E se Hemingway non fosse il maschilista che tutti credono? - Lucy
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Paola De Angelis

E se Hemingway non fosse il maschilista che tutti credono?

09 Settembre 2024

Fin dagli anni Settanta, il grande scrittore americano è stato spesso accusato di misoginia. Eppure a guardar bene le sue donne, reali o letterarie che siano, il quadro che ne emerge è molto diverso.

“È un bastardo maschilista, adora la caccia e le tauromachie, però sapeva scrivere, quindi ben venga quando serve. Mio padre lo adorava”.

“Anch’io lo adoro nonostante fosse un maschilista inveterato, amante della caccia e della corrida”.

“Era un misogino, perché non lo scrive nessuno? Passi l’alcolismo, se era solo una cosa sua. Ma la sua estrema misoginia?” 

Sono commenti a un paio di post su Facebook. Argomento: Ernest Hemingway, il super macho della letteratura americana. Una fama stantia che, a oltre sessant’anni dalla morte, andrebbe decalcificata una volta per tutte.

“Non ci sono donne nei testi di Hemingway”, scrisse Leslie Fiedler in Amore e morte nel romanzo americano, e con lui si schierò la critica femminista degli anni Settanta secondo cui “l’unica donna buona nei libri di Hemingway è la donna morta”. Poi però arrivarono gli anni Ottanta e nel 1986 la pubblicazione di Il Giardino dell’Eden, il romanzo che ha cambiato per sempre il corso di studi sullo scrittore per la centralità di temi come fluidità di genere, androginia, feticismo, sessualità, transessualità, giochi di ruolo.

 In effetti le femministe a cui piace Hemingway sono più numerose di quanto si pensi: già a tredici anni Joan Didion studiava le 126 parole del celebre primo paragrafo di Addio alle armi per assimilarne lo stile; altri due nomi prestigiosi sono Joyce Carol Oates e – anche se non si definiva femminista, ma lo era di fatto – Edna O’Brien. Nel documentario Hemingway di Ken Burns e Lynn Novick, la scrittrice irlandese dice: “Molte donne pensano e diffondono l’idea che Hemingway odiasse le donne e scrivesse in modo negativo di loro. Non è vero”. Poi inforca gli occhiali e legge gli ultimi paragrafi di Su nel Michigan, la storia di un date-rape raccontata dal punto di vista di Liz Coates, la giovane vittima: “Le assi del molo erano dure e piene di schegge e fredde e Jim la schiacciava sotto il suo peso e le aveva fatto male…”.

Alla fine della lettura, O’Brien si toglie gli occhiali e aggiunge: “Vorrei chiedere ai suoi detrattori, donne o uomini, di leggere quel racconto e poi di dire, in tutta sincerità, se Hemingway è uno scrittore che non capisce le emozioni femminili e che odia le donne. Nessuno può affermare una cosa del genere”. Addirittura, secondo la scrittrice alcune parti di Addio alle armi potrebbero essere state scritte da una donna.

Joyce Carol Oates aveva quindici anni quando lesse Hemingway per la prima volta: “È stato il primo scrittore ad avermi influenzata. Ho letto Nel nostro tempo a sedici anni, le storie mi interessavano puramente per il loro aspetto formale. Io tendo a essere una formalista, sono anche una femminista e sono interessata a molti aspetti biografici di uno scrittore, ma la scrittura mi interessa soprattutto in quanto tale. Le storie di Nel nostro tempo sono scolpite, alcune sono poesia in prosa”. Oates ha insegnato spesso il racconto Campo indiano e l’ha memorizzato a tal punto da sapere dove sono posizionate le virgole. Non le interessano molto i ritratti femminili di Hemingway, né i suoi ritratti in genere, ma piuttosto la sua scrittura selettiva, l’iceberg, e il ruolo attivo del lettore nel comprendere ciò che resta sommerso, non detto. “Non saprei cosa dire sulla questione di come presenta le donne. Di sicuro è un argomento che significa molto per alcune persone, ma mi si stringe il cuore quando uno scrittore di una tale complessità, con una prosa bellissima, viene categorizzato come qualcuno a cui piacciono o non piacciono le donne. Mi sembra una questione marginale. Non mi è mai passato per la testa che Hemingway odiasse le donne”.

