Guardare non è vedere. Che cosa ci ha lasciato Alessandro Leogrande - Lucy
articolo

Nicola Lagioia

Guardare non è vedere. Che cosa ci ha lasciato Alessandro Leogrande

19 Maggio 2023

Il 20 maggio di quest’anno Alessandro Leogrande avrebbe compiuto 46 anni. Un ricordo affettuoso dell’uomo e dell’intellettuale nella prefazione di Nicola Lagioia a Fumo sulla città (Feltrinelli) che torna in libreria in una nuova edizione.

È la fine di maggio del 2002, così ricordo. Siamo davanti al mare. Vestiamo in jeans e camicia a maniche lunghe. Qualcosa in noi che non è superbia ma non è solo pudicizia ha sconsigliato l’abbigliamento balneare. Camminiamo a piedi nudi sulla sabbia. Alessandro Leogrande ha 25 anni, io ne ho 29. Ci stiamo studiando. Sulla spiaggia di Castellaneta Marina non sono ancora stati piantati gli ombrelloni. I posti in prima fila verranno sorteggiati tra i condomini di un villaggio turistico poco distante da qui. La stagione estiva incombe. Tra poche settimane arriveranno da Bari, da Taranto, da Roma, da Potenza. Arriveranno persino dalla Campania e dalla Calabria, dove pure il mare è splendido. 

Conosco Leogrande da sei mesi. Benché io sia nato a Bari e lui a Taranto, abbiamo stretto amicizia a Roma, la città dove ci siamo trasferiti. Ci siamo conosciuti lo scorso inverno a un incontro organizzato da «Lo Straniero», la rivista diretta da Goffredo Fofi a cui entrambi collaboriamo. Lui lavora in redazione, io sono un esterno. 

Nel 2000, quando di anni ne aveva 23, Alessandro ha pubblicato per L’Ancora del Mediterraneo Un mare nascosto. È un reportage narrativo in cui racconta la sua città, che spesso mostra al lettore come un’avanguardia o un monito. Ciò che è successo a Taranto potrebbe accadere su larga scala altrove, se non ovunque. In questa fase storica ci sembra che la provincia sia il vero laboratorio del paese. Proprio in Puglia, nel bene e nel male, stanno succedendo cose interessanti. Per esempio sul piano politico. Nel 1993, un anno prima della “discesa in campo” di Berlusconi, l’ex fascista Giancarlo Cito, proprietario di una tv privata, è diventato sindaco di Taranto utilizzando in modo spregiudicato il suo potere mediatico. Per esempio sul piano economico. Gli operai dell’Ilva, il più grande complesso industriale dell’Europa occidentale, si vedranno presto costretti a scegliere tra salute e lavoro. Per esempio sul piano delle arti. La Puglia – una terra fino a questo momento poco incline all’autorappresentazione – si sta guadagnando un’improvvisa visibilità fuori dai propri confini per come riesce a esprimersi nel campo del cinema, della letteratura, della musica. Tra qualche anno la regione uscirà fragorosamente dal cono d’ombra, arriveranno gli articoli sul «New York Times», le celebrazioni sulle guide Lonely Planet, i turisti voleranno fin qui dall’Olanda, dalla Germania, dalla Francia, dal Giappone, dagli Stati Uniti. Ma non è ancora il tempo. Per adesso nessuno parla di “rinascimento pugliese”.

Qual è il centro d’Europa? È una domanda che ci poniamo spesso durante le interminabili riunioni di redazione della rivista. Ce lo chiederemo con sempre maggiore frequenza man mano che ci avvicineremo alla fine del decennio: dov’è che il nostro continente si rivela? Dobbiamo andare a Bruxelles? A Parigi? A Milano? Oppure dobbiamo guardare a Lesbo, a Lampedusa, a Calais, a Rosarno, a Taranto? 

