Diventare nonni - Lucy
articolo

Valerio Magrelli

Diventare nonni

L’attesa di un nipote sa essere dolce: le immagini in 3D delle ecografie, il rassicurante grado di distanza da questo processo e la curiosità, animata da preoccupazione, per quel bambino che potrà pure somigliarci, ma sempre meno di un figlio.

Di solito sono contrario a raccontare i fatti propri. Credo però che a tale categoria si sottraggano quelle esperienze relative a tutti o almeno a molti dei possibili lettori. Ebbene, tra queste testimonianze ne rientra una abbastanza comune. Non mi riferisco al fatto di essere nonno, bensì di prepararsi a diventarlo (nonno o nonna, inutile specificare che il genere non ha alcuna rilevanza). Infatti, mentre scrivo queste righe, sono, per così dire, in dolce attesa. Attesa certo molto più dolce, o quantomeno più rilassata che quella di mia figlia, addetta a portare in sé la futura creatura – amo molto il verbo inglese to bear (“portare”, “sopportare”), da cui I was born, ossia “sono nato” in quanto “sono stato portato”. Dunque non ho ancora la minima idea di cosa significhi essere padre di una madre, mentre da molti mesi sto esercitandomi a ricevere un mandato simile.

Comincio con l’esporre qualche impressione. Forse sembrerà strano, tenuto conto della patina polverosa e antiquata che ricopre la parola “nonno”, eppure la mia prima reazione è stata d’ordine tecnologico. A un certo punto sono iniziate a arrivare analisi del nascituro dai nomi irresistibili, come la strepitosa “translucenza nucale”. Sia chiaro, dietro il termine, che indica la misura ecografica dello spessore della cute alla nuca del feto, aleggiano terribili fantasmi, come la necessità di stimare il rischio di anomalie cromosomiche. L’avranno fatto, a suo tempo, i miei figli? Non ne ho idea. Ma indubbiamente gli esami si sono moltiplicati e perfezionati, e con gli esami le certezze, e con le certezze le paure. Fatto sta che la medicalizzazione della gravidanza (che peraltro ho salutato con gioia) ha fatto enormi passi avanti.

Con ciò non voglio affatto negare la stranita commozione seguita al momento dell’annuncio, l’avvento inatteso di una pulsar microscopica dentro il cielo del grembo: “Sono incinta”. Splendida, come quasi sempre, l’etimologia: da incĭens -entis, “gravida”, inteso come “non cinta, senza cintura” (inizio sec. XIV). Interessante, qui, il parallelismo con “infanzia” in quanto “non parola, senza parola”. Insomma, siamo nel regno delle tuniche, o eventualmente delle bretelle. Ma accennavo a reazioni d’ordine tecnologico. Ebbene, la maggiore è stata indubbiamente quella relativa alla ormai tradizionale ecografia. Finora avevo visto, in bianco e nero, la sagoma del feto che trepidava nel buio, immagine di per sé a dir poco struggente. Ma adesso… Adesso abbiamo riprese a colori in 3D, cioè tridimensionali!

Difficile spiegare l’emozione che suscitano queste inquietanti apparizioni: si vedono le dita davanti al volto, e il volto stesso, i suoi tratti. Un amico mi ha confessato che, quando guarda sua figlia, gli viene in mente ogni volta quella raffigurazione originaria. Sembra un graffito sulle grotte di Lascaux, anzi, sembra un fossile. E sono fiero d’avere evocato, oltre trent’anni fa, l’idea di una “natura fossile del bimbo”. Perché in effetti cos’è questa faccina, un antico manufatto di terracotta o uno spiritello dei boschi? Un prodotto fittile o un’animula vagante, illuminata nel buio della sua tana?

“Difficile spiegare l’emozione che suscitano queste inquietanti apparizioni: si vedono le dita davanti al volto, e il volto stesso, i suoi tratti. Un amico mi ha confessato che, quando guarda sua figlia, gli viene in mente ogni volta quella raffigurazione originaria”.

Tutte queste notazioni non le ho mai fatte riguardo ai miei figli, segno che esse hanno bisogno di un’estrema distanza dall’oggetto. Il nonno è appunto questo: qualcuno che fa parte, ma in disparte. Parliamo, dunque, del nonno come punto di relazione in una lontananza cronologica. Celebre il titolo di una raccolta poetica di Milo De Angelis, Distante un padre. Ecco, io direi che il padre non è mai abbastanza distante dall’evento che ha innescato insieme alla sua compagna. La giusta prospettiva sulla nascita si ottiene solo quando ci si riesce a porre Distante un nonno. Non si tratta di una boutade – per quella avrei potuto ricorrere a un mio libro di narrativa, Geologia di un padre, facilmente parafrasabile in Geologia di un nonno. No, si tratta proprio di considerare la formidabile telescopia familiare che porta a dilatare ogni fase della gestazione, collocando il padre o la madre del padre o della madre in una posizione privilegiata.

