Nicola Lagioia
Il linguaggio, l’inconscio, la malattia mentale, l’incesto, il senso della nostra avventura sulla Terra: l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy ci pone dinanzi a questioni cruciali come solo la grande letteratura sa fare.
L’inconscio è più antico del linguaggio. Molto più antico. È un concetto su cui Cormac McCarthy torna spesso. Non fa che parlarne nelle sue rare uscite pubbliche, si tratti dell’apparizione allo show di Oprah Winfrey, delle conversazioni con il biologo evoluzionista David Krakauer, del suo primo contributo da saggista (The Kekulé Problem) per il magazine «Nautilus».
Il passeggero, ultimo romanzo di McCarthy pubblicato in Italia, prima parte di un dittico che si concluderà con Stella Maris, è un libro splendido, e a questo tipo di riflessione deve molto. Qual è il senso della nostra avventura sulla Terra? Che ne sarà dell’esperienza umana quando saremo finiti come specie? (Vor mir keine Zeit, nach mir wird keine seyn. “Prima di me non c’era tempo alcuno, dopo di me non ne verrà nessuno”, sono i versi del poeta e mistico tedesco Daniel Czepko a cui McCarthy affida un momento cruciale del libro). La sofferenza è il prezzo da pagare per restare umani in un mondo alla deriva? E soprattutto: perché affidiamo questi angosciosi dilemmi proprio alle storie, cioè a un sistema inaffidabile come il linguaggio?
Già dire – in italiano – che siamo “passeggeri”, significa metterci davanti a un bivio grammaticale. Siamo in viaggio da una destinazione all’altra. Oppure, più verosimilmente, siamo solo passeggeri, transitori. Adesso ci siamo, dopo non ci saremo più. Scompariremo. È la nostra maledizione.
Friedrich August Kekulé è stato un chimico tedesco, nato a Darmstadt nel 1829, morto a Bonn nel 1896. Ho la fondata sensazione che negli ultimi anni Cormac McCarthy abbia meditato più su lui che su Walt Whitman. Di questo chimico, perlomeno, ha scritto e parlato di continuo.
Kekulé è diventato celebre per aver identificato la struttura molecolare del benzene. Era tempo che cercava di risolvere il problema. Poi, una sera, dopo ore di lavoro, Kekulé si addormentò davanti al fuoco di un camino. Sognò un serpente che prendeva in bocca la propria coda, l’uroboro della tradizione alchemica. Lo scienziato si risvegliò di soprassalto. Fu colto dalla sensazione che l’immagine del sogno fosse legata alla sua impresa. Raccolse allora carta e penna, ci lavorò tutta la notte fino a quando riuscì effettivamente a risolvere l’enigma: la struttura molecolare del benzene è esagonale e ciclica, assai simile al serpente visto in sogno.
A questo punto Cormac McCarthy si domanda come mai l’inconscio abbia avuto bisogno di comunicare con Kekulé attraverso un’immagine. Perché il serpente? Non sarebbe stato più comodo che il sogno gli avesse mostrato un cartello con sopra scritto: “è un maledetto anello”? Che problema ha il nostro inconscio con l’alfabeto?
L’ipotesi avanzata da McCarthy è che l’inconscio sia un sistema biologico, mentre il linguaggio no. L’inconscio si sarebbe sviluppato in noi, avrebbe governato e retto le nostre vite per milioni di anni, senza bisogno di un linguaggio che prestasse i suoi servizi al pensiero. Ma il linguaggio, per il pensiero, è un servitore così fidato?
La successiva ipotesi di McCarthy è che il linguaggio non sia una qualità emergente. La coscienza, probabilmente, lo è. Il linguaggio potrebbe aver infestato le nostre menti. Simile a un’invasione parassitaria venuta dall’esterno, potrebbe essersi impiantato a un certo punto nel cervello umano, il quale non era pronto ad accoglierlo, e non ne stava pianificato l’arrivo. Il linguaggio è tuttavia uno strumento potente. Difficile rinunciarci, una volta intuiti i suoi vantaggi. Questo non toglie che dal momento del suo arrivo, tra inconscio e linguaggio – tra abisso e dispositivo, si potrebbe dire – sia cominciata una coabitazione difficile. È forse a questa complicata convivenza che abbiamo dato successivamente il nome “homo”.
