Il rinascimento dell’atletica italiana - Lucy
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Riccardo Rimondi

Il rinascimento dell’atletica italiana

14 Giugno 2024

Dopo anni di mediocrità, delusioni e sconfitte, oggi l’atletica italiana è più vigorosa che mai. I successi della squadra vengono però spesso ridimensionati e inquinati da opportunismi politici e stereotipi vari, anche se la realtà è più complessa di così.

Mattia Furlani ha diciannove anni ed è il più grande talento dell’atletica italiana dai tempi di Andrew Howe. Sua sorella è una saltatrice in alto con trascorsi in nazionale, come suo padre. La madre, Khaty Seck, di origini senegalesi, è stata una velocista e oggi è la sua allenatrice. Agli Europei di Roma Furlani è arrivato secondo nel salto in lungo, col primato mondiale juniores (8,38), alle spalle del greco Miltiadis Tentoglou.

Luca Sito è nato a Milano ventuno anni fa, da papà napoletano e mamma milanese. Lì è cresciuto e, nel 2019, ha lasciato il calcio per l’atletica. Cinque anni dopo, a Roma, ha migliorato in semifinale il record italiano dei 400 metri: 44”75. In finale è arrivato quinto ed è tornato a casa con due argenti nelle due staffette (4×400 mista e 4×400 uomini).

Lorenzo Ndele Simonelli ha dominato i 110 ostacoli, in 13”05 ha fatto la seconda miglior prestazione mondiale dell’anno e poi si è messo in testa un cappello di paglia in omaggio al protagonista del manga One Piece. È nato in Tanzania 22 anni fa, suo padre è un antropologo.

Larissa Iapichino è allenata dal padre, ex saltatore con l’asta, e un anno fa ha strappato il primato italiano di salto in lungo indoor a Fiona May: sua madre. A Roma è arrivata seconda, premiata sul podio dalla mamma. L’abbiamo vista tutti in tv quando era bambina, durante la pubblicità.

Chituru Ali, 25 anni, è nato in Italia. Non ha mai conosciuto il padre, ghanese, mentre la madre di origini nigeriane vive in Svizzera. È cresciuto in una famiglia affidataria: “Considero genitori i due meravigliosi signori che chiamo zia e zio e ci sono stati sempre”, ha detto in una straordinaria intervista di Giulia Zonca su «La Stampa». “I figli – ha aggiunto – sono di chi li cresce”. Agli Europei di Roma è arrivato secondo sui 100 metri, in scia al campione olimpico Marcell Jacobs.

1. La consacrazione di Mattarella

Furlani, Sito, Simonelli, Iapichino e Ali hanno biografie molto diverse e sono arrivati ai vertici continentali in maniera differente: chi da talento generazionale, chi da predestinata, chi da rivelazione, chi faticando più degli altri. Li accomuna una cosa: nessuno di loro era a Tokyo l’1 agosto 2021 quando, in dieci minuti, Gianmarco Tamberi e Marcell Jacobs hanno riscritto la storia dell’atletica italiana dando inizio a una nuova epoca. Di questa nuova epoca l’Europeo di casa, con 11 vittorie e 24 podi totali, rappresenta il culmine.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella era all’Olimpico per abbracciare Gianmarco Tamberi e Nadia Battocletti ed è tornato in tribuna anche l’ultima sera violando il protocollo del Quirinale: “ma vi assicuro che ne valeva la pena”. A un certo punto si è visto arrivare Pietro Arese, fresco bronzo nei 1.500, che gli ha raccontato di essere soprannominato “presidente” dai compagni e ha concluso: “Da presidente a presidente… la saluto”.

Il giorno dopo, alla consegna delle bandiere di Parigi, Mattarella si è rivolto a Gianmarco Tamberi, insinuando che avesse rischiato l’eliminazione apposta per mettere in scena un thriller alla Hitchcock: “Un po’ quello che ha fatto ieri Larissa Iapichino”. 

2. La nazionale più forte dopo il buio

Tutto è partito dall’abbraccio Tamberi-Jacobs e dai cinque ori di quell’Olimpiade irripetibile, ma già oggi l’atletica italiana è molto più forte e popolare di tre anni fa. Per dirla tutta, non è mai stata così forte nella storia. E di nazionali forti in Italia ce ne sono state, anche se il loro ricordo si stava perdendo nella notte dei tempi. Abbiamo avuto Pietro Mennea e Sara Simeoni nella velocità e nell’alto, Giovanni Evangelisti e Francesco Panetta nel lungo e nelle siepi, Alessandro Andrei nel peso e Gabriella Dorio nei 1.500. Abbiamo avuto una generazione di mezzofondisti come Alberto Cova, l’attuale presidente della Fidal Stefano Mei e Totò Antibo, maratoneti come Gelindo Bordin e Stefano Baldini, marciatori come Maurizio Damilano e Ivano Brugnetti. Nel dopoguerra i nostri nonni gioivano per Abdon Pamich, Adolfo Consolini e Livio Berruti. I bisnonni, prima della guerra, per Ondina Valla e Luigi Beccali.