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La scrittrice americana trova sublime Colline come elefanti bianchi in cui “la giovane donna incarna la coscienza morale della storia, dice esattamente ciò che pensa Hemingway, non è remissiva nei confronti dell’uomo, non è inferiore, si esprime molto bene. È un buon esempio di racconto in cui descrive una donna molto forte e saggia”.1

In Hemingway and Women, Female Critics and the Female Voice (The University of Alabama Press, 2002), Lawrence R. Broer e Gloria Holland scrivono che Hemingway “era sicuramente influenzato dalla concezione tradizionale delle donne, ma non agiva da mero tramite dei pregiudizi ereditati dalla sua epoca. Al contrario, riconosceva l’importanza delle battaglie della nuova donna che emergeva in quel periodo e ne fece un argomento centrale nella sua narrativa”. Sarà per questo che molte lettrici sentono un’identificazione personale con lui e per la stessa ragione, probabilmente, “la più vasta rivalutazione della vita e della reputazione di un autore mai intrapresa” è opera soprattutto di accademiche, non solo americane. 

In realtà Il Giardino dell’Eden mette in luce tematiche già presenti fin dall’inizio della produzione letteraria di Hemingway. Su questa rilettura si sono concentrate studiose come Miriam B. Mandel, Susan F. Beegel, Ann Putnam, Debra Moddelmog, Linda Patterson Miller, Lisa Tyler, Sandra Spanier, Suzanne del Gizzo, Hilary K. Justice, Verna Kale. La XX Conferenza Internazionale su Hemingway, che si è svolta lo scorso luglio a San Sebastián e Bilbao, è stata l’occasione per incontrare alcune di loro e parlare della sua presunta misoginia. Cominciamo dalle mogli.

Hemingway si sposò quattro volte e il suo comportamento verso le mogli non fu esemplare. Tutte però erano donne forti e indipendenti, nessuna di loro era una vittima. Le prime due, Hadley Richardson e Pauline Pfeiffer, erano più grandi di lui (di otto e quattro anni, rispettivamente) ed economicamente autonome. Dal fondo finanziario di Hadley la coppia attinse durante gli anni parigini: Ernest non si sfamava con i piccioni catturati nei parchi della capitale francese, come scrive in Fiesta Mobile. Pauline era giornalista e veniva da una famiglia molto ricca: la casa di Key West e i safari in Africa erano un regalo dello zio Gus. Martha Gellhorn, la terza moglie, era un’ambiziosa e brillante reporter. Mary Welsh, la quarta, era già stata sposata due volte, era anche lei giornalista e corrispondente di guerra; visse con lui per quindici anni, i più turbolenti e problematici, ma con lo scrittore rockstar condusse una vita cosmopolita. È anche la donna che poche settimane dopo il suicidio del marito andò a Cuba per negoziare con Fidel Castro la “donazione” della Finca Vigía e il recupero dei loro beni. Di lei parlo con una delle pochissime persone ancora in vita ad aver conosciuto lo scrittore.

Valerie Hemingway mi dà appuntamento alle otto e trenta del mattino nella hall dell’Hotel Carlton di Bilbao, dove lo scrittore soggiornò nell’agosto del 1959. Pochi mesi prima Valerie, aspirante reporter, lo aveva intervistato in un albergo di Madrid. Ernest la invitò a seguire i Sanfermines a Pamplona e poi la reclutò come assistente. “Il loro rapporto era alla pari”, dice a proposito della coppia. “Mary spesso voleva qualcosa su cui Ernest non era d’accordo, lo pretendeva in modo molto assertivo. Se non la spuntava, decideva di lasciarlo. Non li ho mai visti tirarsi contro degli oggetti, solo lanciarsi parole feroci, ma poi si riconciliavano e lui le comprava un regalo per farsi perdonare. Il loro rapporto era fatto di amore e odio. Quando si sposarono, Mary abbandonò la carriera di giornalista e glielo rinfacciava. Era lo stesso ritornello che Ernest sentiva ripetere da sua madre Grace: ‘Avrei potuto essere una cantante d’opera, invece ho rinunciato a tutto per mettere su famiglia’. Era la loro dinamica di coppia”.