L’inconscio su di noi ne sa più del linguaggio, a cui non passa tutte le conoscenze di cui dispone. Alcune di esse, decodificate da un sistema alfabetico (ridotte a informazione) potrebbero risultare insopportabili. Freud la pensava in modo analogo. L’inconscio utilizza sì il linguaggio, ma non si fida del tutto di lui. I dispositivi linguistici (la matematica ne fa parte) ci consentono di costruire le sonde spaziali e le auto che si guidano da sole, ma sono ancora troppo rozzi e fragili per i segreti che pretendono di custodire.
Il passeggero è la storia di Bobby Western e dell’amore per sua sorella Alicia. (Spoiler: nessuno spoiler nelle prossime righe, riassumo solo le prime pagine del libro). Entrambi sono figli di un fisico che partecipò al progetto Manhattan. Sono i veri figli della bomba, si potrebbe dire, o i figli del demiurgo. Alicia è un genio della matematica. Anche Bobby ha provato a farsi largo nelle scienze dure. Era in gamba, non abbastanza. Ha rinunciato, ripiegando sulle corse automobilistiche in Europa. Dopo un incidente è tornato negli Stati Uniti. Lavora a New Orleans come sommozzatore. Con il suo gruppo di lavoro recupera relitti. Si spinge negli abissi, che gli danno angoscia. Ma il primo problema, come dicevo, è che Bobby ama sua sorella. Il secondo, persino più grave, è che sua sorella si è suicidata.
Il romanzo si apre con la morte di Alicia. Viene trovata da un cacciatore il giorno di Natale. Si è impiccata a un albero.
Nella seconda scena vediamo Alicia ancora viva. Si trova a Chicago, dove alloggia in una pensione sordida. A un certo punto nella sua stanza fa irruzione un tizio assai bizzarro. È il Talidomide Kid, un individuo che comincia a fare su e giù per la stanza, incalzando Alicia con domande sempre più aggressive. “Come hai fatto a sapere in che stanza ero?”, chiede la ragazza. “Facile. Stanza 6-C”, risponde il tizio, “e infatti ci sei”. Al Talidomide Kid, deduciamo, piacciono i giochini linguistici. Per adesso a ogni modo sembra la scena di un road movie. C’è una ragazza in fuga. Si è rifugiata in un postaccio. Ed ecco che il suo inseguitore la riagguanta. Niente di più classico. Il Talidomide Kid ha magari qualcosa del Bobby Peru di Cuore selvaggio quando insidia Lula. Solo che in questo caso, come presto vedremo, Cormac McCarthy si dimostra più radicale di David Lynch.
Nel giro di qualche riga, infatti, il Talidomide Kid si strofina le mani come “il cattivo di un film muto”. Solo che non si tratta di mani, ma di pinne. Pinne? Abbiamo letto bene? Qualche pagina dopo, sulla sedia di vimini posta di fronte al letto, compare un vecchio signore con una polverosa marsina nera. Osserva la ragazza. Da dove è spuntato fuori? Il Talidomide Kid continua a parlare in modo sempre più caotico e creativo, altri strani personaggi appaiono dal nulla, ed ecco che noi lettori ci rendiamo conto, prima con angoscia crescente, poi con rivelatorio terrore – senza che Cormac McCarthy ce lo abbia mai detto (non lo dice, lo fa sentire) – che la scena a cui assistiamo sta succedendo solo nella testa di Alicia. La quale è dunque schizofrenica.
A questo punto della lettura, ho provato per la ragazza una commozione e un trasporto che non avrei mai avuto se Cormac McCarthy fosse stato didascalico. Le mie corde emotive non avrebbero vibrato in quel modo se lo scrittore americano avesse comunicato “Alicia è schizofrenica”. Non avevo bisogno di un cartello su cui leggere. Avevo bisogno del serpente. Cormac McCarthy ha costruito un uroboro, ma l’ha fatto col linguaggio.