Nel 1984 a Los Angeles, complice il boicottaggio dei Paesi dell’Est, festeggiammo sette medaglie: tre ori, un argento e tre bronzi. Presidente della IAAF, la federazione mondiale dell’atletica leggera, era un italiano, l’onnipotente Primo Nebiolo: era stato eletto nel 1981 e avrebbe mantenuto l’incarico fino alla morte nel 1999, dopo aver trasformato l’atletica in uno show globale.

Abbiamo avuto trionfi e cadute, vittorie epiche e scandali epocali come il salto truccato di Evangelisti ai Mondiali di Roma 1987, quando il suo 7,90 diventò 8,38 per regalargli – a sua insaputa, in quel caso davvero – una medaglia di bronzo. Abbiamo avuto atleti, anche tra i fuoriclasse più celebrati, in odore di doping, nell’epoca del doping di Stato del blocco sovietico e del suo corrispettivo nordamericano, il cui caso più celebre è stato quello di Ben Johnson.

“Il crollo è arrivato negli anni Dieci, i più neri nella storia dell’atletica italiana. Il punto più basso è stato toccato tra il 2015 e il 2018, quando il livello della nazionale italiana di atletica era talmente avvilente che si fatica a descriverlo a chi non l’ha visto”.

Se scorriamo l’album degli ultimi cinque decenni, abbiamo tante istantanee. Vediamo gli anni ’70 della crescita culminata col record mondiale sui 200 di Mennea a Città del Messico 1979. Poi gli anni ’80 dei trionfi a raffica, aperti dallo stesso Mennea a Mosca e chiusi da Gelindo Bordin a Seul nel 1988. Quindi gli anni ’90 di dignitoso declino e gli anni Zero di isolate vittorie e feroci delusioni. A cavallo tra i due secoli May, prima e dopo di lei ostacolisti indomabili come Fabrizio Mori, gli ultimi siepisti capitanati da Alessandro Lambruschini, la pattuglia di maratoneti guidata da Baldini, marciatori come Ivano Brugnetti e Alex Schwazer prima che la sua storia diventasse un caso di cronaca giudiziaria, le fiammate di Andrew Howe.

Il crollo è arrivato negli anni Dieci, i più neri nella storia dell’atletica italiana. Il punto più basso è stato toccato tra il 2015 e il 2018, quando il livello della nazionale italiana di atletica era talmente avvilente che si fatica a descriverlo a chi non l’ha visto. Poi nel giro di pochi anni una delle compagini più scarse del mondo (in rapporto a bacino d’utenza e risorse economiche a disposizione) è diventata una delle protagoniste mondiali. Ed è inspiegabile. Oggi l’Europeo azzurro “lo abbiamo visto arrivare”, il boom del 2021 no.

3. L’incendio

Qualche piccola avvisaglia c’era stata: nel 2018 Filippo Tortu diventava il primo italiano a scendere sotto i 10 secondi sui cento metri, nel 2019 Davide Re scendeva sotto i 45 nei 400 e in generale, in quegli anni, tra gli Europei Berlino e i Mondiali di Doha, qualche prestazione convincente si era vista. C’erano Tamberi, in ripresa dall’infortunio del 2016, e la marciatrice Antonella Palmisano, che in quel quadriennio sciagurato si era presa sulle spalle tutta la nazionale a suon di podi e bei piazzamenti. Insomma il movimento era in ripresa, ma nulla lasciava intravedere una rivoluzione come quella che è avvenuta.

Probabilmente tanti fattori hanno concorso a trasformare l’Italia del triennio 2015-17 in quella del 2024. C’è la nomina a direttore tecnico di Antonio La Torre a fine 2018, che ha cambiato molto nella gestione dei talenti di punta, sia nell’organizzazione del rapporto con le strutture tecniche sia nelle metodologie, arrivando a controllare l’andamento dei cicli di sonno. In pratica, La Torre ha portato l’atletica italiana in questo secolo. All’epoca il presidente della Fidal era ancora Alfio Giomi, sostituito poco prima di Tokyo da Mei. L’attuale numero uno federale ora può rivendicare un aumento degli investimenti su tecnici e atleti, ma questo per forza di cose è accaduto dopo il 2021.

