Dimmi la verità: perché siamo ossessionati dall’autofiction? - Lucy
articolo

Irene Graziosi

Dimmi la verità: perché siamo ossessionati dall’autofiction?

19 Aprile 2023

Il successo di questo genere letterario ci interroga sulla natura del romanzo e, soprattutto, sulla nostra natura di lettori.

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La prima parte della pandemia l’ho trascorsa a Roma da mia madre, con la quale non abitavo da anni. In quel periodo, che ricordo come un’unica infinita giornata di primavera scandita dalle sole passeggiate con il cane, io e mia madre ci trovavamo a parlare dei temi più vari. Tra questi, c’era il romanzo. Io leggevo per lo più autofiction e memoir, lei romanzi di finzione, e non si capacitava di come fosse cambiata la funzione della letteratura e della lettura: da strumento per evadere e perdersi, sia umanamente che linguisticamente, a bussola per ritrovarsi nell’intimità di qualcun altro e, tramite questa, capirsi.

Benché siano passati solo tre anni da quelle discussioni, le mie abitudini letterarie sono cambiate. Sono tornata, dopo averli abbandonati alla soglia dei miei vent’anni, ai romanzi di finzione, allontanandomi dalle esperienze di vita altrui e dedicandomi a libri che mi raccontano di mondi immaginati – con una lingua a volte misteriosa – e personaggi inventati, che mi paiono, spesso, più reali degli Io tracciati da romanzi di non fiction e memoir. In questi anni ho provato a indagare le ragioni di questo cambiamento, complice anche la costruzione di un romanzo che mi ha posto davanti a interrogativi nuovi, e ho riflettuto sul rapporto che ho e che abbiamo con i libri, cosa gli chiediamo, dove speriamo che ci conducano.

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Raffaele La Capria una volta disse che il romanzo, per chi legge, è come la vista di una papera in uno stagno: veleggia placida sull’acqua, infonde serenità; d’altro canto il romanzo, per chi lo scrive, è come il movimento frenetico delle zampe della papera sotto il pelo dell’acqua. Lo scrittore, la scrittrice, avrebbe dunque il compito di celare la propria fatica intellettuale e logica, occultare le riflessioni sul meccanismo narrativo utilizzato, manipolare gli elementi a disposizione per mostrare al lettore una storia talmente artefatta da apparire spontanea. Oggi il romanzo-papera è sempre meno in voga sia tra i lettori sia tra gli scrittori, mentre la pervasività della non-fiction continua a essere il bersaglio di vivaci critiche, talvolta maliziose.

Ho sempre trovato oziosi i discorsi su cosa sia romanzo e cosa non lo sia, e la bramosia di alcuni di tassonomizzare e gerarchizzare il romanzo è retaggio di un periodo storico in cui esso era appannaggio esclusivo di un’Europa, Russia inclusa, che non esiste più (per giunta in larga parte analfabeta e colonialista) in cui le élite culturali dei paesi europei si parlavano tra loro cercando di spingere un po’ più in là i confini del nuovo, per poi sistematizzarlo e tornare a tendere l’elastico dell’innovazione. 

Il mondo da allora è cambiato. L’istruzione e l’alfabetizzazione nel mondo occidentale sono diventate alla portata di molti, il romanzo ha raggiunto gli Stati Uniti, è stato punto dal realismo magico postcoloniale, ha accolto le storie orientali e migratorie, i luoghi da cui provengono libri e scrittori si sono moltiplicati, e così provare a inserire oggi ogni singolo romanzo in un preciso contenitore sarebbe impresa da folli. 

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I romanzi però ci dicono ancora qualcosa di noi e del mondo in cui viviamo (oltre che del mercato, che premia prima di tutto se stesso e poi chi vi si adegua), ed è interessante provare a capire cos’è questo qualcosa quando ad affermarsi sono alcune tendenze piuttosto che altre. 

Finora ho usato il capotiano “non-fiction”, che è il termine che indica tutto ciò che non è, appunto, fiction, ovvero finzione, invenzione. Vorrei restringere il campo, perché la non-fiction abbraccia molti generi, alcuni dei quali hanno poco a che fare con la narrativa. Preferirei concentrarmi sui romanzi legati al “vero”, quali autofiction, resoconti intimi e memoir. 

