Lorenzo Gramatica
Con "Qing Chung: Gui (Youth: Homecoming)" Wang Bing completa la sua poderosa trilogia sul capitalismo cinese, un'analisi accurata che riesce a sfuggire alla rigidità di ogni ideologia.
Quest’anno in concorso a Venezia 81 c’è anche Wang Bing.
Wang Bing è uno dei nomi più autorevoli in gara, ma essendo un documentarista, i suoi film sono meno appetibili e notiziabili di altri. Sono anche molto lunghi: un signore che ci è già passato, vedendoci in coda, ci augura buona fortuna; una ragazza, scherzando, definisce invece Youth: Homecoming “il primo cortometraggio di Wang Bing”. E in effetti, rispetto ad altri suoi lavori, le due ore e mezza segnalate dal programma ufficiale motivano alla visione anche i meno temerari (c’entrerà forse anche la tempesta che infuria sul Lido, ma la sala è piena di spettatori zuppi e dotati di ingombranti ombrelli, gettati sulle scale e per terra in barba alla norme di sicurezza).
Pur rifiutando l’etichetta di autore impegnato (“Non sono molto interessato alla politica […] non voglio che i miei film siano strumentalizzati. I film che guardavo da ragazzino erano pieni di politica, di ideologia. Non voglio che gli spettatori trovino questi elementi nel mio cinema”), Wang Bing, nei suoi film, ha indagato con acume la Cina recente e contemporanea, mostrandone la quotidianità, i rapidi cambiamenti, le opacità del passato, le contraddizioni, le storture e le ingiustizie: Fengming: A Chinese Memoir del 2010 è un documentario di testimonianza, molto lanzmanniano (nel senso di Claude Lanzmann, regista di Shoah) che ha come protagonista una donna il cui marito, giornalista, muore nei campi di lavoro cinesi durante la campagna anti-destra; Dead Souls, del 2018, offre voce alle testimonianze dei sopravvissuti al campo di lavoro di Gansu, nel deserto del Gobi, in un film che supera le 8 ore.
Questo ultimo film, Qing Chung: Gui (Youth: Homecoming) è il terzo capitolo di un trittico che comprende anche Youth: Spring e Youth: Hard Times, presentati rispettivamente a Cannes 2023 e a Locarno 2024. Presi assieme, compongono un grande film sulla gioventù cinese e sul lavoro che, in una società votata alla produzione, ne struttura e orienta le giornate.
È un progetto immenso, per ambizione, per sforzi e per ore di girato: 2.600. Un’enormità in sala di montaggio, un lavoro che è stato pensato e ripensato, prima, durante e dopo le riprese, che si sono svolte tra il 2014 e il 2019 nei dintorni di Shanghai, a Zhili, dove vengono prodotti vestiti per bambini. Il volume di affari del settore tessile in quell’area si attesta attorno ai 50 milioni di dollari l’anno.
“È il terzo capitolo di un trittico sulla gioventù cinese e sul lavoro che ne struttura e orienta le giornate. Un progetto immenso.”
Harun Farocki osservava nel 2001 come la prima macchina da presa fosse stata puntata verso una fabbrica; un secolo dopo l’invenzione del cinema, i registi sembrano provare scarso interesse, se non repulsione, per quell’oggetto di osservazione.
La fabbrica, non utilizzata come pretesto per tesi ideologiche semplificatorie o come elemento sul quale applicare l’oscura pozione avanguardistica à la Balestrini, è in Cina, uno degli scenari che meglio si prestano a raccontarne tratti politico-sociologico-culturali.
In breve: a raccontare la realtà.
Wang Bing repulsione per la realtà non ne ha mai provata, semmai viva curiosità.
La sua camera inquadra macchine tessili, casermoni, ballatoi di cemento; i ragazzi e le ragazze lavorano molto – sono pagati a cottimo –, vivono nei dormitori, giocano a carte, scrollano, ascoltano canzoni, scherzano, si innamorano. Le loro vite sono dure ma non come quelle dei vecchi operai, rassegnate e prive di speranza. La gioventù ha desideri e frivolezze, angosce e progetti per il futuro, non vede la realtà come immodificabile: ha orecchie e occhi più sviluppati e attenti a quello che accade fuori dai miserabili loculi della fabbrica e dei dormitori. Nella tensione tra repressività e speranza, tra la mestizia delle condizioni di lavoro e la gioia di vivere, si svela il nucleo di questa trilogia.