Nel 1968 Valerie sposò Gregory, il terzogenito di Ernest, da cui ebbe tre figli e da cui si separò una ventina di anni dopo. Fin da bambino Gregory soffriva di disturbo di identità di genere e amava vestirsi con abiti femminili. “Veniamo da una strana tribù, tu e io”, gli scrisse il padre in una lettera. Negli anni Novanta si sottopose a interventi di transizione e il suo nome divenne Gloria. La fluidità di genere Hemingway ce l’aveva in casa.

“Wow! E quello chi è?”, chiede una studentessa indicando la foto di un giovane e bellissimo Ernest appesa nello studio di Linda Patterson Miller, docente alla Penn State Abington. La reazione dell’allieva è menzionata nel saggio In love with Papa (in Hemingway and Women, cit.) in cui Patterson Miller racconta il suo love affair letterario con il padre della moderna prosa americana. Hemingway era indubbiamente un uomo avvenente e di grande carisma, ma possedeva anche un’altra qualità che ricorre spesso nelle conversazioni con le studiose americane. “Nel profondo era un uomo molto tenero”, dice Patterson Miller. Honoria, figlia di Sara e Gerald Murphy, i due ricchi expat amici dello scrittore, era una bambina quando lo vide piangere al capezzale del fratello Patrick morente. Fu la prima volta che vide un uomo adulto piangere. “Hemingway possedeva una profonda comprensione di uomini e donne, che ritrae immersi nel loro tempo. Brett (Lady Ashley di Il sole sorge ancora, ndr), che opzioni ha? È una donna bellissima, tutti la vedono solo per la sua immagine, tutti gli uomini la desiderano, ma solo Jake la capisce. Con lui Brett arriva a comprendere se stessa, l’isolamento e la solitudine a cui è condannata in quel mondo”, dice Patterson Miller. 

Brett Ashley e Catherine Barkley (Addio alle armi) sono i due personaggi più rivalutati dalla critica femminista, ma nonostante la prima incarni la New Woman degli anni Venti, la sua dipendenza economica dagli uomini e il suo essere “irrisolta” mi suscitano un’irritazione quasi inconfessabile, a questo punto, perché vorrei che fosse un personaggio esemplare. Allora per non rischiare di condividere l’atteggiamento moralista di Edmund Wilson – secondo cui le eroine di Hemingway erano o dee o stronze – preferisco schierarmi con Harold Bloom, per il quale se si elimina Brett dal romanzo, si perde anche la sua componente vitale. Come evidenzia Patterson Miller nel suo saggio, il problema dell’incomprensione critica dei personaggi femminili di Hemingway dipende dai retaggi vittoriani dei critici maschi e dalla loro tendenza a giudicare anziché comprendere. 

“Perché Brett dovrebbe essere un modello esemplare? Ha perso il fidanzato in guerra, ha avuto un marito violento, è priva di mezzi economici e si affida alla sua bellezza per sopravvivere. Hemingway sapeva che le donne non erano viste per come erano veramente, capiva la loro condizione e le scarse opzioni a loro disposizione. Oggi le mie studentesse non dicono più ‘Brett è terribile’, vedono la tenerezza con cui è ritratta. I personaggi di Hemingway sono persone vere: possono non piacerci, ma possiamo comprenderli, grazie alla sua sensibilità che li rende potenti ed espressivi. Anche Jake Barnes piange nella sua stanza a Parigi. È un uomo che cerca di capire come si vive. È questo il nodo centrale dell’opera di Hemingway: come vivere la nostra vita”. 

Un altro esempio di personaggio femminile che dimostra l’empatia di Hemingway per le donne è Marjorie, nel racconto La fine di qualcosa (Nel nostro tempo). “Quando Nick le dice che tra loro è finita, lei si alza e se ne va, prende la barca e gli dice di tornare a piedi. Senza fare scene, con molta dignità, si allontana sul lago illuminata dalla luna, mentre Nick si sdraia a faccia in giù sulla coperta e sente il rumore dei remi”, conclude Patterson Miller. 