“ll romanzo, per chi legge, è come la vista di una papera in uno stagno: veleggia placida sull’acqua, infonde serenità; d’altro canto il romanzo, per chi lo scrive, è come il movimento frenetico delle zampe della papera sotto il pelo dell’acqua”.

Ho scritto romanzi legati al vero e non romanzi legati al reale. Nessuno dei due termini mi convince appieno. Philip K. Dick sosteneva che “la realtà è ciò che si rifiuta di sparire anche quando smetti di crederci”, da cui ne consegue che la realtà prescinde dalla percezione che l’uomo ha della stessa e non è mai davvero riproducibile dal discorso umano. Per quanto riguarda la verità diciamo pure che ne esistono molte e altrettante possono non riflettere la realtà, ma in qualche modo sfiorarla, e quindi propendo per questo termine in ambito letterario. 

Ciò che continua a tormentarmi, però, rispetto l’uso della parola verità quando si tratta di letteratura, è che nel contesto letterario ne esistono almeno due: la prima è legata agli eventi narrati, quindi si tratta del grado di distanza che esiste tra ciò che pretende di essere vero e ciò che è invenzione; la seconda è la verità poetica, ossia l’intuizione sul mondo che i grandi romanzi – e in generale le grandi opere d’arte –sanno comunicare a chi le incontra, pur raccontando storie inventate. Cercherò di districarmi tra queste accezioni, proseguendo nella ricerca di ciò che mi ha spinto e continua a spingere scrittori e lettori a cercare la verità nei libri. 

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Prima di farlo però mi chiedo: a cosa serve il romanzo, quello classico, quello d’invenzione? Sono state date innumerevoli risposte a questa domanda, tra le quali “a niente”. Volendo salvare chi afferma l’inutilità delle arti senza pretese, di certo l’arte non soddisfa i bisogni primari della piramide di Maslow – che definisce gerarchicamente le necessità umane, dal bisogno di cibo e sicurezza, passando per la stima e arrivando alla creatività – anzi, le opere d’arte si collocano sulla vetta di quest’ultima. Eppure l’arte, e nel caso specifico il romanzo, serve alla conoscenza

I grandi romanzi puntano un riflettore su un aspetto della realtà esistente ma non ancora illuminato, e porgono i frutti di questa scoperta al lettore. Ma di cosa è fatta la conoscenza che illuminano? Non certo di nozioni o fatti. Si tratta di un’intuizione spirituale, mistica, che sconvolge e amplia la mente del lettore, permettendogli di ascoltare ciò che prima, pur avviluppandolo, non emetteva suono. 

Questa conoscenza del romanzo di finzione (che è in parte frutto intellettuale e in parte ispirata da una musa, cioè trascende la volontà dell’autore, il quale, secondo Milan Kundera, ha il compito di ascoltare la saggezza del romanzo senza schiacciarlo con la propria intelligenza) è talvolta raggiungibile tramite la costruzione dei personaggi e delle loro azioni nel mondo. Il personaggio è un soggetto che si muove nel proprio mondo attuando delle scelte contestuali, agendo delle possibilità. 

La costruzione di questi due elementi è di natura artistico-intellettuale, nel senso che prevede un’ipotesi di persona e un’ipotesi di mondo per comunicare ai lettori la propria visione: “Quali possibilità ha l’uomo nella trappola che è diventato il mondo?”, si chiede Kundera ne L’arte del romanzo (Adelphi). “Per rispondere è necessario innanzitutto avere una certa idea di cosa sia diventato il mondo: avere cioè un’ipotesi ontologica”.

“I grandi romanzi puntano un riflettore su un aspetto della realtà esistente ma non ancora illuminato, e porgono i frutti di questa scoperta al lettore”.

Secondo Kundera il mondo reale, e di conseguenza quello dei romanzi, è divenuto nel corso dei secoli una trappola per l’uomo: si è accartocciato su se stesso, rendendo impossibile ai personaggi muoversi in spazi ampi, liberi. Si è esaurito il romanzo d’avventura, di natura colonialista, che vede l’uomo bianco alle prese con la conquista di territori che già potenzialmente gli appartengono. L’avventura rimane oggi appannaggio delle saghe di genere e dei libri per l’infanzia, periodo della vita in cui forse anche il giardino di casa sembra un mondo sconfinato. L’uomo del ’900, e quindi il personaggio, è poi diventato vittima della Storia. 

