo a tanti di loro che dopo il diploma ho paura si siano persi in qualche meandro di questa provincia lombarda che poco perdona e molto sfrutta quando si accorge che dall’altra parte c’è debolezza.
Quando mia madre mi chiede perché non faccio figli io le rispondo che ne ho settanta all’anno, ottanta quando è pescata grossa. Fare il docente oggi è come essere prete o soldato, le cose non finiscono mai al suonare della campanella: si è docenti quando ti chiama un genitore in lacrime dicendo che il figlio non è tornato a casa, si è docenti quando ci si interroga su cosa faccia il ragazzo per ore e ore all’uscita della metropolitana. A volte qualche collega fa l’errore – e l’ho fatto anche io – di bollarli prima ancora dell’inizio, di dare a uno il gagliardetto del buono, all’altro quello del disgraziato. Di definirne uno casinista e un altro capace: ecco come si fanno i danni clamorosi. Infatti, se da un lato l’etichetta aiuta a farsi delle idee e ad attivare il docente automatico, dall’altro può diventare per l’alunno spesso una missione: se ti danno un ruolo da cattivo e ti persuadono che tu ne sia il perfetto interprete non ti sarà difficile entrare nella parte. Sono convinto che questa generazione di docenti possa o salvarne molti dalla tempesta o fare più danni della grandine ed è per questo che è opportuno che la cattedra – quella maledetta – non sia mai un ripiego ma una vocazione. Vengo da un tempo in cui tra i banchi gli alunni prendevano urlacci e a volte sberle dai docenti, sono in un tempo in cui urlacci o sberle possono arrivare dagli studenti. A me piace dare un concorso di colpa a noi e non per masochismo, ma per esperienza: ogni anno formiamo una quantità enorme di cittadini, di elettori di qualsiasi ordine e preferenze, di persone. Se ne abbiamo trascurato qualcuno, se qualcuno per comodità o pigrizia lo abbiamo lasciato indietro abbiamo formato una piaga che potrebbe peggiorare negli anni. Nessuno si sorprenda poi dell’emorragia. Qualcuno potrebbe obiettare che se fossimo meno stanchi, meno burocratici e più addentro le cose della classe questi fatti accadrebbero di meno: sono d’accordo.
Sei ancora tra di noi? La prestidigitazione del precariato scolastico
Speriamo, dunque, che si sia creata la famosa magia, che per un qualche caso la madre di gioia e quella di dovere di Saba interessino a qualcuno che ci riveda la propria, di madre, e che ritenga questo apprendimento significativo. Da alchimisti bisogna diventare esperti di sedute spiritiche, giacché da sempre nella scuola italiana ci sono più sparizioni che nell’Anonima sequestri: lo potremmo dire ridendo, ma la verità è per i ragazzi che raccontavo prima, sprovvisti di riferimenti o con famiglie a gettone, questi sono veri e propri lutti. Capita sempre molto spesso che Pino, ottimo insegnante di francese, l’anno successivo lo si ritrovi altrove nella cabala del precariato che muove individui come il vento del canto quinto infernale: oggi sei qui, domani chissà. Ricordo di una studentessa, Giulia, che quando ero precario non voleva imparare il mio cognome: tanto l’anno prossimo va via, mi diceva, non ne vale la pena. Ho visto Monia, una collega, piangere per un concorso perso, piangere a dirotto: le ho detto che ne avrebbero fatti altri, mi ha risposto che teneva quarant’anni e che un bambino o lo faceva adesso o poi non era cosa.
“Io, cinque minuti prima che suoni la campanella, sono in classe ad addossare la cattedra al muro. A guardarla male, a odiarla, a sperare che un giorno si dissolva”.
A volte la scuola sembra una scialuppa: non sai mai se il tuo compagno di remi lo manterrai e per quanto. E ti devi inventare la seduta spiritica, cominciando a fine agosto con le chiamate tattiche che dietro a un come stai nascondono un tornerai? Perché se cambia il professore cambia il gioco e non è detto però che i giocatori poi vogliano ancora giocare, perché sono anni troppo delicati e cambiare qualcosa significa rischiare di rompere tutto quello che con molto sforzo si è cercato di mettere in piedi. Sperando poi che a perdersi non siano gli alunni, perché nella parolina riorientamento – volto ad aiutare un cambio di indirizzo o scuola del discente – alcune volte si realizza un progetto di vita, un aggiustare il tiro, ma qualche volta pure si cela un silenzioso accompagnamento alla porta, un invito caldo ad andarsene, un ragazzo che diventa patata bollente altrove. Quando col mio preside ragioniamo sulle domande di trasferimento una frase, a voce bassa, ci diciamo: dobbiamo prendercelo noi, altrimenti chi se lo piglia – perché è facilissimo fare la scuola d’élite, l’ospedale che cura i sani e respinge i malati. Questi al contrario vanno salvati in ogni modo, quelli in qualche maniera ce la faranno.
A queste cose penso quando mi alzo ogni mattina, mentre mento a mia madre sulla domanda di trasferimento al Sud che non ho mai fatto in dieci anni sostenendo invece che sia stata respinta; mentre evito di fare un figlio mio, mio proprio; mentre addosso le cattedre al muro e leggo di intelligenze artificiali. A questo penso, ma vorrei pensare ad altro: a quelle vere, di intelligenze, e alle storie e ai fatti che le circondano. E a come posso evitare finiscano nei guai. Vorrei dedicarmici interamente, e invece sono preda della paura di fallire, di capire male e di non riuscire mentre scrivo troppo spesso in circolarese una mail che a me non interessa troppo inviare e a nessuno – temo – ricevere.
Graziano Gala
Graziano Gala è scrittore e docente. Il suo ultimo libro è Popoff (minimum fax, 2024).
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