Tutto risulta pantografato. Il nipote, così, rappresenta un autentico figlio al quadrato, mentre verrebbe spontaneo pensare l’inverso. Infatti, se il figlio è un impasto composto da metà me e da metà madre, il nipote incarnerà soltanto un quarto del mio patrimonio ereditario. Su questo non ci piove, e tuttavia, capovolgendo ogni calcolo percentuale, l’ultimo arrivato si rivela essere stranamente contiguo ai suoi nonni, nonni aumentati, nonni 2.0 – inaudito… Insomma, grazie a una sorta di presbiopia (e non solo figurata), ho come la sensazione che adesso, da lontano, ovvero a una generazione di distanza, si veda meglio.

Ma cosa si deve vedere? Chi sta arrivando? Che si nasconde dietro la miniatura tracciata dall’ecografia tridimensionale? Bel mistero. La mia risposta è che la creatura ventura sia anzitutto un distillato. Ripeto: un figlio è mezzo me, e lei, invece, solamente un quarto del mio corredo genetico, eppure, come nelle batterie di botticelle da cui si ricava l’aceto balsamico, mi sembra che l’essenza dalla matrice ne esca raffinata, depurata. Se questo fosse vero, sarebbe una salvezza: l’umanità proiettata verso una selezione spirituale. Inutile dire che non è affatto così.

E ciò mi porta a fare i conti col mondo. Finora ho trattenuto la tenerezza che provo verso l’ospite atteso: adesso la metto direttamente al bando. È venuto il momento di parlare dell’ambiente avvelenato che attende la mia nipotina. Ci vuole coraggio a fare figli in un mondo come questo, ma in verità ci vuole coraggio, e ci è sempre voluto coraggio, a fare figli tout court. Lo ha detto una volta per tutte il poeta inglese Philip Larkin – nella mia traduzione ho provato a rendere almeno un’ombra delle rime:

L’uomo passa all’uomo penuria.

Si approfondisce come un’insenatura.

Esci prima che puoi,

e non aver figli tuoi.

(Man hands on misery to man.

It deepens like a coastal shelf.

Get out as early as you can,

And don’t have any kids yourself).

Questa anti-lirica nasce dal terrore che accompagna ogni felicità, dalla sensazione di una spaventosa vulnerabilità. La sua impronta mi segue da anni, poiché ai miei occhi indica il divario tra ciò che sarebbe stato giusto (non avere figli) e ciò che invece è stato vero (ne ho avuti due). Il minimo di cui mi si possa accusare, è di incoerenza. Lo ammetto. L’ideale sarebbe aspettare tempi propizi. Ma quando mai ce ne sono stati? Essere Galli sotto Giulio Cesare? Essere Cinesi sotto Genghis Khan? Essere Inca sotto Pizarro? Non parliamo di oggi, tra riscaldamento globale e corsa al riarmo… E allora? Allora non possiamo che rassegnarci alla nostra insicurezza, al nostro desiderio di proteggere chi abbiamo evocato dal nulla (o chi lo ha evocato per noi, direbbe un nonno).

Diventare nonni -

E voglio citare al riguardo un altro pugno di versi, ma di un autore francese poco noto, Pierre-Charles Roy (1683-1764). Anche questa è una quartina, collocata sotto un quadro che raffigurava dei pattinatori – mia la traduzione di servizio:

Su un sottile cristallo l’inverno conduce i loro passi

Il precipizio sta sotto il ghiaccio

Tale è, dei nostri piaceri, la leggera superficie

Scivolate, mortali, non calcate [troppo]

(Sur un mince cristal l’hiver conduit leurs pas

Le précipice est sous la glace

Telle est de nos plaisirs la légère surface

Glissez, mortels, n’appuyez pas)

La ricchezza della strofa sta nella sua capacità di evocare l’abisso e l’allegria, la gelida profondità e la leggera superficie, invitando a scivolare sul destino senza pesi. Difficile spiegare meglio la sensazione di terrore che mi afferra pensando al futuro, e in particolare a quella bambolina in 3D che ha fatto il nido nella pancia di mia figlia. Qui oso allora presentare una mia quartina, composta circa trenta anni fa:

Volto barchetta di carta

spinta sull’acqua del mondo

Figli-scafi, ora fogli

piegati, origami del volto

Sorteggiato dal vuoto, estratto dal silenzio, sebbene sorto dalla combinazione fra i DNA dei genitori, il nascituro aspetta, e noi con lui. Dopo nove mesi trascorsi al buio, infine sbucherà all’aperto, verrà alla luce, arriverà tra noi. Sarà uno di quegli appuntamenti attraversati dalla trepidazione come elettricità lungo i tralicci. E da quel momento la sua vita inizierà a srotolarsi nella stessa maniera in cui si sviluppava la scrittura di un antico rotolo in pergamena o papiro. 

Valerio Magrelli

Valerio Magrelli è poeta, scrittore, francesista, traduttore e critico letterario. Il suo ultimo libro Exfanzia (Einaudi, 2022).

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