Poiché questa mattina il cielo è terso, io e Leogrande, fermi sulla spiaggia, distinguiamo in lontananza i fuochi eterni dell’Ilva. Lo Jonio, a pochi metri, è opaco. Ad affrontarlo con un secchiello, si farebbe ancora il pieno di telline. Un gommone intanto prende il largo. A bordo c’è un ristoratore della zona. Un uomo sui cinquant’anni, enorme, il petto scoperto, le spalle arrossate dal sole. Sul braccio destro c’è uno di quei tatuaggi sgraziati che associamo alla galera. Di personaggi simili ne abbiamo conosciuti molti. La Puglia è un coacervo di lingue nascoste, un incrocio di mari. Se adesso io e Alessandro saltassimo in macchina e infilassimo la Statale 106, in un’ora di viaggio cambieremmo costa, ci troveremmo sull’Adriatico, a cento chilometri da una terra di fratelli, l’Albania. Ma oggi restiamo qui. Dopo mesi di frequentazione romana (riunioni di redazione, seminari, concerti, occupazioni) è la prima volta che ci vediamo nei nostri luoghi. Anni fa mia madre comprò a Castellaneta una piccola casa di villeggiatura, questo ha fatto in modo che trascorressi tutte le estati della mia infanzia qui. Io e Alessandro, pur senza conoscerci, siamo cresciuti a pochi chilometri uno dall’altro. 

Guardare non è vedere. Che cosa ci ha lasciato Alessandro Leogrande -

Un mare nascosto è un libro in anticipo sui tempi, ma di questo per ora se ne accorgono in pochi. A differenza di pressoché tutti gli scrittori della sua generazione, e della maggior parte di quelli della generazione precedente, Alessandro non scrive romanzi. Usa la forma del reportage, del saggio narrativo, della non fiction per raccontare un presente in veloce cambiamento. Tra i suoi autori di riferimento ci sono Carlo Levi, Ryszard Kapuściński, il George Orwell di Omaggio alla Catalogna. Mentre noialtri scrittori alle prime armi cerchiamo nel nostro breve passato (cioè nel privato) l’ispirazione per i libri che sogniamo di scrivere, Alessandro Leogrande affronta il mondo esterno a viso aperto. Lo farà ancora di più in futuro. Andrà in strada, nelle fabbriche, nelle carceri, in ciò che resta delle sezioni di partito, si spingerà nelle campagne, frequenterà le scuole di italiano per stranieri, parlerà coi migranti, coi naufraghi, coi nuovi schiavi della terra, con gli sfruttati dell’acciaio, coi detenuti, coi lestofanti della politica, con qualche amministratore di buona volontà, coi preti, coi padroncini senza scrupoli e con gli imprenditori illuminati, con gli accademici senza bussola, con qualche borghese che prova a stare in equilibrio, con uomini e donne alla deriva, fino a ottenere, intervista dopo intervista, articolo dopo articolo, libro dopo libro, una straordinaria controstoria del nostro paese, o forse dovrei dire dell’Europa mediterranea.

Mentre stamattina passeggiamo sulla spiaggia, mi racconta di essere alle prese con un nuovo libro. Dovrebbe intitolarsi Le male vite, affronterà la storia del contrabbando di sigarette nel basso Adriatico. Per scriverlo, Alessandro è entrato in contatto con magistrati, piccoli contrabbandieri, sociologi, economisti, legislatori, ha messo a confronto atti processuali, dati, statistiche. La capacità di dare ordine a questo materiale, lo capirò conoscendolo meglio, va di pari passo con una grande curiosità di fondo, con un’umanità palpabile, con l’assenza di pregiudizi che la sua preparazione teorica e una coscienza politica matura renderanno uno strumento di ricerca, e non (come capita a molti) un alibi.

Guardare non è vedere. Il lavoro di Alessandro offre al lettore la possibilità di comprendere ciò che pure ha davanti agli occhi (e magari ce lo ha avuto per anni) ma che altrimenti non metterebbe a fuoco. Ad esempio i contrabbandieri. Per me sono delle presenze familiari. Quando vivevo a Bari li incontravo a ogni angolo di strada, so come parlano, come vestono, che facce hanno, in quali quartieri abitano. Ma qual è davvero la loro storia? Come nasce la loro attività? Che rotte segue? Quali interessi muove? A quali altri anelli della catena del traffico di sigarette sono legati questi uomini? Che ruolo giocano i governi? E le multinazionali del tabacco? Tutto ciò molti di noi lo capiranno meglio grazie al lavoro di Leogrande. Stessa cosa quando Alessandro si occuperà di migranti, di caporalato, quando scriverà delle lotte studentesche, di neofascismo, di guerre più o meno lontane, del razzismo in Europa, di scuola, repressione, populismo, politica e, naturalmente, del sud.

