Gioia Battista
Lo spettacolo "Il sole s’era levato al suo colmo", in scena per il progetto Gradus del Reggio Parma Festival, trasforma "Le onde" di Virginia Woolf in una partitura musicale. Nessuna parola, nessuna trama lineare: a guidare lo spettatore attraverso i pensieri dei personaggi solo i suoni, i gesti e la scenografia.
“L’arte è ritmo. Una veduta, un’emozione creano nella mente un’onda di ritmo molto prima che si abbiano parole per riempirlo” così scrive Virginia Woolf a Vita Sackville-West. Era il 1926 e la scrittrice inglese era nel pieno della composizione di Le Onde, a cui oggi si ispira lo spettacolo Il sole s’era levato al suo colmo, un lavoro collettivo di Sânziana Dobrovicescu e Mihai Codrea (compositori, adattamento dal romanzo, co-regia), Ioana Nițulescu (dramaturg, adattamento dal romanzo, co-regia), Daniel Gavrilă (costumi), Alexandra Budianu (scenografia, light design) e Lars Tuchel (sound design). Lo spettacolo, prodotto da Festival Aperto / Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, sarà in scena il 9 novembre alle ore 18 presso il Teatro Municipale Valli, all’interno del Reggio Parma Festival.
Nulla in questo spettacolo segue un percorso canonico, proprio come nel romanzo di Woolf: i pensieri, le voci e le parole – in forma di rumore e musica – corrono libere intorno a noi. Intorno, sì, perché la scena è stata progettata in maniera circolare e le sedute del pubblico – sul palco assieme agli artisti – possono compiere una rotazione di 360° per godere appieno del richiamo sonoro dei singoli strumenti. Il lavoro del collettivo si distingue da altre opere simili per la scelta di non utilizzare parole: al posto degli attori ci sono i giovani musicisti dell’Ensemble Icarus, diretti da Dario Garegnani che veste anche i panni di Percival, figura ambigua e onnipresente nel romanzo, citata solo nelle parole degli altri: “…e tutti sentiamo che anche Percival è tra noi. I suoi ghigni curiosi sembrano autorizzare le nostre risa”.
Seguiamo allora Jinny, Susan, Rhoda, Louis, Neville e Bernard, senza parole, addentriamoci nei loro tormenti e nei loro pensieri. Tutto è scritto e voluto, nulla è lasciato al caso, eppure la sensazione dentro al cerchio “magico” della scenografia, proprio come nel romanzo, è che non ci sia un filo conduttore, o una vera trama da seguire. Proprio qui sta la bellezza di questo caos organizzato, che riflette minuziosamente la struttura del pensiero – così ben articolata da Woolf e ripresa nello spettacolo – e che ci crea allo stesso tempo disorientamento, imbarazzo, desiderio e appagamento. Non si è mai del tutto certi di aver capito, ma ci sono dei piccoli segnali che ci fanno ipotizzare di essere sulla strada giusta. E non è questo il processo creativo che segue la mente umana?
Così scrive Virginia Woolf sul suo diario di questa nuova composizione che sta prendendo forma nella sua testa, e che lei vuole chiamare Le Falene, come un inno alla luce, non sempre benevola, che attira e abbaglia queste delicate creature a sé: “…sarà un libro astratto, mistico, senz’occhi: un play-poem”. 7 novembre 1928. E ancora, venti giorni dopo: “voglio metterci dentro praticamente tutto e insieme saturare. Voglio che includa l’insignificante; il sordido, i fatti: ma tutto reso trasparente”. Scrive forsennatamente, poi si ferma e si chiede perché, e riprende un anno dopo, tutto uguale e tutto diverso, perché ora è tutto più chiaro: “la sensazione del canto del mondo reale…”. 11 ottobre 1929. E ancora, l’epifania, sempre venti giorni dopo: “Le Falene – penso potrebbe essere Le Onde…”.
La musica delle sue parole ha inizio solo dopo aver individuato quel ritmo preciso – quello delle onde marine – e con questo ritmo nella testa propaga la sua voce, perché anche se nel romanzo ci sono sei personaggi, la coscienza del racconto è una sola.
Il lavoro di Dobrovicescu e Codrea, aiutati da Nițulescu e supportati da tutto il team artistico, dona al lavoro di Virginia Woolf una trasparenza che indaga la complessità, mai banale e mai didascalica.
Neanche la profonda conoscenza del romanzo può portare a una totale identificazione degli avvenimenti dell’opera, perché quello che succede sul palco è come la propagazione di un’onda, la trasformazione dell’energia in suono e viceversa, nulla che si possa contenere fra le righe di una partitura o di un libro.
Molti sono gli elementi che aderiscono alla trama del romanzo: i pianti di Susan, intervallati dal rumore di fazzoletti appallottolati che vengono rumorosamente sfregati, il suo rapporto con il tempo, mentre strappa – anche qui, tutto a vista e amplificato dai microfoni – i giorni dal calendario: “Così ogni notte strappo dal calendario il giorno passato, e lo arrotolo in una pallina. Lo faccio per vendetta, mentre Betty e Clara si inginocchiano. Io non prego; io mi vendico del giorno”. Eppure non riusciamo a incasellare Susan in un unico gesto, né in un’unica interprete.
Qui risiede la laboriosità dell’adattamento proposto: ogni personaggio è interpretato e interpretabile attraverso la polifonia. Nel caso specifico di Susan sulla scena ci sono due corpi e due “voci”: il mezzosoprano Chiara La Licata e la percussionista Alice Felisi. Così come Jinny affidata al soprano Felicita Busoni e alla violoncellista Camille Bergsma, chiamate a incarnare il suo inno alla vita: “Apro e chiudo il mio corpo a volontà. La vita comincia. Ora intacco il bottino di vita che mi aspetta”.
