Francesco Suman
Il Regno Unito ha chiuso la sua ultima centrale elettrica a carbone. È la fine di un capitolo che ha permesso la rivoluzione industriale e lo sviluppo dell'Impero britannico. Una mossa necessaria in tempo di crisi climatica. Il futuro, però, non è ancora né certo né verde.
A fine settembre, il Regno Unito ha spento la sua ultima centrale elettrica a carbone, a Ratcliffe on Soar, nella contea di Nottingham. È un traguardo storico, il completamento di una parabola iniziata più di 250 anni fa, quando le macchine a vapore brevettate da James Watt iniziarono ad alimentare, oltre Manica, la rivoluzione industriale. Ed è grazie al carbone che l’impero britannico divenne una potenza economica mondiale.
A metà degli anni Cinquanta del Novecento ne estraeva più di 200 milioni di tonnellate l’anno, per alimentare le industrie, per la produzione di acciaio, per riscaldare le case e illuminare le strade, per estendere la rete ferroviaria e muovere i treni, per produrre energia elettrica. In quegli anni il carbone dava lavoro a 700.000 persone. A inizio degli anni Novanta generava ancora i due terzi dell’energia elettrica dell’isola britannica. In poco più di tre decenni questa quota è arrivata a zero.
Nei suoi 142 anni di storia energetica, il carbone inglese ha prodotto più di 10 miliardi di tonnellate di CO2. Le centrali a carbone britanniche hanno cioè prodotto, da sole, più delle emissioni generali, totali, di interi paesi come Argentina, Vietnam, Pakistan o Nigeria.
Il Regno Unito è il primo Paese del G7 a emancipare il proprio sistema energetico dalla più emissiva e inquinante delle fonti fossili. Gli altri sei, nell’incontro del G7 di Torino lo scorso maggio, hanno concordato per la prima volta il phase-out del carbone entro il 2035. Altri giganti ancora come Cina e India ne restano invece fortemente dipendenti. Il suo abbandono è la prima e indispensabile tappa di quel lungo cammino che è la decarbonizzazione del settore energetico, che per l’Unione Europea deve culminare alle zero emissioni nette entro il 2050.
“A fine settembre, il Regno Unito ha spento la sua ultima centrale elettrica a carbone, a Ratcliffe on Soar, nella contea di Nottingham. È un traguardo storico, il completamento di una parabola iniziata più di 250 anni fa”.
La storia del carbone inizia proprio in quel periodo storico che oggi viene usato come riferimento dalla scienza del clima per misurare l’aumento di temperatura media del pianeta: l’era pre-industriale, ovvero prima che iniziassimo a bruciare grandi quantità di combustibili fossili. Prima del 1850 la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera era 280 ppm (parti per milione), oggi ha superato le 420 ppm. Quest’aumento del 50% in meno di 200 anni è un’impennata impressionante per un sistema, quello atmosferico-climatico, che di solito segue i ritmi delle ere geologiche.
Le emissioni che abbiamo prodotto da allora hanno assorbito il calore della radiazione solare e, rispetto all’era pre-industriale, hanno riscaldato l’aria di quasi 1,5°C. Oltre questa soglia, ripetono da decenni gli scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel con Climate Change), si trova un mondo poco ospitale, fatto di disastri meteorologici ed ecosistemici che impattano violentemente sul funzionamento delle nostre società.
Il carbone, insomma, ha segnato l’inizio di tante cose: della rivoluzione industriale, della ricchezza occidentale, della produzione massiccia di emissioni del sistema energetico (che l’anno scorso ha raggiunto il record di 37,4 miliardi di tonnellate di CO2), e del conseguente innalzamento della temperatura globale. Anche la sua dismissione nel Regno Unito, la cui storia è stata ricostruita da Carbon Brief, è l’inizio di un nuovo percorso, perché è un piccolo ma importante primo passo di transizione energetica che si compie.
