John le Carré, la spia che mi era amica - Lucy sulla cultura
articolo

Federico Varese

John le Carré, la spia che mi era amica

22 Ottobre 2025

C’è ancora qualcosa di nuovo da dire su le Carré? Per un suo caro amico, che gli ha dedicato un libro e una mostra, sì.

Una scrivania è un luogo pericoloso da cui osservare il mondo

John le Carré , L’onorevole scolaro

John le Carré è morto la notte del 12 dicembre 2020. Ci eravamo sentiti qualche settimana prima e avevamo in programma di incontrarci presto per discutere di una serie televisiva dedicata allo spionaggio nella Russia di oggi. Era quello il periodo della pandemia di Covid-19, quando vivevamo tutti chiusi in casa, temendo il peggio e incerti su chi sarebbe stato la prossima vittima del virus. Sapevo dei problemi di salute di le Carré – era appena caduto – ma era difficile aspettarsi il peggio. La morte arriva senza preavviso anche per coloro che consideriamo invincibili.

La scomparsa di John le Carré fu per me una tragedia personale, e lo è tuttora. David Cornwell (il vero nome dello scrittore) fu una presenza costante nella mia vita sin dai primi anni `90, da quando ero single, senza figli e senza un lavoro fisso. Le Carré e sua moglie Jane furono testimoni – e sostenitori – delle decisioni più importanti della mia vita. Mi fecero regali di nozze, si congratularono quando ottenni una borsa di studio post-dottorato e permisero a nostro figlio autistico, Sasha, di vagare liberamente per la loro casa, camere da letto incluse. Per decenni avevo cercato di corrispondere all’immagine di me stesso che volevo che loro avessero. E poi, in rapida successione – Jane morì il 27 febbraio 2021 – non c’erano più.

Mi ci vollero mesi per accettare la loro perdita. La scomparsa di chi amiamo ma che non vediamo ogni giorno ha una proprietà peculiare: possiamo continuare a vivere nell’illusione che li incontreremo di nuovo. È forse anche per continuare a coltivare questa illusione e per mantenere vivo il ricordo di questa coppia straordinaria che ho curato il volume Tradecraft: Writers on John le Carré e la mostra ad esso collegata, che si è aperta alla Biblioteca Bodleiana di Oxford il primo ottobre di quest’anno. Il volume raccoglie interventi di autori che hanno conosciuto e collaborato con lo scrittore, come me, la giornalista esperta d’Africa Michela Wrong, lo sceneggiatore premio Oscar Hossein Amini e il regista (anche lui premio Oscar) Errol Morris, nonché scrittori, e studiosi di letteratura, relazioni internazionali e spionaggio (Lawrence Osborne, Elleke Boehmer e Steven Matthews, Andrea Ruggeri e Andrei Soldatov). Due dei figli di le Carré, Simon e Nick, gli hanno dedicato testi toccanti. Ho scelto autori che non avevano mai scritto prima su questo scrittore. Ero particolarmente interessato a esplorare il metodo di lavoro o, per usare una parola che le Carré utilizzò in riferimento all’arte dello spionaggio, il Tradecraft dello scrittore.

Qui di seguito racconterò del mio primo incontro con le Carré. A parte l’aspetto autobiografico, questo momento illustra elementi importanti del suo approccio alla scrittura e le sue intuizioni sullo sviluppo dell’imperialismo russo. Le frasi tra virgolette sono tratte dalle lettere che ci siamo scritti o da conversazioni che abbiamo avuto.

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Le Carré scrisse a “Federico Barese, Esq.” (sic) per la prima volta nella primavera del 1994. In quel momento mi trovano nella città di Perm, negli Urali, per raccogliere materiale per la mia tesi di dottorato sulla mafia russa. Tramite un sistema piuttosto complesso, la posta che arrivava al mio indirizzo di Oxford trovava la strada per Perm. Aprii il pacco mentre ero su un treno per Mosca, dove avevo in programma di condurre altre interviste. Nella busta della posta, tra le bollette che si accumulavano e gli inviti ai balli di maggio, trovai una lettera scritta a mano su carta intestata, firmata “John le Carré” e, tra parentesi, “David Cornwell”, il suo vero nome. L’indirizzo corrispondeva alla remota scogliera della Cornovaglia dove l’autore trascorreva gran parte dell’anno. Le Carré chiedeva un incontro per discutere di “un romanzo sul conflitto osseto-inguscio, parte del quale si svolgerà tra fazioni rivali in Occidente.”