Ciò che Mei ha portato fin da subito, invece, è una ventata di aria nuova, leggerezza, energia e anche convinzione nei propri mezzi. Quella si percepiva già nelle giornate di Tokyo, guardando le facce degli atleti in gara. Soprattutto Mei, da ex campione, sapeva che lingua parlare e che corde toccare con gli atleti.

Poi c’è un altro aspetto quasi paradossale. È innegabile che molti dei campioni di oggi si siano formati quando l’atletica italiana non raccoglieva niente: buona parte degli investimenti, all’epoca, poteva concentrarsi sui pochi giovani di buone prospettive. Anche questo, col senno di poi, ha pagato. 

Questi elementi sono stati la legna, ma la scintilla è stata la doppietta Tamberi-Jacobs. In dieci minuti l’Italia, la Cenerentola dell’atletica, ha saltato più in alto di tutti col suo fuoriclasse e poi ha vinto i 100 metri, la gara più seguita al mondo. Da lì in poi, a Tokyo e negli anni successivi, tutti gli azzurri sono andati in gara consapevoli che i pronostici non sono una scienza esatta, che nell’atletica l’impossibile non può succedere ma l’improbabile sì. Psicologicamente, sono decollati e non sono più atterrati.

L’incendio giapponese non è stato un fuoco di paglia. L’Italia ha continuato a macinare successi grazie a una generazione che è scesa in pista decisa a sfruttare al massimo ogni occasione, senza più paura di fallire perché tanto se tutti puntano alla medaglia nessuno è più tenuto a salvare la baracca per gli altri. Fino agli Europei. Ventiquattro medaglie sono il doppio di quelle ottenute a Spalato, fino a pochi giorni fa la rassegna di maggior successo nella storia dell’atletica azzurra.

4. Origini e stereotipi

Si è molto celebrata l’immagine dei vincitori, in buona parte italiani di seconda generazione o figli di unioni miste. Il dato di partenza è vero, ed è vero che la loro incidenza sul totale dei convocati cresce di anno in anno, ma in qualche caso il fenomeno è stato raccontato a sproposito. Per l’atletica italiana le origini variegate degli atleti della nazionale non sono una novità. Anche nel 2015-2018 c’erano diversi italiani di seconda generazione, o figli di coppie miste, o ancora naturalizzati per matrimonio. Solo che perdevano. Per converso, dei vincitori di Tokyo, solo Fausto Desalu è nato straniero, mentre Jacobs ha un genitore non italiano.

Una certa retorica, molto forzata per ragioni politiche contingenti,  suggerisce che vinciamo perché abbiamo una nazionale piena di italiani di seconda generazione. Stavolta è esplosa perché gli Europei si sono svolti in contemporanea con le elezioni. Sei anni fa, col governo gialloverde appena nato, fece il giro dei social e dei quotidiani online la foto di Maria Benedicta Chigbolu, Libania Grenot, Ayomide Folorunso e Raphaela Lukudo vincitrici della staffetta 4×400 ai Giochi del Mediterraneo. Era una ‘risposta’ al fresco ministro dell’Interno e vicepremier leghista Matteo Salvini, che aveva dichiarato guerra alle Ong.

Il problema di questo modo di agire è che, per quanto lo sport sia capace di abbattere i muri culturali e razziali, usato a sproposito rischia di diventare una trappola. Se Folorunso e compagne avessero perso sarebbero state meno italiane? Fossero state bianche, la loro vittoria sarebbe valsa di meno? Brandire il colore della pelle o le ascendenze di chi vince come una clava è pericoloso, soprattutto perché nella narrazione sportiva di questo Paese esistono stereotipi che sono duri a morire.

Per anni, improvvisati antropologi hanno raccontato che Usain Bolt vinceva perché i giamaicani sono frutto di generazioni di schiavi selezionati per essere fisicamente perfetti. Il fatto che un Bolt avesse più possibilità di emergere in un Paese come la Giamaica, dove tutti corrono i 100 e i 200 metri come primo sport, di solito non convince. E sì che in Italia abbiamo avuto Mennea e dovremmo saperlo, che un fenomeno può avere anche la pelle bianca. Simonelli non ha vinto perché è mezzo tanzaniano, ma perché è forte, ha fegato e si allena molto. Vale anche per gli altri. L’Italia non vince 24 medaglie perché è infarcita di italiani di seconda generazione, sarebbe come dire che nel 2017 non toccava palla perché c’erano troppi stranieri o che nel 2021 vinceva trascinata da leader col pedigree immacolato.