Ma ora che la Storia europea nei suoi chiaroscuri ci appare immobile (non lo è naturalmente, ma la violenza con cui ha irrotto nelle vite dei nostri antenati è un ricordo appannato, a tratti ravvivato da guerre lontane o vicine, ma mai davvero tangibili), l’uomo di cosa è in balìa e quali sono le sue possibilità, e quindi le sue scelte?

Per il Houellebecq di Sottomissione (La nave di Teseo), azzardo, il mondo ha qualcosa in comune con quello di Kafka, perché la società che descrive è dominata dalla politica, di cui la burocrazia è uno dei tentacoli. Il suo protagonista è un uomo preda della politica al termine della parabola illuminista, più che dell’Islam. Non è tanto importante che Mohammed Ben Abbes sia musulmano, perché quest’ultimo si comporta al pari di qualunque politico, e così tutta la catena amministrativa-burocratica fino a François, che a propria volta è un ignavo, un uomo che non compiendo nessuna scelta (o forse compiendo sempre quella più vigliacca) finisce per non avere più la possibilità di compierne, accompagnato dolcemente dagli agi offerti da una democrazia che lo lusinga.

Di storie che ambiscono a proporre al lettore una visione dell’essere umano e del mondo ce ne sono ancora dunque, ma è vero che nel corso del tempo queste ultime sono state affiancate da romanzi che desiderano raccontare qualcos’altro. Cosa?

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Mi sono chiesta cosa ci rivelano i romanzi legati al vero. Chi sono i loro protagonisti e che mondi abitano? Si tratta di persone realmente esistenti o di Io aderenti all’identità dell’autore, in dei mondi che somigliano al nostro, e che in virtù di questa somiglianza vengono dati per scontati e raramente raccontati oltre la naturale descrizione di luoghi e ambienti. Il ventaglio di scelte che questi Io possono compiere è molto limitato: il sentiero è già tracciato dalla storia nel caso di eventi già accaduti; nel caso dell’autofiction – e penso a Ben Lerner, i cui romanzi lo vedono protagonista di eventi solo lievemente dissimili da quelli che potrebbe sperimentare o potrebbe aver sperimentato lui – più che un Io sperimentale viene raccontato un Io “vero”, che avrebbe potuto prendere altre strade; come se l’autore provasse a forzare il meccanismo della vita che vede il punto in cui si è come il risultato di una serie di bivi e strade che non sono stati percorsi. In tutti questi casi però si rinuncia a inventare un personaggio e un mondo, quindi un’ipotesi di Io e un’ipotesi di mondo, accantonando un elemento di vitalità proprio dei romanzi che, pur raccontando di mondi opprimenti e personaggi boccheggianti, disegnano una possibilità alternativa alla realtà: immaginano e, di riflesso, solleticano l’immaginazione del lettore.

La verità di questi romanzi del vero non è più la verità poetica, ma una verità lievemente prosaica, che perde la sua astrazione e si fa tangibile, esperienziale. A pensarci bene, più che romanzi del vero, mi verrebbe ora da chiamarli romanzi di versione: raccontano la versione dell’Io dell’autore, la versione di un mondo simile a quello che abita – non sorretto da una esplicita costruzione ontologica dell’autore – la versione di un viaggio, del dolore, della propria vita. La parola “versione” soddisfa, perché ha una relazione sia con la realtà che con la verità, ma le elude entrambe, essendo il frutto di interpretazione di un Io e non un concetto così ampio da trascenderlo. 

“La verità di questi romanzi del vero non è più la verità poetica, ma una verità lievemente prosaica, che perde la sua astrazione e si fa tangibile, esperienziale”.

La parola“versione” sfiora il campo semantico processuale o giornalistico, evoca l’attualità, il presente, oppure è legata alla traduzione dei fatti, più che dell’immaginazione. Di versioni di uno stesso fatto ce ne possono essere infinite, e così la realtà si scompone in migliaia di frammenti letterari, e ciascuno di essi reclama il proprio spazio in un tempo che non diventa mai passato, né guarda al futuro. Il mito e la Storia scompaiono assieme all’ambizione artistica di raccontare il proprio mondo.