Mentre a Roma lo guardiamo lavorare, Alessandro sembra sin troppo serio per la sua età. È silenzioso, preciso, discreto, perde raramente la pazienza. Se necessario, però, tiene il punto con fermezza. Si avverte al suo cospetto lo spirito di una grande tradizione dentro la quale, tuttavia, ben pochi sono in grado di immergersi. C’è il meridionalismo di Gaetano Salvemini, di Rocco Scotellaro, di Manlio Rossi Doria. Si intravedono il magistero di Nicola Chiaromonte, la forza di Simone Weil, lo sguardo di Camus che legge l’Europa dalle coste dell’Algeria. Quel saper essere un “socialista senza partito” e un “cristiano senza chiesa” che associamo a Ignazio Silone può valere, sia pure in modo diverso, anche per lui. Non è soltanto questo. La statura di un intellettuale la si misura anche dalle trappole in cui non è caduto. Alessandro si occupa di legalità senza essere un “professionista dell’antimafia”, di politica senza i paraocchi dell’ideologia, di giuste cause senza cedere alla tentazione di diventare un capopopolo. Da antifascista detesta l’autoritarismo, ma capisce che in certi slanci libertari può celarsi l’alleggerimento dalle responsabilità, o un eccesso di ego. La sua compostezza non è rigida, il suo contegno è raro. Soprattutto, non è ossessionato da se stesso: il narcisismo, la vera malattia capace di aggirare le difese immunitarie di scrittori e intellettuali della nostra epoca, polverizzandone il talento in poche stagioni, non ha presa su di lui, il che non significa che non aspiri ai giusti riconoscimenti. 

A neanche trent’anni Alessandro Leogrande è insomma un giovane maestro. Quest’aura lo circonderà per tutta la sua breve vita, e quasi sempre – in un paese che omaggia i vivi dopo morti, i tribuni egocentrici, i venerabili tromboni, gli intemperanti di successo, i moralisti senza coscienza, i vittimisti di potere – gli renderà non facile il cammino.

***

Guardare non è vedere. Che cosa ci ha lasciato Alessandro Leogrande -

Quali fossero le doti di Leogrande era abbastanza chiaro per chi lo frequentava e lo leggeva già da allora, ma come avesse fatto a diventare così in gamba in poco tempo era difficile capirlo. Questo mistero diventava meno fitto nelle giornate come quella che ho descritto. Come dicevo, ci stavamo studiando. Benché tra Roma e le principali città della Puglia ci siano poche ore di treno, essersi ritrovati da fuorisede tra corregionali – anche perché molto giovani e senza mezzi – aveva infuso a entrambi una speranza. Se ce la sta facendo lui, posso farcela anch’io. Gli interessi comuni trovavano conforto nelle comuni origini. Gli intellettuali che incontravamo a Roma leggevano – come iniziavamo a fare noi – i libri di William Langewiesche, di David Foster Wallace, di Luca Rastello, di Toni Morrison. Ma chi, oltre a noi due, sapeva orientarsi tra i vicoli di Taranto o di Bari Vecchia? Chi comprendeva i nostri dialetti? Chi avrebbe potuto tenere testa a un borseggiatore delle case popolari? Chi, a parte me e lui, avrebbe saputo commentare tutti i gol di Pietro Maiellaro che aveva vestito sia la maglia del Taranto che del Bari? A Roma trovammo qualche altro “pugliese della diaspora” (scherzavamo su questa definizione), non fu difficile sentirsi sodali.