Chiamai le Carré da Mosca e decidemmo di vederci a Oxford. Al mio ritorno ci incontrammo da Al-Shami, il ristorante libanese di fronte alla sinagoga, nel quartiere di Jericho. Sono sempre molto puntuale e quindi di solito il primo ad arrivare a un appuntamento, ma all’arrivo trovai il mio ospite già seduto ad aspettarmi, con le spalle rivolte al muro, in un angolo appartato del ristorante. Era alto, vestito in modo sobrio ed elegante, con uno sguardo affabile e inquisitore: irradiava un misto di riserbo e magnetismo. Il cameriere sembrava conoscerlo bene. Le Carré mi regalò una copia autografata del romanzo che aveva appena pubblicato, Il direttore di notte: “È l’edizione americana; la copertina è molto più bella di quella inglese”. Il suo inglese era quello della upper class. Proseguì per sommi capi a delineare la storia del suo nuovo libro e a farmi molte domande. Prendeva appunti su un taccuino nero, con un elastico che faceva da chiusura. La grafia procedeva a scatti, tracciando parole chiave e diagrammi che si fissavano su pagine riempite di fretta, mentre il taccuino, piegato sotto la mano che lo teneva aperto con fermezza, opponeva una lieve resistenza, quasi fosse riluttante a offrire ulteriore spazio bianco da riempire. Il pranzo andò bene: “Mi ha fatto molto piacere incontrarti,” mi scrisse pochi giorni dopo.

“John le Carré è morto la notte del 12 dicembre 2020. Ci eravamo sentiti qualche settimana prima e avevamo in programma di incontrarci presto per discutere di una serie televisiva dedicata allo spionaggio nella Russia di oggi”.

Una lettera del 4 settembre annunciava: “Ho quasi finito. Vuoi dare un’occhiata?” La prima bozza era composta di fogli A4 sciolti, numerati e disposti ordinatamente in una scatola di cartoncino che in origine conteneva risme di carta per una macchina per fotocopie. Fu consegnata da un corriere al mio indirizzo universitario e, ora, il mio nome era scritto correttamente. Avevo appena avuto il tempo di leggere il manoscritto e inviare i miei commenti che arrivò un nuovo pacco (ci furono cinque consegne di questo tipo nel giro di pochi mesi, varianti del romanzo oggi depositate nell’archivio le Carré alla Bodleiana).

Il romanzo era provvisoriamente intitolato La passione del suo tempo. Il protagonista è una spia in pensione un po’ depressa, Tim Cranmer, che per anni aveva gestito una talpa nel mondo dei movimenti di sinistra inglese, il mercuriale Larry Pettifer, a cui lo lega un rapporto ambiguo, fatto di stima e rivalità. Con la fine della Guerra Fredda, Larry era diventato un rispettato docente universitario e una presenza fissa nella tenuta di Tim nella campagna del Somerset, dove aveva stretto amicizia con la compagna di Tim, Emma, una donna molto bella e ancora alla ricerca di sé stessa. All’inizio della storia, la polizia informa Tim che Larry ed Emma sono scomparsi. Scopriamo in seguito che Larry si è unito alla causa di uno dei popoli oppressi del Caucaso, gli Ingusci, sottraendo milioni di rubli del disciolto PCUS. L’amante di Tim è diventata parte del piano di Larry, rinunciando alla tranquilla vita della campagna inglese.

Mandai le mie prime osservazioni all’inizio di ottobre 1994, iniziando con grandi elogi (“coinvolgente … storie perfettamente intrecciate … molto ben documentato”). Tuttavia, su diverse pagine a spaziatura singola, scrissi commenti dettagliati. Il mio obiettivo era aiutare l’autore a realizzare la sua visione e, al tempo stesso, assicurarmi con lui che tutti i dettagli fossero accurati. Una lunga sezione del mio testo era dedicata ai particolari, anche i più marginali, da aggiungere o correggere, dalla marca di sigarette che un personaggio avrebbe fumato all’epoca in Russia (Prima o Belomorkanal), a come i membri altolocati del PCUS avevano esportato illegalmente i fondi del Partito dopo la fine dell’Unione Sovietica. In coda, aggiunsi una bibliografia sul genocidio ceceno-inguscio perpetrato da Stalin.