Curioso anche il tempo interno al romanzo di versione in cui spesso, ultimamente, la consequenzialità cronologica viene meno; i connettivi causali si perdono. Tutto succede nello stesso istante, la concatenazione di causa-effetto, quindi un’ipotesi evolutiva del proprio Io in relazione a certi fatti, si disgrega. I ricordi o le narrazioni del sé galleggiano slegati gli uni dagli altri sulle pagine come fossero fotografie. 

Mi chiedo se questo fenomeno non sia di natura pudica, ossia non si debba all’implicita consapevolezza dell’autore di non potersi realmente raccontare, così come postulato da Hannah Arendt e ricordato nell’incantevole Tu che mi guardi, tu che mi racconti (appena ripubblicato dopo una lunga assenza da Castelvecchi) dove Adriana Cavarero riporta una storia di Karen Blixen: un uomo che abita vicino a uno stagno una notte si sveglia per un rumore e nel buio corre a tentoni verso la fonte del suono e si accorge che un argine ha ceduto; così si adopera, sempre nell’oscurità, a porvi rimedio finché non torna a casa a riposare per poi svegliarsi al mattino e scoprire che i suoi movimenti notturni hanno lasciato nel terreno umido delle tracce che compongono la sagoma di una cicogna.

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La cicogna è la storia che ciascuno di noi lascia dietro di sé, e non può che essere raccontata da qualcuno che ci guarda. Se l’uomo avesse tentato di disegnare una cicogna con i suoi passi, la storia che avrebbe lasciato dietro di sé durante questo tentativo avrebbe avuto la strana forma del mise en abyme. Noi non conosceremo mai la nostra storia, pur autonarrandoci di continuo. La conseguenza è che qualunque cosa diremo di noi sarà falsa, e con questa consapevolezza alcuni autori, tra cui in Italia Veronica Raimo (che prima dell’ultimo Niente di vero, grande successo commerciale, si è cimentata brillantemente con il romanzo), hanno giocato con intelligenza ottenendo degli intriganti libri-cicogne

Chissà se dipende da questa impossibilità anche un’altra caratteristica interessante dei romanzi di versione: la sgradevolezza di molti di questi Io narranti. Una sgradevolezza ricercata, calcolata; mi viene in mente Atti di sottomissione di Meghan Nolan (NN), che riflette su alcuni aspetti del retaggio patriarcale ancora impressi nei geni delle generazioni nuove di donne. L’Io che racconta, che ricalca quello dell’autrice, ammette e sbandiera i propri difetti, le proprie ombre, svela la propria malignità a tradimento, rivendica il diritto all’amoralità. Quando ci si narra si affaccia il problema del come rappresentarsi agli occhi degli altri e di come apparire onesti nel farlo, e forse è più facile fingersi onesti tramite la  malizia piuttosto che la bontà. Ma tanto, pur vagheggiando di potersi conoscere e di essere limpidi nel racconto di sé, questo desiderio non potrà mai essere esaudito.

C’è un’altra ipotesi per questa malvagità. In un mondo che premia cuoricini e follower per vendere, parrebbe che una certa dose di naturale malizia, relegata ai confini del recinto dell’accettabilità e condannata sui social tramite azioni congiunte di singoli che si riversano sul cattivo di turno, affiori nei romanzi di versione, dove si è al sicuro dallo spettro puritano che ci sta infestando da qualche tempo. Perché poi, a guardar bene, non è neanche il Male a far capolino tra le pagine dei romanzi di versione. È piuttosto meschinità: un po’ di invidia, l’aver desiderato qualcuno di sposato, l’aver cercato una relazione malsana, l’essersi sentiti superiori a qualcuno di più debole. Non si assiste al tormento di Raskòl’nikov, né a quello di Richard Papen di Dio di illusioni. È una malizia che non ci si deve neanche dar la pena di perdonare; eppure, ho l’impressione che sia più facile vedere il Bene e il Male in Raskòl’nikov che nell’Io di un romanzo di versione. Forse Bene e Male, al di sotto di una certa soglia, appaiono come condòmini alle prese con misere beghe di millesimi e teste. 