“L’incendio giapponese non è stato un fuoco di paglia. L’Italia ha continuato a macinare successi grazie a una generazione che è scesa in pista decisa a sfruttare al massimo ogni occasione, senza più paura di fallire”.

A livello globale l’atletica vive un’epoca in cui diversi fenomeni stanno facendo cadere gli stereotipi come birilli. Jakob Ingebrigtsen, il miglior mezzofondista del mondo, è norvegese di nascita e ascendenze. Tra i pochi a sconfiggerlo ci sono stati i britannici Jake Wightman e Josh Kerr. Il suo connazionale Karsten Warholm ha migliorato a più riprese il primato mondiale dei 400 ostacoli. E nel giavellotto i mitici scandinavi oggi occupano posizioni di rincalzo. Il campione olimpico e mondiale in carica è l’indiano Neeraj Chopra, che l’anno scorso ha battuto il pakistano Arshad Nadeem. Nel 2019 e nel 2022 il campione mondiale è stato il grenadino Anderson Peters.

5. Foto di classe

Poi certo, questa è l’atletica italiana del 2024 e quindi è lo specchio della società che rappresenta. In ogni classe di tutte le scuole di periferia ci sono italiani con genitori italiani come Gianmarco Tamberi, Filippo Tortu, Antonella Palmisano e la lanciatrice Sara Fantini, la prima lanciatrice azzurra a vincere – nel martello – una grossa manifestazione internazionale all’aperto;  o ragazzi nati da matrimoni misti, come Simonelli, Iapichino o Nadia Battocletti, che ha la mamma marocchina e parla arabo. Ci sono ragazzi nati all’estero e adottati, come i maratoneti Yeman Crippa e Yohanes Chiappinelli.

Altri sono arrivati con la famiglia, come l’ostacolista Ayomide Folorunso di origine nigeriana, i fratelli siepisti Ala e Osama Zoghlami nati in Tunisia, e Catalin Tecuceanu, giunto dalla Romania a cinque anni e bronzo europeo degli 800. Per inciso, Tecueanu è a un passo dal record più longevo dell’atletica italiana: l’1’43”7 con cui Marcello Fiasconaro siglò, nel 1973, l’allora primato mondiale. Fiasconaro è nato a Città del Capo ed è di padre italiano e  madre sudafricana. Nella nazionale azzurra ci sono anche persone nate e cresciute all’estero e naturalizzate italiane, come il quattrocentista Brayan Lopez e il pesista Zane Weir. L’ultimo è il triplista ex cubano Andy Diaz, naturalizzato giusto l’anno scorso.

Insomma, la composizione della nazionale italiana di atletica è simile alla società da cui raccoglie i suoi talenti. A differenziarla possono essere dinamiche sociali, geografiche e di classe. È più facile che ti avvicini all’atletica se i tuoi genitori sono atleti di buon livello, ma difficilmente diventerai un campione del disco se l’unica gabbia per lanciare è a quaranta chilometri da casa tua. Se la tua famiglia fatica ad arrivare alla fine del mese, probabilmente non potrà permettersi di farti diventare un grande tennista e allora andrai a correre. Sono questi aspetti, insieme al caso, a definire le parabole di quasi tutti i componenti della nazionale più forte di tutti i tempi.

6. C’è posto per tutti

Senza dimenticare la cosa più bella dell’atletica e cioè il suo essere un insieme di sport molto diversi, con un unico comun denominatore: in pista, in pedana, in strada alla fine l’atleta è sempre solo con sé stesso. Deve trovare dentro di sé le motivazioni per sottoporsi ad allenamenti massacranti, la forza mentale per lanciare una volata quando le energie sono finite, la determinazione di ripetere fino all’esasperazione lo stesso gesto tecnico. Tutti i giorni. Quando che non ce la fa più, cambia vita. Non sappiamo quasi niente dei 112 atleti che erano agli Europei, solo che per essere lì hanno accumulato anni di aperitivi cancellati, vacanze sacrificate, allenamenti fallimentari, delusioni cocenti e infortuni dolorosi. Per ora ce l’hanno fatta, ciascuno a modo suo: non c’è una ricetta unica per affrontare tutto questo e ognuno si arrangia in base al tipo umano che è. È il motivo per cui nella nazionale italiana – e in ogni squadra di atletica – ci sono i tipi umani più disparati, personalità estreme.