1. Il grande smog
Proprio nel periodo di picco dell’attività estrattiva, nel 1952, per quattro lunghi giorni Londra viene avvolta dal “grande smog”. Il termine è la fusione di fumo e nebbia (smoke e fog) ed era stato coniato già nel 1905 da un medico inglese che lavorava nella capitale, dove nel 1882 a Holburn Viaduct era sorta la prima centrale elettrica a carbone. In quei giorni di dicembre le temperature si abbassano improvvisamente. La gente aveva acceso le stufe, le fabbriche continuavano riversare carbone nelle fornaci e l’alta pressione di un anticiclone invernale aveva intrappolato aria umida, nebbia e fumo che usciva da comignoli e ciminiere, creando una cappa densa e irrespirabile. Gli ospedali vengono presi d’assalto: attacchi d’asma e problemi respiratori causano circa 4.000 decessi.
Lo shock mette tutti d’accordo, cittadini e classe dirigente, e tre anni più tardi, nel 1956, il parlamento approva il Clean Air Act, che pone limiti alle emissioni delle fabbriche, ulteriormente rafforzati nel 1968.
Nonostante le nuove norme sull’inquinamento, per quasi tutta la seconda metà del XX secolo il Regno Unito continua a costruire centrali a carbone. Quelle di piccola taglia delle città vengono sostituite da grandi impianti nelle zone rurali, nei pressi delle miniere. Quella da 2 GW di potenza di Ratcliffe on Soar vede la luce nel 1968.
Nel 1957 per la prima volta però il carbone scende sotto il 90% nella generazione di energia elettrica del Paese, che fino ad allora aveva dominato. Nel 1980 arriva al 76% del mix, ma la domanda complessiva di energia nel frattempo è cresciuta di molto, assieme all’economia, e l’energia elettrica prodotta da carbone quell’anno raggiunge il suo massimo storico nel Regno Unito: 212 TWh. Per confronto, oggi il consumo elettrico italiano è nell’ordine dei 300 TWh.
Dagli anni Cinquanta iniziano anche a sorgere le prime centrali nucleari e negli anni Sessanta vengono scoperti nel mare del Nord grandi giacimenti di gas naturale, che però non viene sfruttato per la produzione elettrica per almeno altri due decenni.
È solo alla fine degli anni ‘80 infatti che inizia a diffondersi la tecnologia delle turbine a gas a ciclo continuo, che rende il gas naturale più vantaggioso nella produzione di elettricità. L’industria del carbone era stata nazionalizzata nel 1947, mentre quella nascente del gas segue la strada delle privatizzazioni di quegli anni. Con la diffusione del gas, cala la domanda di carbone e iniziano a chiudere anche le miniere. La metà degli anni Ottanta è segnata dagli scioperi dei minatori e dallo scontro feroce tra il governo della Iron Lady, Margaret Thatcher, e i sindacati.
Nel 1988 l’Unione Europea approva una direttiva sulla combustione dei grandi impianti. Vengono imposti limiti alle emissioni di ossidi di zolfo, prodotte in grandi quantità dalle centrali a carbone e responsabili, oltre che dell’inquinamento dell’aria, delle cosiddette piogge acide di quegli anni.
Nel giro di poco tempo, dal 1990 al 2000, il carbone dimezza la sua percentuale nella produzione elettrica britannica: passa da 200 a 100 TWh, mentre nello stesso periodo il gas sale da zero a 150 TWh.
2. Nuove regole e alternative
A inizio degli anni Duemila il Regno Unito sceglie anche di seguire le indicazioni di un rapporto della Commissione reale per l’inquinamento ambientale che esplora le correlazioni tra energia e clima che cambia. Nel 2003 il governo di Tony Blair integra tra le sue politiche l’obiettivo di ridurre, entro il 2050, le emissioni di gas serra del 60% rispetto ai livelli del 2000 e di portare le rinnovabili al 10% della produzione elettrica nazionale. Nel 2008 il Climate Change Act rende questi obiettivi legalmente vincolanti: è il primo Paese al mondo a farlo ed è un punto di non ritorno per il destino del carbone.
Vengono però lasciate aperte le porte a un “carbone più pulito”, le cui emissioni vengano trattenute da sistemi di Cattura e Stoccaggio della CO2 (CCS), tecnologia di cui oggi sentiamo parlare come innovazione, ma che sbandiera le sue promesse almeno da vent’anni.