Forse è troppo semplice legare queste caratteristiche che compaiono in molti romanzi di versione anche a internet, eppure la tentazione esiste. I social network ci hanno fatto sprofondare in un eterno presente poco attento ai meccanismi di causa-effetto e composto di narrazioni di singoli che si impongono prepotentemente e competono in uno spazio virtuale per gli ultimi scampoli di attenzione che follower e lettori possono concedere. Scegliere la versione di sé più seducente da mostrare al pubblico in un dato momento è diventata prassi comune; forse nei libri se ne sceglie una altrettanto seducente ma in negativo, per poter esprimere ciò che nella vita quotidiana virtuale non è concesso fare. O magari è la strategia che si adotta per espiare la colpa del parlare di sé: rappresentarsi cattivi non per le meschinità che si ammettono, ma per il peccato originale dell’auto narrazione. Ma non credo si tratti solo di questo: internet funziona da acceleratore di processi già in atto.  

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Sebbene il termine autofiction sia nato negli anni ‘70 con le sperimentazioni letterarie di Julien Serge Doubrovsky, e più in generale la narrazione del sia sempre esistita, è innegabile che da qualche tempo questa si sia imposta in misura considerevole anche grazie alla spinta di coloro che, sull’orlo di un mondo nuovo, non più colonialista e analfabeta, si sono affacciati a quelle stesse porte della scrittura che un tempo avrebbero trovato sbarrate: neri, donne, queer, persone di classi povere, emarginati. La caratteristica dell’emarginazione è la solitudine, l’esclusione dall’universo dominante di creazione di simboli. Il romanzo europeo poteva permettersi, anche inconsciamente, di utilizzare personaggi-simboli di un tutto. Nel momento in cui un uomo o una donna (di solito inventata da uno scrittore, anche magistralmente) venivano immaginati e scritti, questi assumevano a prescindere lo status di simbolo di tutti gli uomini e tutte le donne. Il romanzo borghese poteva permettersi i simboli perché veniva letto da altri borghesi. Quando iniziano ad avere gli strumenti per creare arte a propria volta, anche persone diverse da ciò che era considerato canone (sia letterario, sia umano) fanno la propria comparsa nel mondo-romanzo. Come? Raccontando la propria storia, o meglio, denunciando la propria storia, che non è simbolo di un ampio gruppo sociale dominante, ma di se stessi, della propria comunità, in un mondo che si rifiuta di vederli. 

La cosa che colpisce è che questo stile di narrazione da “esclusi” sia stato adottato nel corso del tempo da categorie di scrittori che esclusi non sono. Uomini e donne istruiti, all’apparenza dotati di mezzi che gli permetterebbero di essere al centro del discorso, utilizzano quello stesso strumento utilizzato da chi non ne aveva altri. Vale la pena chiedersi i motivi di questa adozione. La risposta potrebbe risiedere nella sparizione del centro. Il mondo si è sì accartocciato come scriveva Kundera, ma si è allo stesso tempo ampliato abbracciando tutti gli orizzonti possibili. 

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Nella nostra mente, in quella del lettore e dello scrittore di oggi, coesistono nello stesso istante centinaia di migliaia di stimoli che vengono da luoghi e tempi lontanissimi, facce di sconosciuti che ci mostrano brandelli sceltissimi delle loro vite affollano la nostra testa giorno e notte, slogan e tweet sovraccaricano la nostra memoria e il nostro vocabolario, migliaia di notizie lambiscono la nostra attenzione, ci frammentano. Ciascuno di noi è un settemiliardesimo della popolazione mondiale, nessuno è più al centro di nulla, nessuno con sguardo letterario può abbracciare tutto ciò che è il nostro universo. È l’uomo che si ripiega su se stesso mentre il mondo si dilata e oscilla tra la tragedia climatica, bellica, in cui è impossibile immaginarsi eroi o antieroi universali (o almeno prodotti da un folto gruppo socialmente riconoscibile) perché si tratta di tragedie neanche davvero realizzate, ma solo raccontate ossessivamente dalla cronaca che ci perseguita, in una società che non è più stratificata secondo i criteri novecenteschi. 

Pare che tutti, oggi, ci sentiamo emarginati, e la sensazione è che le nostre versioni siano l’unico modo che abbiamo per fermare il tempo e lo spazio, per non essere inghiottiti. I nostri personaggi siamo noi, il mondo è la nostra minuscola e insignificante vita che diventa l’unico spazio di movimento possibile in un universo fuori controllo, sterminato e inesplorabile. 

