Matteo De Giuli
07 Novembre 2024
Il C2C non è più quello di una volta ti dicono tutti quelli sopra i trenta che vivono a Torino, con lo scetticismo tipico sabaudo, garbato ma ostinato, che mi sembra di conoscere bene, non foss’altro perché vengo anche io, per metà, da lì.
Non è più il C2C di venti anni fa di sicuro, quando con un biglietto facevi la spola tra i vari locali, club to club appunto, nell’epoca in cui il clubbing era ancora una contro-cultura dirompente e stava – in ritardo ma fieramente – prendendo forza anche da noi. E lo faceva proprio a Torino, una città proverbialmente composta, pacata, che non sembrava poter ospitare nulla di così esplosivo, e che invece vedeva mille persone ammassarsi ai Murazzi o all’Hiroshima per ascoltare Jeff Mills, Four Tet, Ellen Allien.
Il C2C non è più quello di una volta, ma scansando la nostalgia è difficile non apprezzare il modo in cui il festival è cresciuto, come abbia allargato la propria offerta, si sia aperto all’avanguardia e al pop, abbia mantenuto un’ottima fama, anche internazionale, e nel processo sia riuscito a non perdere la propria identità e il culto che si era costruito agli esordi. Diventare mainstream senza snaturarsi completamente è una metamorfosi quasi impossibile, che finora a pochi è riuscita bene come a loro.
“Il C2C non è più quello di una volta ti dicono tutti quelli sopra i trenta che vivono a Torino, con lo scetticismo tipico sabaudo, garbato ma ostinato, che mi sembra di conoscere bene”.
Oggi il C2C ospita migliaia di persone (l’ultima cartella stampa parla di oltre 40.000), si tiene nei capannoni del Lingotto, gli stessi del Salone del Libro, attira molti giovani e ormai moltissimi stranieri in un lungo weekend in cui i dj set e l’elettronica sono diventati solo la parte notturna della programmazione – e il resto è jazz, avant-pop, psichedelia, rap: una formula precisa non c’è, ma l’alchimia dei nomi scelti riesce ancora a restituire ogni anno al C2C un’identità riconoscibile anche se difficile da esprimere. Il festival ora è “debolmente diffuso”, nel senso che, oltre al Lingotto, nei giorni di C2C ci sono eventi collaterali in giro per altre venues, ma il centro assoluto rimangono appunto i due palchi alla Fiera: quello più piccolo e più dance, nelle ultime edizioni circondato da torri di casse che nascondono i dj e i musicisti dalla vista del pubblico, e poi il palco principale, più canonico, molto ampio, e per questo adattabile a vari set.
La mescola del cartellone di C2C è ormai così varia che ogni avventore può ritagliare all’interno del programma un proprio sotto-programma con la combinazione di artisti che più gli interessa. Oppure, come più frequentemente succede, può fare un salto a vedere quelli che di sicuro non gli piacciono per potersene poi con più gusto lamentare durante la fila al bagno o ai camioncini per il cibo.
Partiamo quindi dalle rimostranze: il giovedì è iniziato con la mia insofferenza epidermica per Mica Levi, cantautrice britannica di talento e autrice di alcune colonne sonore aliene, dolorose e bellissime, tra elettronica e violoncello (Under the Skin, Jackie, La zona d’interesse). Ma a Torino Levi ha portato un set letteralmente straziante, voce e chitarra, uno di quei concerti che avrebbe forse avuto senso di notte in un piccolo locale ma di sicuro non di pomeriggio in un enorme capannone ancora semi vuoto. Poco dopo è stato il turno di Dean Blunt, artista concettuale, imbroglione e trickster, abituato a fare il cazzo che gli pare, a distorcere, dileggiare e risignificare, da musicista nero, i generi considerati prettamente bianchi come indie, rock e metal. Il suo dj set è consistito, più o meno interamente, in una playlist di brani da rockoteca: Metallica (a più ripetizioni) o Alice in Chains, Bad Brains quando andava bene ma anche e soprattutto Incubus e altre rovine millennial, sparate per di più a un volume da balera più che da festival techno. Dean Blunt è diventato, negli anni, una mia passione, ma ammetto con amarezza di non aver apprezzato o capito, questa volta, la provocazione.