C’è chi si serve del linguaggio per passare un’informazione. Chi lo adopera per persuadere o per manipolare. Chi per costruire un ragionamento convincente. Rivolgere il linguaggio contro se stesso in questo modo significa fare letteratura. È il composto del benzene.
Le scene della schizofrenia di Alicia si alternano alle scene di vita di Bobby. Il Talidomide Kid diventerà un’inquietante e costante (stavo per scrivere “domestica”) presenza nel Passeggero. Ho fatto notare che al Kid piacciono i “giochini linguistici”. Avrei dovuto scrivere joycismi. Da una parte Cormac McCarthy ci trascina nella vicenda umana di Alicia Western. Dall’altra la schizofrenia è un espediente narrativo ideale per mettere in scena il più turbolento dei rapporti tra inconscio e linguaggio. Ci avventuriamo nella frattura cara ai modernisti (e ai cubisti, ai surrealisti, agli espressionisti), la zona grigia in cui – spezzata la paratìa della linearità mentale – il linguaggio collassa su se stesso e l’inconscio irrompe nel linguaggio.
Tra i marosi di questo scontro, ci sono molte scoperte ancora da fare. Siamo dalle parti di James Joyce, di Virginia Woolf, di Malcolm Lowry. Chi ha raccolto il testimone?
Torniamo alle riflessioni di McCarthy su Kekulé. Lo scrittore ci fa sapere di averne chiacchierato con amici matematici. Ai quali ha posto la domanda: la mente inconscia può risolvere problemi matematici senza passare per la matematica? Alcuni degli interpellati hanno risposto che sì, è una cosa possibile. Il linguaggio matematico serve “a portare avanti il ragionamento” a “dare stabilità, continuità, causalità” alla soluzione di problemi complessi, ma la generazione di un “singolo momento” matematico (singolarità, insight, soluzione del problema, chiamatelo come volete) è possibile che la mente riesca a compierlo senza passare per la matematica, che pure ne è l’infrastruttura. In modo analogo, ad alcune conclusioni verbalizzabili noi arriviamo prima che abbiano trovato una formulazione linguistica.
“Cormac McCarthy ha costruito un uroboro, ma l’ha fatto col linguaggio”.
Nel suo romanzo, McCarthy ci fa sapere che Alicia risolve certe equazioni senza avvalersi di carta e penna. Quando le chiedono come ci è arrivata risponde che non lo sa, non sarebbe in grado di ricostruire il processo che l’ha portata da un capo all’altro del problema.
Nel Passeggero troviamo Bobby molti anni dopo che sua sorella si è suicidata. Lui non ha mai rielaborato il lutto. È diventato una sorta di asceta. Compie le sue missioni subacquee. Per il resto frequenta persone che vivono ai margini della società: un alcolista che abita in una catapecchia (Borman), un dandy nei guai con la giustizia (Sheddan, che di nome fa Long John, LJS, Long John Silver, Il Passeggero è anche un saluto affettuoso e un commiato a molti eroi letterari), e soprattutto Debussy, una transessuale rifiutata dai genitori ma non da sua sorella di sedici anni.
(Torno per un attimo al far sentire le cose, che è ben diverso dall’informare sulle cose, e incompatibile con il cercare di convincerci di alcune cose. Ho letto in questi anni saggi e articoli e opere narrative ideologicamente orientate sulla transizione. Mi sono servite, ne ho beneficiato. Ma solo attraverso la letteratura – mai così politica quando è impolitica – mi sono trovato ad amare una transessuale come adesso amo perdutamente Debussy).
Dicevo che Bobby frequenta gente stramba. E compie le sue missioni sottomarine. In una di queste – il recupero di un aereo da turismo precipitato nel Golfo del Messico – lui e gli altri sommozzatori si accorgono che nel velivolo inabissato manca qualcosa. La scatola nera. E un passeggero. Senza volerlo, si stanno forse ficcando in un guaio. Infatti, nei giorni successivi a Bobby iniziano a succedere cose strane. Riceve la visita di due agenti governativi vestiti come mormoni. Quindi gli chiudono il conto in banca. Gli perquisiscono l’appartamento mentre non è in casa. In breve, capisce di essere braccato. Qualcuno potrebbe addirittura volerlo togliere di mezzo. Già, ma chi? E perché? Siamo adesso dalle parti di Kafka. Che colpa sta scontando Bobby? Ha visto ciò che non doveva? Ha amato sua sorella? O sono le colpe di suo padre, la cui intelligenza è stata messa al servizio della bomba? Hiroshima e Nagasaki, insieme ad Auschwitz, sono gli eventi da cui l’Occidente non si è mai più ripreso. Bobby e Alicia fanno Western di cognome.