Se pensiamo che le due voci femminili vengano impiegate per intonare arie melodiche ci sbagliamo: qui l’uso delle voci è totalmente rivoluzionato, basti pensare all’utilizzo di musicisti (e dei loro strumenti musicali) in ruoli che canonicamente vanno ad attori tout-court, come nel caso del personaggio di Rhoda, affidato alla tromba di Cristina Zambelli e al trombone di Daniele Nardi. Mettere in scena musicisti nel ruolo di personaggi vuol dire distoglierli dal semplice seguire una partitura, e provare a farli immergere in una vera e propria interpretazione. Essere il personaggio, non eseguirlo. Solo in questo modo il pubblico potrà vedere in due strumenti il volto di una persona, proprio quel volto che Rhoda sostiene di non avere: “È la mia faccia, – disse Rhoda, – quella nello specchio alle spalle di Susan – è la mia faccia. Mi riparerò dietro di lei per non vedermi, perché io non sono qui. Non ho una faccia. Le altre, sì, ce l’hanno, Susan e Jinny ce l’hanno, eccole lì. Il loro mondo è reale”.
Tutta la profondità e vitalità di Neville è affidata al pianista Diego Petrella: “In un mondo che contiene il momento presente, perché discriminare? Non si dovrebbe nominare nulla, per non trasformarlo così facendo. Che esistano, piuttosto, questa riva, questa bellezza, e anch’io, per un istante, stracolmo di piacere. Il sole brucia. (…) Quanto amo la vita!”. Neville cerca l’attenzione di Percival e pare invischiato in un corpo a corpo musicale con la chitarra elettrica di Louis, interpretato da Giorgio Genta. “Appoggio il libro contro la bottiglia della salsa Worcester e cerco di assomigliare agli altri. Ma non ci riesco”. Louis è australiano e parla con un accento molto diverso dagli altri, questo sul palco si manifesta nella scelta di uno strumento apparentemente contrastante, ma che in realtà è solo un’altra voce solista in un coro un po’ sghembo e cangiante, e aiuta lo spettatore a entrare in questa pluralità.
Chi decide cos’è l’armonia? La dissonanza o l’assonanza? Nemmeno Percival, deciso direttore di quest’orchestra impertinente e disubbidiente, può mettere ordine: la partitura è scritta così e così va eseguita. Non gli resta altro da fare che lasciarsi trasportare dalle onde, con un colpo di scena finale che non farà altro che confermare la vita autonoma della partitura stessa.
Chiude il cerchio, metaforicamente e non, Bernard. “Ma quando ci sediamo accanto, vicini, ci dissolviamo l’uno nelle frasi dell’altro. Una nebbia ci avvolge. Si crea un mondo immateriale.” Sono queste e poche altre le uniche frasi pronunciate nello spettacolo, la voce che arriva dalle casse è dell’attore Luca Cattani, una presenza-assenza, perché la scelta è stata quella di utilizzare la sua voce come uno strumento senza corpo, e così a costruire la figura dell’attore sono altri due musicisti: la fisarmonica di Alfonso Risoli e lo stesso Mihai Codrea, con effetti elettronici che si inseriscono nella partitura e interagiscono con gli altri interpreti. Bernard è uno scrittore e un po’ osservatore e in qualche modo anche lui navigante in queste onde, con le sue pagine tutte da scrivere.
Tutti i personaggi indossano tuniche nere, distinte solo da piccoli oggetti – sempre riferiti ai loro protagonisti – che producono ulteriori suoni, inseriti anch’essi nella composizione. Un’altra grande forza immaginifica del lavoro del collettivo: decontestualizzare, smembrare, distorcere l’idea stessa di opera musicale, di qualcosa che va come deve andare.
Lo spaesamento dello spettatore a questo punto è totale: cosa fare? Chi ascoltare? E solo allora arriva l’onda. Potente, immersiva, disturbante. Solo quando sappiamo di non poter dare un peso specifico alle parole, di non poter seguire una melodia, di non essere padroni delle sensazioni che arriveranno alle nostre orecchie, solo allora possiamo abbandonarci davvero. L’onda ci culla, ci rassicura, non c’è bisogno di capire tutto, e se ogni tanto l’acqua entra nelle orecchie e rende tutto più ovattato è normale, è così che deve andare, è così che il suono era previsto che arrivasse.
Per questo motivo Il sole s’era levato al suo colmo non è uno spettacolo qualunque: non è prosa, non è lirica, non è semplicemente musica, non è solo la trasposizione di un romanzo, non è soltanto il tentativo sonoro di un organizzare un caos; è un’esperienza che ci porta all’interno di un ipogeo che non pensavamo di avere, qualcosa di profondamente radicato in noi, una risonanza che possiamo attivare abbandonandoci alle onde. Ci fermiamo, ci lasciamo stupire da come il nostro corpo riesca a galleggiare, nonostante tutto, e qui ritroviamo la nostra musica.
Seguirla, iniziare a nuotare controcorrente, o restare ancora un po’ in balia delle onde, sarà solo una nostra scelta.
Tutte le citazioni sono tratte da Le Onde di Virginia Woolf, nella traduzione di Nadia Fusini per l’edizione Einaudi del 2014.
Gioia Battista
Gioia Battista è drammaturga e scrittrice. Il suo ultimo libro è I guardiani del Nanga (Bottega Errante Edizioni, 2022).
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