Come succede tra amici di nuova data, le chiacchiere servivano a nasconderci o a scoprirci a seconda dei momenti. Quel giorno, però, mentre camminavamo sulla spiaggia di Castellaneta Marina – il gommone del ristoratore era sparito oltre il lido di Metaponto, noi eravamo impegnati in una conversazione su non so più che cosa –, a un certo punto Alessandro Leogrande scoppiò a ridere, e fu quello il momento in cui si rivelò ai miei occhi. Una risata così bella, così aperta, il movimento di una finestra che si spalanca, o di una porta che si apre, un suono pieno di convivialità nel vento dello Jonio. Fu allora che misi un piede nel suo mondo segreto, sentii chiaramente come avesse messo a frutto prima e meglio di me (io, per la verità, non avevo nemmeno cominciato) un patrimonio che apparteneva a entrambi. Aveva molte risorse, Alessandro, ma tra queste c’era il fatto di essere nato in un posto di mare, in un contesto dove la vasta pratica dei fatti ha la meglio sulle filosofie tascabili, una dimensione in cui i gesti quotidiani possono essere ispirati dai più nobili principi, dalle più grandi idee, la fortuna di venire da una civiltà dove l’attitudine al dialogo (e perché no al mercanteggiamento, che tra le rive di questo mare è stato il dialogo degli umili) vince sulla prepotenza, una terra di confine dove sfruttati e marginali li si sono conosciuti di persona prima che dai libri, l’ingiustizia la si è vista nelle sue contraddizioni, la solidarietà nel suo splendore, così da saper riconoscere (in un tempo e in un luogo futuri, ad esempio a Roma nei primi Duemila) certi teorici della rivoluzione dal fanatismo che li qualifica, dal protagonismo che riduce l’impegno in cenere, la provincia come una magnifica culla esposta a due mari e quattro venti, un posto (o dovrei dire un porto) dove fare l’esperienza dell’altro è incoraggiato. 

Quando, anni dopo, ci si domanderà come mai proprio la Puglia avesse generato una figura come quella di Leogrande, una risposta intelligente la darà Oscar Iarussi. “L’arrivo della Vlora nell’agosto del 1991”. Chi ha vissuto quell’evento ne è stato cambiato più di quanto non immagini. Il XXI secolo è cominciato in Puglia con quasi dieci anni di anticipo, quando la nave mercantile attraccò al porto di Bari dopo essere partita da Durazzo con ventimila albanesi a bordo. Fu lì che vedemmo con i nostri occhi e toccammo con le mani, in quei giorni d’estate constatammo, prima di tanti altri, la fine del vecchio mondo, vedemmo spalancarsi un orizzonte più vasto di quello a cui eravamo abituati. Fu l’inizio di qualcosa di enorme, ma al tempo stesso rappresentò la fine di un’epoca, perché quel saper accogliere fraternamente i pellegrini del mare – mi riferisco a buona parte della società civile – fu una cosa di cui fummo capaci allora ma che non sapremo replicare dopo e, temo (la fratellanza rovesciata in sospetto, il sospetto in indifferenza, l’indifferenza in odio, la possibilità del cambiamento in occasione storica fallita), non vedremo più per chissà quanto. Con un “futuro a doppio taglio”, insomma, fummo costretti a fare i conti da vicino.