Nello stesso anno del Climate Change Act il consiglio locale del Kent approva piani per la costruzione di una nuova centrale a carbone, a 24 anni dall’ultima. Se il progetto non parte è merito anche dei “sei di Kingsnorth”, un gruppo di attivisti di Greenpeace che scala il camino di una centrale già esistente nello stesso sito e ci scrive sopra a caratteri cubitali “Gordon”, il nome dell’allora primo ministro Brown.
Nel 2009 il segretario di stato per l’energia e il cambiamento climatico, Ed Miliband, che da luglio 2024 ricopre lo stesso ruolo nel nuovo governo Starmer, stabilisce che l’era del carbone le cui emissioni non siano abbattute da CCS è finita. Nel 2010 il progetto di Kingsnorth viene formalmente abbandonato e nessun’altra centrale a carbone verrà mai più costruita nel Regno Unito. Dopo essere andati a processo per danneggiamento dell’impianto, gli attivisti vengono assolti.
“Il Regno Unito è il primo Paese del G7 a emancipare il proprio sistema energetico dalla più emissiva e inquinante delle fonti fossili. Gli altri sei, nell’incontro del G7 di Torino lo scorso maggio, hanno concordato per la prima volta il phase-out del carbone entro il 2035”.
Anche le altre centrali non vengono più rinnovate: costerebbe troppo e si sceglie di spegnerle gradualmente. Per molti decenni, da fine Ottocento, il carbone è stata la fonte energetica più economica. Nuove regole anti-inquinamento, il costo imposto alle emissioni di CO2 e quello troppo elevato dei sistemi di CCS lo mandano fuori mercato per la generazione elettrica, che nel nuovo millennio può contare su diverse alternative.
L’Energy Act del 2013 ridisegna il mix energetico del Regno Unito. Oltre ad affidarsi al gas naturale, l’isola britannica sceglie di continuare con il nucleare, con la costruzione della nuova centrale Hinkley Point C nel Somerset, e di puntare sulle rinnovabili, che nel giro di 5 anni raddoppiano la propria produzione, passando da 50 TWh a 110 TWh nel 2018. Spinte soprattutto dall’eolico, nel 2024 arriveranno a generare 150 TWh, circa la metà del consumo nazionale di energia elettrica.
Oltre a programmare la decarbonizzazione, il Regno Unito ha anche investito sull’efficientamento, ovvero garantire gli stessi servizi con minore richiesta energetica. Oggi, rispetto ai primi anni Duemila, la domanda totale di energia elettrica britannica è calata di 100 TWh.
Nel 2000 erano 24 le centrali a carbone attive nel Regno Unito, nel 2010 erano 18, nel 2020 solo 6. Nel 2023 il carbone è arrivato a generare l’1% dell’energia elettrica dell’isola. L’obiettivo del phase-out entro il 2025 viene ufficialmente stabilito nel 2015 e nel 2024 viene pienamente centrato. Se negli anni ‘90 sono stati gas, nucleare e in piccola parte il petrolio a sostituire gradualmente il carbone, negli anni Dieci e Venti il colpo di grazia arriva con la crescita delle rinnovabili.
Alcune delle centrali a carbone britanniche sono state convertite a biomassa e oggi continuano a produrre energia elettrica, con un impatto ambientale minore, ma tutt’altro che nullo. Dovrebbe convertirsi a centro energetico a basse emissioni anche quella di Ratcliffe on Soar. In un clamoroso ribaltamento delle vicende storiche, la sua chiusura è stata accolta con favore dai consorzi sindacali degli oltre 150 operai che ci lavoravano. Tutti sono stati riformati e ricollocati altrove. “Portare a termine una giusta transizione climatica per i lavoratori sarà una battaglia in salita, ma Ratcliffe ci dà speranza” si legge in una dichiarazione della rappresentanza sindacale, che è stata coinvolta in tutte le fasi dei piani di dismissione.
Il carbone nel Regno Unito viene ancora utilizzato in altri processi, come la produzione dell’acciaio. Anche qui oggi esistono alternative più sostenibili, come le fornaci elettriche ad arco, ma rendere giusta, oltre che sostenibile, la transizione in certi settori è un puzzle cui ancora non si è trovata la soluzione. Lo sanno bene i lavoratori dell’ex Ilva di Taranto.