Arrivato all’ultima pagina presi coraggio e dissi la mia sulla “struttura narrativa”. Dapprima ero indeciso: aveva senso che io, uno studente italiano di 29 anni con una conoscenza non perfetta della lingua e della letteratura inglese, offrissi consigli non richiesti al grande scrittore sul suo mestiere? Decisi di provarci e avanzai una riserva sul finale del romanzo. Qual era il motivo del viaggio di Tim Cranmer, l’ex spia tradita dall’amico e dalla fidanzata, in Inguscezia? Le Carré non sembrava troppo convinto del MacGuffin che aveva introdotto, suggerendo che Tim stesse andando a recuperare i soldi che Larry aveva sottratto e a raccogliere informazioni per i servizi segreti inglesi. Pensai che le Carré dovesse chiarire che Tim andava in Inguscezia “non per incontrare, ma per diventare Larry”. Il leale servitore di Sua Maestà era giunto a un punto della sua vita in cui voleva corrispondere all’immagine dell’uomo che avrebbe sempre voluto essere e non aveva mai avuto il coraggio di diventare, colui di cui Emma si era innamorata, Larry appunto. Tim doveva abbracciare la causa di Larry, rinunciare a qualsiasi forma di lealtà verso i servizi segreti del suo Paese ed espiare con la morte la sua conversione. “Questo è l’unico modo [per Tim] di essere amato da Emma per il resto della sua vita,” riflettevo.

Attesi con trepidazione di capire se avessi commesso un passo falso oppure no. Le Carré rispose velocemente (“Grazie mille”) e, in una lettera del 7 novembre, aggiunse: “Volevo solo dirti che, nella nuova stesura, penso di aver affrontato tutti i punti che sollevavi – e ho rubato spudoratamente la tua bellissima formula: Tim non vuole trovare Larry ma diventare lui! Ancora una volta, ti sono molto grato… [enfasi nell’originale].” Quell’espressione si trova ora nella penultima pagina del romanzo.

Scoprii così che le Carré era (come scrivono Elleke Boehmer e Steven Matthews nel loro capitolo del volume Tradecraft) “uno scrittore-ricercatore”, disposto ad accettare ogni suggerimento ma altrettanto libero di ignorare i commenti. Ossessionato dai dettagli anche più minuti e dalla coerenza logica della trama, le Carrè nutriva per il lettore un profondo rispetto. Senza dubbio era un romanziere puro, interessato a raccontare una storia di fantasia, ma allo stesso tempo era meticoloso nella cura dei dettagli: non voleva sbagliare la grafia dei nomi, le descrizioni dei luoghi e dettagli solo apparentemente non significativi, come la marca di un pacchetto di sigarette. Gran parte del suo archivio oggi depositato alla Biblioteca Bodleiana (più di 1.200 scatoloni) contiene appunti e materiale di ricerca che lo dimostrano.

Il metodo di le Carré non consisteva solo nel condurre ricerche in una biblioteca, oppure (come oggi) davanti allo schermo di un computer, e consultare esperti. Voleva visitare – per quanto possibile – tutti i luoghi di cui scriveva. A un certo punto della sua carriera – nel 1974 – si rese conto di aver commesso un errore (poi corretto) in un suo romanzo (La talpa). “Da quel momento giurai a me stesso che non avrei mai più ambientato una scena in un luogo che non avevo visitato.” Nel corso degli anni avrebbe viaggiato in Cambogia e Vietnam, Israele e Palestina, Russia e America Centrale, Kenya e Congo orientale. Questi luoghi non erano le quinte per le avventure di un globetrotter alla James Bond. A differenza della famosa spia inventata da Ian Fleming, che pecca di un certo orientalismo e non esce quasi mai dagli alberghi di lusso, i personaggi di le Carré sono integrati nell’ambiente in cui operano, che sia il Regno Unito o un Paese straniero; l’esotico, nei suoi libri, è parte del quotidiano.