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Fra i tanti saggi che Lisa Tyler (Sinclair Community College, Dayton, Ohio) ha dedicato a Hemingway, c’è una lettura ecofemminista proprio di La fine di qualcosa. Secondo Tyler “andrebbe letto come un collegamento importante tra il trauma ambientale e vari altri traumi del Ventesimo secolo presenti nella raccolta Nel nostro tempo. Nel racconto lo sfruttamento sessuale delle donne (forse anche da parte dell’autore?) è assimilato alla profanazione arrecata dall’industria boschiva al paesaggio del Michigan. Inserendolo in Nel nostro tempo, Hemingway collega entrambi alla violenza patriarcale della prima guerra mondiale”. In un’ottica ecofemminista il disboscamento massiccio equivale a uno “stupro della terra” e per Tyler “in La fine di qualcosa Hemingway usa l’immagine di un ecosistema irrimediabilmente danneggiato […] per collegare la violenza contro la natura con altre forme di violenza descritte nella raccolta, come quella contro gli animali, le donne, i poveri e i soldati nemici, dimostrando così di essere più ecofemminista di quanto i suoi lettori debbano ancora riconoscere”.

Quando ci incontriamo l’ultimo giorno di conferenza a Bilbao, parliamo della sua pessima fama: “Non dico che la misoginia non sia mai presente nelle sue opere: in La quinta colonna è piuttosto orribile nei confronti del personaggio di Dorothy Bridges”, risponde Tyler. “Però ogni volta che Hemingway scrive di stupri, come in Su nel Michigan, lo fa sempre dal punto di vista della vittima. Lo stupro di Maria in Per chi suona la campana, quello omosessuale in Morte nel pomeriggio suscitano orrore, non sono glorificati. Hemingway si schiera con la vittima o potenziale tale, non con lo stupratore o con il personaggio maschile. In Addio alle armi le due ragazze hanno paura di essere stuprate dai soldati. In Il sole sorge ancora, durante i Sanfermines Brett è circondata da uomini che ballano intorno a lei e si avverte un sottile senso di possibile minaccia. Invece a Parigi, quando arriva accompagnata da un gruppo di omosessuali, dice che con loro si sente più sicura: siccome beve molto, uscire con uomini etero per lei può essere pericoloso”. 

Anche per Tyler un buon punto di partenza per avvicinarsi a Hemingway sono i racconti: “Su nel Michigan è molto interessante da insegnare a scuola. Di solito uno studente maschio chiede se è un date-rape, io rispondo ‘Non lo so. Ditemelo voi’ e da lì parte la discussione. Le reazioni e le opinioni sono sempre molto forti e nette”. 

Anche per Sandra Spanier la prima lettura è stata Addio alle armi intorno ai vent’anni. Oltre a insegnare inglese e Women Studies alla Penn State University, è General Editor del colossale progetto di pubblicazione delle lettere di Hemingway per la Cambridge University Press. “Quando iniziai la carriera universitaria, rimasi sorpresa dalle interpretazioni di Catherine come personaggio debole e accondiscendente, una creazione dell’immaginario maschile. I critici tradizionali approvavano quel personaggio, le critiche femministe lo detestavano perché era lo stereotipo della donna sottomessa. Per me invece è il personaggio più forte del libro, ha più esperienza di vita di Frederic Henry. Catherine aveva una concezione idealistica della guerra, pensava che il suo fidanzato sarebbe stato ferito da una spada e lei lo avrebbe curato, invece lo hanno fatto saltare per aria e ridotto a pezzi. Si pente di essersi preservata per il matrimonio come facevano le donne per bene all’epoca e dice a Frederic che da lei può avere tutto quello che vuole. La vita è breve e vuole viverla il più possibile, senza perdere tempo con le norme sociali. Frederic Henry è solo un giovane soldato che vede una bella donna e vuole andarci a letto. Ma Catherine ha un piano psicologicamente molto raffinato: per preservare la sua salute mentale, sceglie un uomo giovane per sostituire il fidanzato morto. Frederic è convinto di usare Catherine per fare sesso, ma lei è più sofisticata e lo usa per guarire dal suo trauma. Sa che non c’è un significato ulteriore nella vita, per cui costruisce il suo: vuole trovare l’amore in un mondo terribilmente violento, lui fa al caso suo e lo sceglie come amante. In realtà Catherine è la personificazione del code hero, il tipico eroe di Hemingway: possiede la grazia sotto pressione, il coraggio, lo stoicismo, il senso dell’umorismo, il cinismo, la disillusione nei confronti del mondo. Ai critici non è mai venuto in mente che il code hero potesse essere una donna, un’infermiera – professione tipicamente femminile – e per di più incinta. È lei a insegnare a Frederic cos’è la vita.

