"Dobbiamo salvare i nostri 'sé' selvatici". Intervista a Kapka Kassabova - Lucy
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Valentina Pigmei

“Dobbiamo salvare i nostri ‘sé’ selvatici”. Intervista a Kapka Kassabova

La scrittrice bulgara torna in libreria con "Anima. Una pastorale selvaggia", capitolo conclusivo della sua splendida tetralogia sui Balcani.

Due cose bisogna subito dire di Kapka Kassabova, autrice amata a livello internazionale e ancora poco conosciuta in Italia.

La prima è che Kassabova nasce come poeta e passa solo in un secondo tempo ai reportage narrativi e la seconda che viene da una famiglia in movimento: più di un secolo fa la bisnonna dell’autrice lasciò quella che si chiamava Jugoslavia per la Bulgaria, poi la madre dell’autrice emigrò in Nuova Zelanda, dove Kapka è cresciuta, fino a che non ha scelto anche lei di spostarsi di nuovo in Europa, nelle Highlands scozzesi, dove oggi vive. “Una genealogia di sradicati”, ha scritto Kassabova che firma oggi il capitolo conclusivo della sua tetralogia sui Balcani. Con questi geni e con il talento per l’ascolto che può avere solo chi scrive poesia, è più facile capire dove sia nato un libro tanto straordinario quanto impensabile nella nostra contemporaneità come può esserlo Anima. Una pastorale selvaggia (Crocetti, 2024), il racconto degli ultimi pastori transumanti d’Europa. Leggere Anima è un percorso faticoso a cui inizialmente non siamo preparati, o non più: i tempi sono dilatati, lenti, a volte sembrano seguire quelli del pastoralismo di cui parla. “Immergetevi nelle vite ordinarie della gente”, scriveva nel 2014 il saggista francese Rodolphe Christin ne L’usura del mondo, un breve saggio profetico su quello che oggi tutti abbiamo imparato a chiamare overtourism.

Il viaggio raccontato da Kapka Kassabova è esattamente l’opposto dei nostri viaggi usa e getta: è la storia di una persona, l’autrice, che si immerge per mesi nella vita dei nuovi pastori nomadi al confine tra la Macedonia e la Bulgaria, indugia, si identifica, fino a dubitare della propria identità, a volte quasi si trasfigura nel mondo che racconta. Quando si arriva alla fine di Anima – e a quel punto saremo legati per sempre agli esseri umani (e agli animali) che Kassabova mette in scena come fossero personaggi di un romanzo – anche noi avremo appreso l’arte della pazienza: “un’arte dimenticata, come la pastorizia”. 

Nel suo libro precedente, altrettanto incantevole, Elisir (Crocetti, 2022), la scrittrice approfondiva il rapporto tra piante, luoghi ed esseri umani. In questo nuovo libro Kassabova compie la stessa operazione, concentrandosi però sulle comunità di pastori, sottoproletari e insieme testimoni di antiche tradizioni, gente in aperto e doloroso contrasto sia con la società moderna che col capitalismo industriale.

Naturalmente non è tutto bucolico nel mondo del pastoralismo contemporaneo: c’è la durezza del luogo e del clima, c’è la nostalgia struggente della montagna quando si torna in pianura, e c’è soprattutto l’inat – termine balcanico che significa ‘ostinato al limite dell’autolesionismo’. “Lassù devi vedertela con i tuoi demoni. Tutte le paure vengono fuori, ma scopri anche quanto sei tosto. Se volete sapere di che cosa siete fatti – andate a passare una settimana nella natura. Senza telefono”.

Una volta hai detto che in ogni tuo libro la natura ha preso sempre più spazio, mentre l’essere umano è diventato più piccolo. In Anima – e la radice della parola lo conferma – c’è un nuovo personaggio principale: gli animali.

Sì, i miei viaggi alchemici mi hanno portato più in profondità nel mondo naturale dove tutte le forme di vita coesistono e co-creano insieme. In Elisir erano le piante che hanno il potere miracoloso di guarire e comunicare con noi. Parlavamo il linguaggio delle piante ma l’abbiamo dimenticato. Solo gli erboristi, i raccoglitori e le medicine naturali, uomini e donne, se ne ricordano oggi. In quel  viaggio mi era capitato di conoscere gente che vive ancora in montagna con gli animali da pascolo. Allora ho deciso di passare del tempo con loro e imparare da loro. Mi sono innamorata dei cani, in particolare. Prima dell’industrializzazione vivevamo insieme – umani, animali, piante. È tempo di ricordare chi siamo veramente – esseri naturali e spirituali che hanno più affinità con gli animali e le piante che con l’Intelligenza Artificiale – e di sintonizzarci con la madre terra: lei non fa che comunicare con noi tutto il tempo.  