Così capita che in pedana salti Tamberi, un istrione sopra le righe e a suo agio nel prendersi la scena in ogni ambito, agonista feroce capace di ribaltare gare già perse e di sconfiggere avversari più quotati a dispetto dei pronostici. Ma sulla stessa pedana, in orari diversi, c’è anche Elena Vallortigara, saltatrice come lui e capace di arrivare in carriera a 2,02, seconda italiana di sempre. Vallortigara è uno dei più grandi talenti del salto in alto della sua generazione, ma ha sempre sofferto la tensione della gara e spesso è stata eliminata in qualificazione a misure abbordabili, l’ultima volta a Roma. Anche quando arrivava in finale, ha finito spesso nelle retrovie.

Tamberi suona la batteria, duetta col pubblico, scherza coi cameramen, finge infortuni, tira fuori molle dalle scarpe, saluta il presidente della Repubblica. Vallortigara lavora a maglia per smaltire la tensione. Tamberi salta, poi si dimena come un tarantolato sulla pedana. Vallortigara è una maschera di malinconia e tensione.

In questa nazionale però c’è anche lei. Un pomeriggio del 2022 era in pedana a Eugene, in Oregon, mentre in Italia era notte. Nei giorni precedenti Jacobs e Tamberi avevano mancato la medaglia e l’Italia era ancora a secco. Quel pomeriggio Vallortigara ha fatto sei salti di seguito perfetti, tutti alla prima misura. Entrava in pedana, eseguiva e scendeva dal materasso senza esultare, in fretta, quasi temendo che l’asticella ci ripensasse e venisse giù. A 1,98 l’asticella ha tremato ma è rimasta in piedi. Piccolo, prudente, grido di esultanza. A 2 metri, quando è atterrata e l’asticella era ancora lì, l’urlo l’ha sentito tutto l’Oregon. È stata anche in testa, per qualche minuto. Poco dopo era sul podio, in mano aveva una medaglia di bronzo e in faccia il sorriso di chi aveva appena vissuto un pomeriggio da favola: la sua. Nella foto di gruppo dell’incredibile quadriennio dell’atletica italiana c’è Tamberi e c’è Vallortigara. Ci sono quelli che vanno all’arrembaggio e quelli che non hanno mai mollato davanti alle delusioni, senza sapere se un giorno tutti i tasselli sarebbero andati al loro posto.

7. Un’occasione d’oro

Le Olimpiadi di Tokyo hanno generato una valanga che precipiterà per anni, in virtù dell’effetto emulazione. Sono state una manna dal cielo. Chi frequentava i centri sportivi nel primo decennio di questo secolo ricorda che le campagne di reclutamento si basavano su uno slogan mortificante riportato a caratteri cubitali sugli striscioni dei campi scuola: “Iscriviti ad atletica, non farai panchina”. Ma chi è il ragazzo talentuoso che intraprende uno sport solo per scansare la panchina? Una campagna del genere era deprimente per chi faceva atletica per passione e non attraeva certo chi, ben dotato fisicamente, aveva comunque successo nel proprio sport. Le Olimpiadi giapponesi, con i trionfi sul campo, hanno dato qualcosa da raccontare, non solo al resto degli atleti della nazionale ma anche ai più giovani.

Nel 2021, dati Fidal, c’è stato un boom di iscritti: i tesserati sono passati da poco meno di 190mila a 228mila. A trainare questa esplosione il dato degli Esordienti e dei Ragazzi, in pratica gli under 14, che sono passati da 54mila a 90mila. Ragazzini che si sono fatti portare al campo a settembre perché sognavano di diventare i nuovi Jacobs e Tamberi. Quasi nessuno di loro lo diventerà e molti lo hanno già capito, ma almeno hanno qualcuno a cui ispirarsi. Per i loro coetanei di dieci o vent’anni fa era molto più difficile. E tra quelli che sognano, una manciata di talentuosi tra qualche anno potrà stringere in mano qualche carta più concreta. A quel punto dovranno essere costanti, avere la fortuna di evitare infortuni gravi e trovare tecnici preparati. Costanza, salute e tecnici sono tre elementi su cui la Federazione può avere un peso. Fino a qualche anno fa, far crescere i giovani Tortu e Tamberi era paradossalmente semplice: c’erano quasi solo loro in Italia. Ora, con un bacino d’utenza esploso all’improvviso, la Federazione è chiamata a esserne all’altezza. Sulle sue mosse di questi anni si gioca il futuro dell’atletica azzurra dei prossimi due decenni.

Riccardo Rimondi

Riccardo Rimondi è nato a Bologna nel 1990 e lavora come giornalista dal 2015. Ha seguito diversi settori per testate locali e nazionali e scrive di atletica per alcune riviste online

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