Altre delusioni: Shabaka, musicista jazz che adoro e che mi son goduto dal vivo con i Comet Is Coming e soprattutto con i compianti Sons of Kemet, geniale sassofonista che ha guidato negli ultimi dieci anni una nuova ondata di jazz britannico contaminato e potentissimo. Shabaka ha deciso però da qualche tempo di prendere a suonare il flauto e di dedicarsi a quello che è a tutti gli effetti un progetto di musica classica (era sul palco con due arpiste). Una dimensione che però non sembra appartenergli appieno, e la sensazione è che sia un esercizio di stile che non porta l’ascoltatore da nessuna parte (soprattutto dal vivo). E poi Arca, oggi visceralmente amata da una fanbase molto più ampia di quello che mi sarei immaginato: musicista, anche qui, fondamentale per capire la contemporaneità, produttrice venezuelana che dal vivo porta alle estreme conseguenze la sua estetica dark, ipnotica, post umana e iper erotica – fatta di prostetici e vestitini di pelle – e il suo approccio concettuale alla musica elettronica che sviscera, divora, digerisce qualsiasi melodia o linea vocale per vomitare tutto in un bolo di glitch e rumorini assortiti. Bellissima idea, che apprezzo molto e ammiro come si ammira un’opera d’arte rivoluzionaria. Dal vivo, però, è semplicemente insostenibile (per me: gran parte degli paganti era invece in visibilio, il live più affollato e partecipato di questi giorni di C2C).
Le cose che invece ricorderò con piacere: il giovedì sera è stato salvato da Kode9, come Arca anche lui ormai di casa al C2C. Scrittore, teorico, musicista, dj e produttore, tra i pionieri della scena dubstep, ha girato l’Italia in questi giorni anche per presentare la traduzione del suo Guerra Sonora (firmato con il nome di battesimo, Steve Goodman, e pubblicato da Not/NERO). Sul palco ha portato l’auto-celebrazione dei vent’anni della casa discografica che lui ha fondato, la Hyperdub, e anche se era tutto tranne che una sorpresa, è stata una bella selezione, divertente, ben pensata: quello che doveva essere, un pezzo di storia della musica.
“La mescola del cartellone di C2C è ormai così varia che ogni avventore può ritagliare all’interno del programma un proprio sotto-programma con la combinazione di artisti che più gli interessa”.
Non conoscevo e mi ha stupito Mabe Fratti, compositrice guatemalteca residente in Messico, violoncellista che si accompagna con chitarra e batteria. Ha suonato una scaletta abrasiva di sinfonie difficili da definire, psichedeliche, pop, sperimentali, delicate ma sporchissime. Avevo poi grandi aspettative, ampiamente ripagate, sia per Nala Sinephro, polistrumentista belga-caraibica, che sta sperimentando sonorità ambient-jazz eleganti ma mai leccate, ridondanti, di maniera, e invece calde, vibranti, e che dal vivo mi è sembrata ancora più luminosa e trascinante. Sia per Billy Woods, rapper newyorkese ormai storico, nel senso che ha più di cinquant’anni, apocalittico e impegnato, inquietante, uno che viene anticipato sul palco dalla sua incrollabile credibilità underground, un rapper oscuro eppure in qualche modo giocoso, citazionista, aperto a deviazioni soul, r&b, pop. E che, infatti, ha spaccato.
Tra le cose belle e quelle meno apprezzate c’è tutto il resto: i concerti visti a metà, i set ballati di notte senza sapere di chi fosse la musica (ho degli appunti su Notes, tutti da verificare: JOHN T. GAST, BEN UFO, VERRACO), quelli divertenti e già ampiamente sperimentati, come Bicep o Mace, e poi gli artisti saltati a piè pari – perché 3 giorni di fila 6pm-4am non sembra reggerli nessuno, neanche con la discreta quantità di molecole che gira al festival.
Come ogni anno, finito il C2C, torniamo a domandarci: cosa succederà adesso? Cambierà? Crescerà ancora? O si accontenterà di rimanere quello che è? Per qualche tempo mi sembra facile immaginare che il C2C possa ancora restare così, con la sua estetica e la sua fama, un festival amato al di là dei grandi nomi: il C2C come brand direbbero in agenzia, il C2C come rituale, preferisco pensare io. Perché in fondo guardando gli artisti coinvolti, ci si accorge ogni anno che molti hanno già suonato a Torino in qualche edizione recente, o che quasi tutti sono passati o passeranno al Primavera, e che insomma non sembra esserci nulla di davvero originale nella composizione generale di queste giornate. Eppure qualcosa di unico rimane, e questo basta, fin qui. Guido Savini, che si occupa della direzione artistica, sembra averlo capito meglio di noi, e in un’intervista di pochi mesi fa a «Rolling Stone» ha detto: “Un giorno, spero non lontano, faremo un’edizione senza annunciare la line-up”. Anche così, probabilmente, farebbero il pienone.
Matteo De Giuli
Matteo De Giuli è caporedattore di Lucy. Scrittore e autore, ha lavorato per Rai3, Radio3, Il Tascabile Treccani. Ha scritto “Buoni a nulla” (Quanti, Einaudi, 2022) e, con Nicolò Porcelluzzi, “MEDUSA” (Not, NERO editions, 2021).
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