“Gli esseri umani sono animali e gli animali sono umani”, dice Sášo nel libro. Sei d’accordo con lui?

Sì! Sášo racconta un sacco di storie ed è un personaggio scivoloso, ma ha sempre ragione sulla natura. Sapevi che i cani da guardia sono l’unica specie sulla terra che ha una triplice identità? Si identificano con i cani, gli umani e le pecore. Alcuni di questi cani sono più intelligenti e leali di molti umani. Tuttavia, l’altra verità delle parole di Sášo è che in un ambiente pastorale, i bisogni degli animali vengono prima dei bisogni delle persone. I pastori come lui sono davvero gli ultimi custodi delle nostre montagne.

Perché hai deciso di scrivere di queste persone “invisibili”?

Proprio perché sono persone marginali, isolati, e tuttavia tengono in vita le rotte pastorali; producono il cibo più puro, conservano un modo sostenibile di prendersi cura della terra, mostrano l’unica alternativa valida all’agricoltura industriale. Questi custodi della terra amano gli animali più degli umani, e certamente più di sé stessi. Senza di loro, non ci sarebbe nulla nei nostri luoghi selvaggi ma solo turisti che si fanno selfie o giganteschi parchi eolici e altre industrie che estraggono la terra viva. È una prospettiva orribile. Inoltre, i pastori sono molto interessanti perché hanno storie della montagna, e perché essendo respinti dalla società, hanno vissuto in modo pericoloso, sofferto profondamente, ma hanno trasceso l’autocommiserazione. Come dice Sášo, gli animali lo hanno aiutato a ritrovare la sua dignità dopo anni di prigione e dipendenza.

” Leggere ‘Anima’ è un percorso faticoso a cui inizialmente non siamo preparati, o non più: i tempi sono dilatati, lenti, a volte sembrano seguire quelli del pastoralismo di cui parla”.

Marina, “l’amazzone”, dice che oggi sono sempre meno le persone interessate alla natura, anche tra i biologi. Non credo che i biologi che leggono siano tanto d’accordo.

Io spero che Marina si sbagli, ma questa è la sua esperienza, e riflette il declino fisico e mentale della popolazione in generale. Siamo dipendenti da certe sostanze che si mangiano, certi cibi, dispositivi digitali, comfort, auto e dalla cultura securitaria. Questo ci rende inadatti a godere di un ambiente naturale. Siamo come gli animali d’allevamento che non sanno sopravvivere in natura. Le pecore e i cani con cui ho trascorso del tempo sono una vecchia razza di montagna, e sono stati salvati dall’estinzione da Marina e dalla sua piccola comunità appena 25 anni fa. È possibile! Dobbiamo salvare i nostri “sé” selvatici adesso.

In questo modo non si rischia di essere nostalgici verso un mondo che non esiste più?  

Mi auguro di no. Spero che ci sia una via per tornare alle vie pastorali. Perché – se non altro – il nostro attuale modello di sfruttamento, estrazione e sterminio della terra non è sostenibile. È molto semplice: preservare l’ecologia o perire. Gli allevatori non sono solo un requiem per il passato. Sono anche un modello per un futuro “eco-intelligente”.

Tu chiami il “tempo pastorale” un tempo verticale, definito dal movimento da una sommità di un’altura al fiume e viceversa. Puoi dirci di più?

Sì, lassù il tempo passa in modo diverso. Ci sono leggi diverse, le leggi della montagna. Quando sei fuori con gli animali per il giorno, i piedi sono occupati ma “l’anima riposa”, come dicevano i vecchi nomadi. L’anima riposa specialmente quando ti siedi in un bosco o vicino ad un fiume, ma anche perché tra gli animali non esiste il male, solo le leggi della natura. 

“Dobbiamo salvare i nostri ‘sé’ selvatici”. Intervista a Kapka Kassabova -

Come sei riuscita a tornare alla vita “artificiale” dopo aver vissuto quell’esperienza estrema che racconti nel tuo libro?