Tra gli aerei su cui Bobby sale nel corso del romanzo, ce n’è uno diverso dagli altri. “Quando lasciarono Città del Messico l’aereo solcò il blu del crepuscolo per ritrovare la luce del sole e piegare sopra la città […] La sommità del Popocatépetl apparve tra le nuvole”.
Il Popocatépetl è uno dei due vulcani ai piedi dei quali è ambientato Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, l’impossibile storia d’amore tra Geoffrey Firmin e sua moglie Yvonne.
Ma l’amore impossibile per antonomasia è quello incestuoso. Ci ha messo molti libri, Cormac McCarthy, ma solo nel Passeggero si consegna a guardia bassa (perché adesso è un incontro tra pari?) al suo maestro. E il suo maestro è naturalmente William Faulkner. L’amore tra Bobby e Alicia non può non ricordare quello tra Quentin e Candance Compson ne L’urlo e il furore. La schizofrenia di Alicia evoca la malattia mentale di Benjy. Il suicidio di Quentin (“annegato in odore di caprifoglio”) si rispecchia nel suicidio di Alicia. Le carte sono mescolate, ma il mazzo è quello.
Perché l’incesto è un tema cardine della tradizione letteraria?
Quentin e Caddy, Bobby e Alicia sono i protagonisti di una tragedia. Anche Catherine e Heathcliff (non consanguinei, ma legalmente fratello e sorella, visto che lui è adottato) di Cime tempestose lo sono. Per non parlare della tragedia continentale davanti a cui si trovano Agathe e Ulrich, i due fratelli a un passo dall’incesto de L’uomo senza qualità.
Molti di loro, comunque, sono solo a un passo dall’incesto. Quentin non ha mai avuto un rapporto sessuale con Candance (“amava non il corpo della sorella ma un certo concetto di onore dei Compson precariamente e – lo sapeva bene – solo provvisoriamente sostenuto dalla piccola e fragile membrana della sua verginità come una copia in miniatura dell’intero vasto globo della terra può stare in equilibrio sul naso di una foca ammaestrata. Che amava non l’idea dell’incesto che non avrebbe commesso, ma un certo concetto presbiteriano della sua eterna punizione”). Bobby e Alicia non è chiaro se siano arrivati a fondere i loro corpi. Agathe e Ulrich fondono i loro spiriti (e vedono tutto) un attimo prima che l’Europa precipiti nella Prima Guerra Mondiale e l’Impero Asburgico finisca per sempre.
Sono tragedie, dicevamo, e la madre di tutte loro è innestata su un parricidio e su un incesto. Edipo giace con Giocasta e ha ucciso Laio. Ignora entrambe le cose. Poi inizia a sospettare. Quando chiede a Tiresia e quindi al servo di suo padre di dirgli la verità, i due sono recalcitranti, cercano finché possono di non parlare. L’informazione sarebbe fatale a Edipo. L’inconscio si fida poco del linguaggio, e alcune verità, tradotte in termini linguistici, potrebbero distruggere il destinatario. Una volta informato su ciò che è successo, sconvolto dall’orrore, Edipo si acceca e si autoesilia. Meglio sarebbe stato l’uroboro.
Friedrich Nietzsche scriveva che Edipo, colui che più ha sofferto, proprio per questo ha svelato l’enigma dell’uomo. O perlomeno ci è andato vicino. La conoscenza passa per la sofferenza, è un vecchio concetto. Ma la sofferenza, in questo caso, passa per la profanazione di un tabù.