E allo stesso modo si sente il lettore, cioè noi, sempre noi, che troviamo nell’intimità altrui (o presunta tale) un luogo dove sentirci al riparo, in cui immedesimarci, in cui riconoscere qualcosa che ci è familiare, e questo qualcosa, forse, sono le bugie che tutti ci raccontiamo per vivere ignari della nostra cicogna, sono le nostre ambiguità, le nostre ombre meschine, il nostro dolore privato; e poi, certo, vogliamo anche curiosare nelle miserie e nelle fortune altrui.

Eppure la sola immedesimazione talvolta rischia di ostacolare qualcos’altro: lo sforzo intellettuale che scavalca l’emozione fugace del lettore, la cui immaginazione dovrebbe concorrere a colmare gli spazi vuoti della trama dello scrittore, ciò che Samanta Schweblin in Uccelli vivi (Sur) identifica come un ponte luminoso che collega scrittore e lettore che “esorcizza il primo di qualcosa di amaro […], e incanta il secondo rivelandogli un’amarezza che, una volta condivisa, si digerisce diversamente”. 

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Quando discutevo con mia madre cercavo di leggere libri che mi somigliassero, che trovavo familiari. Storie di giovani donne bianche alle prese con i problemi delle giovani donne bianche, che a onor del vero non sono drammatici come spesso li abbiamo dipinti. Era un periodo burrascoso e allegramente irrequieto, e io volevo accomodarmi in ciò che credevo essere la mia identità, desideravo fermarmi, confermarmi, forse esistere. Non saprei dire con precisione cosa sia accaduto da allora ma so che il romanzo-papera mi attrae e mi manca. 

Qualche tempo fa mi sono imbattuta in un’intervista a Donna Tartt. “Perché nell’Iliade tratteniamo il fiato dalla suspense pur sapendo come va a finire?”, si chiede la scrittrice in un’intervista condotta da Charlie Rose. Tartt ha una trentina d’anni, gli occhi da gatto e un irresistibile accento da profondo sud degli Stati Uniti. È il 1992, e il suo romanzo d’esordio Dio di illusioni (Bur) è appena stato pubblicato diventando caso editoriale dell’anno e a oggi uno dei maggiori successi degli anni ‘90 –  è anche da qualche tempo tornato alle luci della ribalta grazie a Tiktok, che lo ha incoronato libro-principe di quella che oggi viene chiamata “dark academia aesthetic”, ennesima prova del fatto che un buon romanzo è per sempre, pur ammantato di nuovi, enigmatici significati. 

Tartt prosegue raccontando dei suoi crucci nella costruzione di un romanzo di cui si conosce già il finale, nello specifico, il cadavere di Bunny sepolto nella neve all’inizio di Dio di illusioni. Le viene in aiuto Hitchcock che, spiegando le differenze che intercorrono tra escamotage narrativi, illustrava che la suspense non si costruisce facendo esplodere dal nulla una bomba invisibile agli spettatori, ma dall’avere due persone sedute a chiacchierare attorno a un tavolo con un ordigno che sta per esplodere piazzato tra le gambe di quest’ultimo; l’audience lo vede, i protagonisti no. La suspense si genera quando gli spettatori ne sanno di più dei personaggi. 

Mi è tornato alla mente quando, ne L’invenzione del romanzo (Laterza), Rosamaria Loretelli racconta come nel ’700 il termine suspense aveva un significato lievemente diverso da quello che ha oggi: gli scrittori si chiedevano come generare nel lettore il desiderio di girare pagina, di arrivare in fondo a un romanzo, come, insomma, creare suspense, che più che la costruzione di tensione drammatica di cui si vuole conoscere l’esito, era il meccanismo narrativo che gestiva l’emozione del lettore, la sua attesa, il suo coinvolgimento, la sua seduzione.

Mi sono un po’ immalinconita, e allo stesso tempo ho sentito un moto di ammirazione e affetto per Donna Tartt che, giovanissima, si era messa in testa di costruire una storia inventata che avesse a che fare con i greci, con Dioniso, il mistero. Ho riletto Il Dio di illusioni. E mentre la mia vita, che a tratti mi pare una distesa di sabbia di cui non vedo il termine, proseguiva un passo alla volta affondata fino alle caviglie nella quotidianità, ero ad Hampden, in Vermont, tra i boschi glassati di neve intenta a compiere un omicidio. 

Irene Graziosi

Irene Graziosi è autrice, scrittrice e responsabile editoriale di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).

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