Il futuro in questione – con le sue ombre, la sua problematicità, le sue crescenti contraddizioni, la sua urgenza di venire decifrato – Alessandro Leogrande se lo portava dietro. Me ne accorsi la prima volta quella mattina del 2002, e continuai a ritrovarglielo addosso nei mesi e negli anni successivi. Lo vidi scrivere un libro dietro l’altro, diventava sempre più acuto, più profondo, ma anche più preoccupato per ciò che stava accadendo in Italia, in Europa, nel mondo. Tra ingiustizia sociale, democrazie ammaccate, tensioni internazionali, xenofobia, populismi, collasso ecologico, i tempi si facevano difficili. Alessandro non era però un apocalittico, non aveva come ho scritto il narcisismo né l’arroganza che fa credere di appartenere all’ultima generazione prima del diluvio. Il diluvio è ovunque, da sempre, ogni giorno ci chiama a un compito, ci chiede ragione del nostro essere nel mondo. Ma la vita, oltre a sfidarci apertamente su un terreno che presumiamo di conoscere, ci tende delle trappole mortali. Avevo visto l’Albania arrivare in Italia. Mai tuttavia avrei creduto di potermi ritrovare per la prima volta io a Tirana, molti anni dopo, per inaugurare una strada dedicata a Leogrande. Alessandro era morto a quarant’anni. La sera del 26 novembre 2017, una domenica, dopo alcune conferenze tenute nel sud Italia, era tornato a dormire nella sua casa romana e non si era più svegliato. Il suo cuore era malato, nessuno lo sapeva, neanche lui. Il giorno dopo fu un susseguirsi di scosse e momenti molto brutti che la cerchia di Alessandro fatica a rimettere insieme.

A meno di un anno dalla scomparsa, prima di Taranto e di Roma, fu Tirana a celebrare ufficialmente la sua memoria. Uno dei motivi era Il naufragio, il libro in cui Leogrande racconta la tragedia della Katër i Radës, la nave albanese carica di migranti, in fuga dalla guerra civile, che il 28 marzo del 1997, giorno del Venerdì Santo, fu speronata nel Canale di Otranto da una corvetta della Marina militare italiana. Nell’incidente morirono 57 persone, e altri 23 corpi non furono trovati. Era cambiato tutto dai tempi della Vlora. Sulla Katër i Radës Alessandro fece un’indagine seria e approfondita, intervistò sopravvissuti, parenti delle vittime, militari, avvocati, attivisti, girò le città e i villaggi dell’Albania da cui erano partite le vittime, ricostruì la vicenda come lui e pochi altri avrebbero avuto la sensibilità e l’intelligenza di fare. 

La strada intitolata al nostro amico si trova nei pressi del Parco Grande, un’area verde di quasi 300 ettari che si estende nella parte sud della città. Rruga Alessandro Leogrande si inoltra tra alberi e cespugli, piena di fascino e bellezza. Giunto sul posto con una piccola delegazione italiana (era il 7 settembre del 2018, un’altra mattinata limpida e assolata), mi ero convinto che il comune di Tirana volesse omaggiare Leogrande perché i lettori albanesi si erano sentiti riscattati dal Naufragio. Non era proprio così. Con quel libro Alessandro, più che riscattato, aveva ricordato una tragedia che l’Albania rischiava di dimenticare, aveva riportato alla memoria collettiva un trauma in procinto di venire rimosso, ma che adesso, grazie a lui, si poteva cominciare a elaborare.

Rendere consapevoli di ciò che si è, si vuole o si rischia di diventare. Vale per l’Albania grazie a Il naufragio, per l’Europa orientale grazie ad Adriatico, per la trasformazione del Mediterraneo da culla in tomba della civiltà grazie a La frontiera. Vale per Taranto, la Puglia, il sud Italia (e, di conseguenza, l’intero paese) grazie a Fumo sulla città, il quale riprende e amplia i motivi di Un mare nascosto, da cui tutto era iniziato.

Ricordarci ciò che dovremmo sapere, farci capire ciò che sarebbe stato nostro compito conoscere. È questo che ha fatto Alessandro Leogrande per tutta la vita.

C’è stato un momento in cui abbiamo creduto che, proprio dal sud, dall’Adriatico e dallo Jonio dentro cui ci eravamo tuffati mille volte, potessero arrivare le risposte che il resto del continente non stava riuscendo a elaborare. Forse è stato così, ma è durato poco tempo. Si apre un’era di inquietudine e deserti, chi non sta nell’ombra è una pallida sembianza, ma anche la solitudine è una sfida. Vorrei custodire la risata di Alessandro, vorrei essere in grado di portarla in un luogo profondo del nostro attuale silenzio, e a quel punto liberarla.

Guardare non è vedere. Che cosa ci ha lasciato Alessandro Leogrande -

Fumo sulla città  è pubblicato da Feltrinelli, che ringraziamo.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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