I due saggi su Addio alle armi che scrissi negli anni ‘80 e ‘90 furono accolti in modo ostile dalla critica maschile per la quale Catherine era la bella stupida. D’altro canto la critica femminista detestava Hemingway perché rappresentava tutto ciò che odiavano nella cultura e nella letteratura dominate dagli uomini. Hemingway aveva un’immagine pubblica ingombrante che lui stesso aveva contribuito a creare, ma era molto più complesso e interessante. Il personaggio e la sua personalità vengono confusi con lo scrittore e le sue opere”. 

Spanier ha lavorato con Martha Gellhorn, la terza moglie che non voleva essere ricordata come tale. “Il loro matrimonio finì molto male perché fu lei a lasciarlo, cosa che nessuna aveva mai fatto prima, per cui Hemingway scrisse cose molto cattive su di lei. Ma prima, quando erano felici insieme, era molto orgoglioso del lavoro di Martha come corrispondente di guerra, diceva che era la persona più coraggiosa che avesse mai conosciuto. Si erano innamorati in Spagna e avevano seguito la guerra civile insieme. Ebbero un rapporto splendido che in seguito si deteriorò, ma sarebbe semplicistico affermare che era misogino, che odiava le donne e non sapeva scrivere di loro”.

Si percepisce una vena misogina nella sua vastissima corrispondenza? “A volte scriveva lettere oscene e volgari, cariche di odio, ma non è l’atteggiamento prevalente nel quadro generale. Aveva amicizie molto intense che spesso si inacidivano, come accadde con John Dos Passos e F. S. Fitzgerald. Era un discepolo di Gertrude Stein, imparò molto da lei e la aiutò a promuovere il suo lavoro nella Transatlantic Review. C’era molto affetto tra loro, ma le cose cambiarono quando Gertrude divenne gelosa del suo successo. Rifiutò di recensire il suo primo libro pubblicato in America, mentre lui aveva recensito positivamente i libri di lei. Gertrude non fu generosa con lui. Nell’Autobiografia di Alice B Toklas scrisse che era fisicamente debole, sempre malato, gli piaceva atteggiarsi a duro ma si faceva sempre male, voleva passare per uno moderno ma odorava di museo. Hemingway si infuriò e cominciò a comportarsi in modo ostile nei suoi confronti. Nell’ultimo volume pubblicato delle lettere (giugno 1934- giugno 1936) il primo corrispondente è il direttore della rivista Esquire, il secondo è Maxwell Perkins, il suo editor, la terza è l’amica Jane Mason e la quarta Sara Murphy. Dei primi quattro corrispondenti, due sono donne. Hemingway aveva relazioni affettuose con le donne, anche se non erano sue amanti”.

Quando Debra Moddelmog si laureò alla Penn State, uno dei suoi professori era Philip Young, autore della wound theory, secondo cui tutti i personaggi maschili di Hemingway sono segnati da una ferita importante. Young le sconsigliò di fare la tesi su di lui perché era uno scrittore semplice (sic) su cui era stato già detto tutto. Moddelmog è diventata una delle maggiori studiose del nuovo corso della critica hemingwayana: in Reading Desire: In Pursuit of Ernest Hemingway (Cornell University Press, 1999) situa l’identità sessuale dello scrittore nell’interfaccia tra omo ed eterosessualità e analizza come l’orientamento sessuale, il genere e la razza contribuiscano a definire il suo desiderio. “Ho cominciato a rileggere tutti i suoi libri secondo quell’ottica e mi sono accorta che la sua opera è pervasa dai temi della fluidità di genere, sessualità e la cosiddetta “anormalità”. È un effetto valanga”.

Nell’edizione di The sun also rises che Debra Moddelmog ha curato per Broadview Press (2024) ha eliminato i numerosi punti esclamativi aggiunti dall’editore Scribner che trasformano Brett “in una svampita di Hollywood, un personaggio eccitabile, sopra le righe, oscurando così la sua storia sotterranea”. Anche per Moddelmog il punto di svolta è stata la pubblicazione di Il Giardino dell’Eden nel 1986.