Ho trascorso i giorni più felici della mia vita all’Acqua nera, e anche nella “valle alla fine dei tempi” [raccontata in “Elisir”, ndt]. E lo stesso è accaduto quando ho scritto Il Lago, o quando sono andata nelle foreste che racconto in “Confine”. Questo è successo perché stavo esplorando grandi regni naturali con buone guide: si ha sempre bisogno di guide, compagni, spiriti affini, anche quando sono un po’ pericolosi. Sono loro che ti aprono le porte e rivelano i tuoi sogni più sfrenati. E gli incubi. Tornare al “mondo di sotto” è stato difficile. Il silenzio, la natura selvaggia e la grandezza del tutto… ti cambia, ti rende più grande dentro. Poi si torna al mondo umano, senza animali, senza piante e senza tempo verticale ed è uno scontro tra due culture estreme. Forse c’è “una via di mezzo dimenticata” come ho scritto nel libro, una via di mezzo che faccia convivere entrambe le culture? Io la cerco da sempre, ma non l’ho ancora trovata. E mi manca tutto: i cani, il gregge, l’esodo quotidiano, essere offline e non disponibile per gli esseri umani, ma solo per gli animali.

I confini, hai detto più volte, sono causa di guerre e altri disastri, compresa anche la fine della pastorizia nomade. Perché?

I confini uccidono. In Europa, siamo ancora ossessionati dalle frontiere come simboli di sicurezza. Ma è un’illusione. E sì, certo le frontiere industriali dopo la prima e la seconda guerra mondiale hanno ucciso il nomadismo pastorale. Tuttavia, non parliamo solo di una recinzione, parliamo di confini ideologici che sono un’arma della plutocrazia globale che serve pochi e danneggia molti. Ciò che distrugge gli animali distrugge anche gli esseri umani. I confini ideologici sono l’antitesi di un ecosistema: sono contro la vita.  

Dopo aver distrutto il pianeta, gli esseri umani sono alla disperata ricerca della comunione con la natura. Credi che sia troppo tardi?

No, non è troppo tardi. Siamo giusto in tempo – e molti si stanno risvegliando dall’incubo dell’industrializzazione. In tutti i casi la Terra ha grandi poteri di auto-rigenerazione, con o senza di noi. La Terra sopravviverà a noi, ma noi non so se sopravviveremo a lei. Nella nostra corsa per “salvare il pianeta” stiamo facendo solo cose stupide e dannose: piazzare un parco eolico su ogni collina o elettrificare a più non posso. Non è la Terra che cerchiamo di salvare in questo modo, ma il nostro stile di vita super urbanizzato. Per capirlo abbiamo bisogno di stare negli elementi: la natura contiene il modello di chi siamo.

Dobbiamo iniziare a pensare in termini di riparazione degli ecosistemi della nostra terra. Così facendo, riconquisteremo la nostra anima [Qui Kapka dice “soul” e poi aggiunge ‘anima’ in italiano]

“Dobbiamo salvare i nostri ‘sé’ selvatici”. Intervista a Kapka Kassabova -

Hai scritto che il vento è l’anima del mondo. Che cosa significa? 

Il vento ha qualcosa di vivo e misterioso; viaggia, ti tocca, consegna un messaggio. E il messaggio è: io sono l’anima del mondo, vieni con me. Un giorno andrò con il vento e la mia anima sarà libera dal corpo. Come il vento, l’anima non muore. “Anima” ha in sé la radice del termine “animale”, ovvero ciò che è dotato di respiro, spirito e vita. I nomadi karakachan, oggi estinti, la chiamavano psyche, come del resto i greci. Appariva loro sotto forma di respiro, nebbia, vento. Quando una persona moriva in un campo di Karakachan, la “psiche” usciva dalla sua bocca.  

Forse gli animali e le piante sono l’anima del mondo. Senza di loro, la perdiamo.

“Quando inizi ad abituarti a qualcosa, è il momento di ricominciare”: scriverai di nuovo sulla Bulgaria? 

Questo è l’ultimo libro del mio quartetto dei Balcani. Il mio prossimo lavoro di libro sarà ambientato nelle Highlands della Scozia, dove vivo.

Valentina Pigmei

Valentina Pigmei è giornalista e consulente editoriale. Ha fondato l’associazione femminista “La città delle donne” e collabora con diverse testate.

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