Va aggiunto che molti dei luoghi dei suoi romanzi sono piuttosto familiari, come Canada, Stati Uniti, Parigi, Cornovaglia, Oxford, Amburgo, Berna, l’Oberland svizzero (dove aveva costruito un cottage) e la città sulla costa dell’Anglia orientale che compare nel suo romanzo postumo Silverview (Nick Cornwell ha scritto nel volume Tradecraft un saggio sul ritrovamento di questo manoscritto e sul ruolo che ha avuto nel favorirne la pubblicazione). Londra è l’ambientazione principale di gran parte dei suoi romanzi. In La talpa, George Smiley viene presentato al lettore nel cuore della notte mentre “sguscia lungo il marciapiede che costeggia gli archi anneriti della stazione di Victoria.” Anche nei romanzi successivi, Londra, soprattutto Hampstead, dove viveva parte dell’anno con la moglie Jane, rimane un personaggio centrale. In Il nostro traditore tipo (2009) Primrose Hill è descritta con grande dovizia di particolari. Come ha scritto Lawrence Osborne della narrativa di le Carré, “le immagini sono esatte e vere”. Il lettore dei suoi romanzi si trova  collocato in un tempo e in uno spazio precisi, in mezzo a conflitti politici reali.

I suoi romanzi rientrano nella tradizione letteraria del XIX secolo cosiddetta “realista”, inaugurata da Honoré de Balzac, un autore che le Carré lesse per la prima volta quando era studente a Oxford e che ammirava molto. Una delle caratteristiche cruciali del realismo è l’accuratezza dell’ambientazione. Le Carré unisce all’accuratezza realista un profondo interesse per i conflitti e le macchinazioni dei governi e dei servizi di spionaggio, dando vita ad alcuni dei romanzi politici più importanti della letteratura inglese.

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The Passion of His Time uscì nel 1995 con il titolo Our Game (curiosamente l’edizione italiana mantenne il titolo provvisorio, La passione del suo tempo). È un gioiello di romanzo, purtroppo considerato minore e spesso trascurato, sull’amicizia, sugli ideali frustrati e sul tradimento. Smonta la facile tesi occidentale secondo cui i “democratici” russi dell’epoca fossero nostri amici e incapaci di sbagliare. La natura imperialista della Russia di El’cin (non molto diversa da quella sovietica, anche se agghindata a festa) emerge in tutta la sua chiarezza. Il genocidio che il regime stava per compiere in Cecenia – iniziato nel dicembre del 1994 e portato a termine da Putin con la seconda guerra cecena del 1999, che rase completamente al suolo Grozny – è già prefigurato in Our Game. La natura violenta e antidemocratica della Russia post-sovietica era, del resto, già evidente: nel 1993 il presidente russo aveva bombardato il parlamento liberamente eletto, causando almeno cinquecento morti. Fu un evento cui assistetti io stesso a Mosca e che mi colpì profondamente. L’involuzione autoritaria, e poi totalitaria, della Russia di Putin comincia proprio con El’cin.

Appena uscito il libro, il suo editore americano commentò: “Ancora una volta, le Carré ha anticipato la Storia”. Io ero molto contento che le recensioni più importanti notarono come i dettagli fossero resi alla perfezione.

Il romanziere non si dimenticò di “Federico Varese del Nuffield College, Oxford,” che citò espressamente nella sezione del libro dedicata ai ringraziamenti. Un mio amico, scherzando, mi disse che probabilmente quella sarebbe stata la citazione più importante di tutta la mia carriera, e non ebbi difficoltà a dargli ragione. Ricevetti da le Carré non solo sentiti ringraziamenti. “Ho incaricato Berry Brothers & Rudd di inviarti un piccolo segno della mia gratitudine, ma certo non esaurisce la mia riconoscenza!” Pochi giorni dopo ricevetti una cassa dal più antico commerciante di vini e distillati della Gran Bretagna, una venerabile casa fondata nel 1698. Dodici bottiglie che mi tennero compagnia per il resto del semestre. La mia reputazione presso i compagni di studi, il mio relatore, la mia fidanzata di allora e i portieri del Nuffield College salì alle stelle.

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Tradecraft: Writers on John le Carré, curato da Federico Varese (Bodleian Library Publishing, £30), è uscito il 1º ottobre 2025. Il testo di questo articolo è in parte basato sull’introduzione al volume. Una mostra con lo stesso titolo, curata da Federico Varese e Jessica Douthwaite, è aperta presso la Weston Library, Bodleian Library, Università di Oxford, dal 1º ottobre al 6 aprile.

Federico Varese

Federico Varese insegna nelle Università di Oxford e di SciencesPo, Paris, dove è professore di Sociologia, e Senior Research Fellow del Nuffield College, Oxford. Dal 2021 al 2024 è stato direttore del dipartimento di sociologia all’Università di Oxford. Il suo ultimo libro, scritto con Maria Chiara Franceschelli, è La Russia che si ribella. Repressione e opposizione nel Paese di Putin (Altraeconomia, 2024).

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