Questo terzo capitolo, come suggerisce il titolo, è quello del ritorno a casa. Si avvicina il Capodanno cinese, non è stato un buon anno per i giovani operai di Zhili, che sono confluiti qui da lontane province cinesi, da villaggi abbarbicati sulle montagne, dove le strade sono ancora carrettiere senza asfalto. Hanno guadagnato poco, non hanno messo da parte quasi nulla (“Ma come ho fatto? Non mi compro neanche vestiti di marca!” dice un ragazzo, mentre una collega insinua che vada a prostitute). Xiao Dong, 26 anni, parla al telefono con il suo capo, quasi scongiurandolo di pagarlo, sono sei mesi che non vede un soldo, ha due figli piccoli e deve tornare al villaggio per le piccole vacanze. “Che bastardi”: i capi sono poco amati, sono sfruttatori occhiuti e bugiardi. Quando è già tardi, la notte, chiamano in laboratorio fingendo di voler passare a portare della frutta per tutti; gli operai non se la bevono, sanno che li sta controllando (“Ci vuole portare le mele! Ma vaffanculo!”).
Sul treno che li porta a casa, un vecchio operaio racconta la storia di un 22enne, con figli piccini, morto per un colpo di sonno sul lavoro, la macchina l’ha risucchiato. “Come risucchiato?!”, chiede una giovane operaia; lo guarda preoccupata, come se potesse capitare anche a lei.
Ma anche in vacanza si lavora. Il padre di Wu Fei, un operaio ventenne, è tubercolotico e rimprovera il figlio che è appena tornato a casa, nel piccolo villaggio di Muja: “Devi spostare i mattoni… io non ce la faccio… perché non sei venuto prima? Come se te lo chiedessi tutti i giorni!” e il suo tono è imperativo ma strascicato, ricattatorio.
Il ritorno a casa di questi ragazzi e ragazze, che portano la fidanzatina collega di lavoro, è un ritorno al mondo contadino. Si capisce perché se ne sono andati, non c’è nulla per loro lì. Le montagne sono dure, spuntoni di arida roccia che pizzicano il cielo, sassi e terra, case coi muri scrostati e il fuoco per abbrustolire la carne, appesa a ganci che pendono dal soffitto. Il cielo si tinge di blu verso sera, le nuvole sono delineate come da un pittore naïf. A Zhili, il cielo è soffocato da una coltre di grigiume, sembra un paesaggio di L.S. Lowry ma meno stilizzato. Dappertutto, alle pareti, il faccione di Mao sorride con stanca benevolenza.
“Perché dobbiamo lavorare?”; “Non abbiamo neanche l’aria condizionata!”; “Meglio morire di fame”. Il lavoro pesa molto, chiude l’orizzonte, invece di aprirlo. Il tempo libero è inseguito dalle ombre vischiose del laboratorio tessile. Una coppia, sdraiata per terra nel dormitorio che li ospita: “Oggi e domani sono libero, quando si torna a lavorare è finita”.
“La macchina da presa, per Wang Bing, è una zappa che serve a scavare sotto la superficie delle cose.”
Momenti d’amore: una coppia simula un amplesso, bambinesco, tra le macchine da lavoro, per far sorridere gli altri. Schermaglie: altri due fidanzatini, lei operaia di talento, lui uno scansafatiche. “Dovevo sposare un intellettuale e invece…”, lui guarda in camera, complice, più divertito che risentito.
Nel cazzeggio si dimentica per un attimo la fatica.
Wang Bing segue diversi personaggi, in capodanni che si susseguono dal 2016 al 2019. Prima e dopo, c’è il lavoro, l’incessante ronzio delle macchine che aprono e chiudono il film. C’è altro, per loro, fuori dal laboratorio tessile? Chi arriva in cerca di impiego guarda senza gioia, come imbambolato, il futuro che lo attende. Chi non trova lavoro, tira un sospiro di sollievo (ma continua a cercare).
La macchina da presa, per Wang Bing, è una zappa che serve a scavare, con gesti metodici e ordinati, sotto la superficie delle cose, oltre la tronfia auto-rappresentazione che il Partito Comunista fa del Paese, del suo radioso avvenire fatto di numeri, statistiche, proclami di crescita economica. E solo il tempo e la costanza del gesto, di questo paziente dissotterrare, riescono a restituire quello che si cela più a fondo, nascosto ai nostri occhi: le storie di chi, di quella produttività, è artefice.
Wang Bing non si nasconde; pur non comparendo, non ha l’ambizione di sparire, alcuni personaggi introducono lui e la troupe ai familiari, “sono amici di Pechino”. È un osservatore partecipe delle vite dei suoi personaggi. La sua camera è vicina, li riprende durante il lavoro e dopo. Li segue con dolcezza, sa quando farsi da parte. Questa amorevole e solidale discrezione consente a Wang Bing di ottenere la fiducia di questi giovani, la loro adesione al progetto e una spontaneità altrimenti impossibile.
Dal lavoro, poi, Wang Bing e i giovani operai che segue, sono come affratellati: si guardano, chi dietro e chi di fronte alla camera, e si riconoscono come individui.
Fa bene il regista a non chiamarli film politici: dietro questa accurata analisi per immagini del capitalismo cinese, ci sono le persone e le loro vite, che sfuggono alla rigidità delle ideologie – anche cinematografiche.
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