Nella modernità, l’incesto tra madre e figlio si trasforma nell’incesto tra fratelli. L’amore tra fratelli è un attentato all’ordine costituito. L’ordine della modernità non è quello dell’età classica, l’ordine della modernità è un ordine percepito come sbagliato. L’incesto letterario, nella modernità, è una distruttiva ma legittima protesta contro l’impero dei padri. La scena de L’uomo senza qualità in cui Agathe, chiusa nella camera ardente con il cadavere di suo padre, alla presenza di suo fratello Ulrich, si sfila di dosso una giarrettiera e la infila ancora calda nella giacca del genitore morto, è uno dei gesti più disturbanti e sovversivi della letteratura moderna. Ulrich e Agathe vorrebbero fondare il proprio Regno Millenario, un luogo di pace e di elevazione spirituale, antitetico al mondo in cui vivono, un mondo pieno di stupidità, precursore di un mondo orrendo. Purtroppo, come sappiamo, di lì a poco qualcun altro proverà a erigere, su quelle rovine morali, il Reich Millenario.
Nell’amore tra Bobby e Alicia c’è una protesta contro il fantasma del padre che inventò la bomba atomica? Una protesta contro il demiurgo di Auschwitz e di Hiroshima?
Il linguaggio come invasione parassitaria, scrive McCarthy. Viene in mente William Burroughs quando sosteneva che il linguaggio è un virus. Un virus pericoloso. Il linguaggio non è soltanto uno strumento di scoperta e conoscenza, ma anche un dispositivo per dominare, manipolare, prevaricare, distruggere. È il linguaggio (fisico, matematico) che crea la bomba. È il linguaggio calcolante che costruisce il lager. È sui binari del linguaggio che si muove la mistificazione politica. L’arte letteraria, però, è linguaggio usato contro se stesso, linguaggio espressivo contro linguaggio funzionale, percezione contro informazione, e infine un tentativo (perennemente fallito, continuamente necessario) di un linguaggio senza linguaggio. La letteratura, quando si rende irriducibile ad altre forme linguistiche, dice senza dire.
Parlavo dei joycismi di Cormac McCarthy nelle scene dove è descritta la schizofrenia. Ma anche i lunghi momenti descrittivi che costellano le pagine de Il passeggero (le immersioni di Bobby, Bobby che rimette a posto la sua stanza, Bobby che di prepara da mangiare) non dicono solo quello che sembrano dire (non sono puramente descrittivi, balzachiani, come la descrizione della fabbrica di guanti in Pastorale americana di Philip Roth), ma esprimono, tra le righe, l’invisibile: la sofferenza di Bobby e di Alicia, il loro segreto, la loro oscura verità. Dire una cosa attraverso un’altra. Un serpente per un composto chimico. Il rumore di un ramo che si spezza per l’amore.
“Nell’amore tra Bobby e Alicia c’è una protesta contro il fantasma del padre che inventò la bomba atomica? Una protesta contro il demiurgo di Auschwitz e di Hiroshima?”
Alicia ha scritto molte lettere a Bobby. Bobby le ha lette tutte tranne una, l’ultima che ha ricevuto prima che lei morisse. Non ha il coraggio di farlo, non se la sente proprio. La affida a Debussy, la sua amica transessuale. Chiede che a leggerla sia lei.
Tiresia, lo ricordo, è stato sia uomo che donna. Debussy dice: “io voglio essere una donna. Ho sempre invidiato le ragazze […] So che essere una femmina è una cosa più vecchia persino di essere un umano”.
Il modernismo rimette il mito al centro. Cormac McCarthy se ne occupa. Non possiamo fare a meno del mito. Non possiamo soprattutto lasciarlo nelle mani sbagliate. Lo abbiamo già fatto con i totalitarismi, nel XX secolo. Stiamo rischiando di commettere lo stesso errore.
La Storia, secondo Elsa Morante, è “uno scandalo che dura da diecimila anni”. Ma una delle frasi più celebri sull’argomento la pronuncia Stephen Dedalus in Ulisse. “La Storia è un incubo da cui sto cercando si svegliarmi”.
Per convenzione, la Storia inizia con l’arrivo della scrittura. E adesso Stella Maris.
Il passeggero è pubblicato in Italia da Einaudi.
La traduzione è di Maurizia Balmelli.
Nicola Lagioia
Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).
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