“Già prima si facevano analisi femministe e si notava il contenuto sovversivo delle sue opere, ma la pubblicazione del romanzo ha fatto saltare il coperchio e ci ha dato il permesso di dire: ‘Sta tutto là, che vogliamo fare?’. Tom Jenks, l’editor, ha eliminato alcuni contenuti più audaci (la versione pubblicata corrisponde ad appena il 40% del manoscritto, ndr). Quando finalmente uscirà un’edizione accademica del romanzo, il dibattito si amplierà ulteriormente”. 

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Ha ricevuto critiche per la sua interpretazione? “Mi è stato detto che stavo rovinando Hemingway, che quel materiale doveva restare negli archivi. Quando ho esposto la mia analisi alla Conferenza di Parigi, le studiose femministe mi hanno circondata e mi hanno detto: ‘Andiamo a cena insieme, dobbiamo parlare!’ La loro reazione in un certo senso mi ha salvata. Per uno scrittore da sempre considerato un modello di virilità, cosa significa che nelle opere e nella vita fosse interessato in attività transgender o transessuali? Il figlio Gregory era transessuale. Era ora di rendere pubblico tutto, senza paure o censure”.

Moddelmog aveva avuto un’epifania alla Conferenza di Boston, durante un panel su Hemingway e genere. All’epoca era appena stata pubblicata la biografia di Kenneth S. Lynn (Harvard University Press, 1995), in cui si parlava del fatto che Grace, la madre di Hemingway, avesse cresciuto il figlio come gemello della primogenita Marcelline. “Nella sala ci fu un’esplosione”, commenta Moddelmog.  “Alcuni studiosi urlarono ‘Anche mio nonno veniva vestito da femmina quando era piccolo, ma è diventato un uomo perfettamente normale!’. Ho capito che c’era molta resistenza maschile e così ho scritto Reading Desire. Nel mio saggio in Hemingway and Women analizzo le famiglie queer in Hemingway. La mia tesi è che la famiglia per lui è sempre trasgressiva e transitoria: prova a costruire una famiglia biologica, ma quando questa fallisce, crea situazioni diverse che funzionano perché non ti obbligano a restare con loro per sempre”.

Una lettura per conoscere l’Altro Hemingway? “Metamorfosi marina. Nel racconto usa la parola ‘vizio’, che viene dalla chiesa, e ‘perversione’, che viene dalla sessuologia. Hemingway aveva letto Havelock Ellis e gioca con il contesto culturale del suo tempo. Come parliamo di sessualità? Attraverso un’autorità morale che viene dall’alto. La donna a un certo punto cerca di spingere il protagonista maschile verso la sperimentazione sessuale e gli dice: ‘Non usiamo la parola perversione, non ce n’è bisogno. Siamo fatti di ogni genere di cose, e tu lo sai’. Se si legge il racconto senza sapere chi è l’autore, l’effetto è sorprendente”.

Quale sarà il filone dei futuri studi su Hemingway? “La direzione da intraprendere è in una lettura trans positive, senza giudizi, semplicemente come un’attività in cui era interessato, che praticava e trovava eccitante, anziché dire che Gregory era un disastro”.

E così, anziché essere un Uomo Bianco Morto come tanti, Hemingway si posiziona in modo spiazzante nel dibattito contemporaneo. La citazione da Metamorfosi marina – “Siamo fatti di ogni genere di cose” – richiama un passaggio di Sono un mostro che vi parla (Fandango libri, 2021) del filosofo Paul Beatriz Preciado, “corpo vivo che ingloba tutto”, trans e reversibile, incarnazione vivente di quell’androginia e fluidità di genere presenti nell’opera del presunto He-Man della letteratura americana: “La vita è mutazione e molteplicità”.

1

Le dichiarazioni di Joyce Carol Oates sono tratte da Hemingway and Women, episodio della serie Conversations on Hemingway, pubblicata sul sito della PBS in occasione dell’uscita del documentario di Ken Burns e Lynn Novick. (https://www.pbs.org/kenburns/hemingway/filmmaker-q-a-hemingway-and-women/)

Paola De Angelis

Paola De Angelis è autrice, traduttrice e conduttrice radiofonica. Dal 2010 conduce Sei Gradi su Radio3.

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