Per rispettare gli impegni climatici globali, la produzione di energia elettrica globale dovrebbe sbarazzarsi del carbone entro il 2040. Il grosso della riduzione dovrebbe avvenire già entro il 2030.
Molti Paesi in Africa e Medio Oriente oggi fanno già a meno di elettricità prodotta da carbone, così come sono già riusciti ad abbandonarlo alcuni Paesi europei quali Belgio, Svezia, Portogallo e Austria (che non fanno parte del G7).
Nel 2022 però più di un terzo dell’elettricità globale veniva ancora prodotta dal carbone: le circa 9.000 centrali attive nel mondo da sole sono responsabili di circa un terzo delle emissioni del settore energetico globale.
Nonostante gli obiettivi di riduzione, una quindicina di Paesi ancora progetta di costruirne di nuove, per un totale di circa 600 GW di nuova potenza elettrica. In cima alla lista ci sono Cina, India e Indonesia, oggi i maggiori produttori e consumatori di carbone al mondo.
Secondo la Powering Past Coal Alliance, tre quarti delle centrali elettriche a carbone nei Paesi industrializzati verranno spente entro il 2030, ma tre quarti di quelle attive nel mondo non hanno alcun piano di chiusura.
La strada è quella di imparare a ragionare sul lungo termine: sviluppare fonti energetiche alternative, fermare la costruzione di nuove centrali, conteggiare i costi di quelle che prima erano esternalità grazie a nuove politiche e norme, mandare segnali chiari in modo da consentire agli operatori del mercato di progettare i propri investimenti.
Il prossimo grande obiettivo del Regno Unito sarà allora decarbonizzare del tutto la propria rete elettrica entro il 2030. Tagliarlo richiederebbe una programmazione che eviti oggi l’effetto lock-in domani, ovvero installare impianti le cui emissioni nel giro di pochi anni saranno incompatibili con la difesa del clima.
3. Il rovescio della medaglia
Non ci sono però solo buone notizie dal Regno Unito. Anche il nuovo governo laburista continua infatti ad assegnare licenze di estrazione di combustibili fossili a progetti che promettono di catturare le emissioni con i sistemi di CCS, per il cui sviluppo lo stesso governo ha predisposto un piano di 21,7 miliardi di sterline. Al contempo, ha tagliato gli investimenti green di circa la metà, passando da 28 a 15 miliardi di sterline.
Alla vigilia dell’ultima COP28 di Dubai, il direttore dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), Fatih Birol, ha definito lo sviluppo dei sistemi di CCS una storia di delusioni, aggiungendo che pensare di applicarli all’attuale volume produttivo di combustibili fossili è “pura fantasia”. Negli ultimi 20 anni, tre diversi progetti di cattura del carbonio nel Regno Unito hanno fallito per insostenibilità economica prima ancora che ambientale.
Secondo le aspettative del piano del governo britannico, la capacità di assorbimento della CO2 arriverebbe a prevenire l’equivalente delle emissioni di 4 milioni di automobili. Lo stesso risultato però sarebbe raggiungibile con politiche alternative, e meno costose, di razionamento del sistema dei trasporti e con un investimento sul ripristino degli ecosistemi, alcuni dei quali sono eccezionali carbon sink, ovvero naturali assorbitori di anidride carbonica dall’atmosfera. Tra questi le torbiere, di cui il Regno Unito abbonda.
Il CCS vuole essere usato anche come bollino di sostenibilità per produrre idrogeno, non verde (la cui produzione viene alimentata da elettricità rinnovabile), ma blu, quello ottenuto dal gas naturale, la cui domanda proprio per questo crescerà oltre le disponibilità della produzione nazionale. Il governo Stramer, in piena continuità con quello conservatore che l’ha preceduto, punta allora all’installazione di un terminale, a Teesside, per ricevere via nave gas naturale liquefatto (GNL) dagli Stati Uniti, dove viene ottenuto dal fracking, una delle più inquinanti ed emissive attività estrattive.
Proprio dall’altra parte dell’oceano, arrivano altri segnali di allarme. Il boom dell’Intelligenza Artificiale spinto dalle Big Tech ha moltiplicato l’installazione di data center, che immagazzinano ed elaborano informazioni 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Per farli girare e per evitarne il surriscaldamento occorre un continuo flusso di energia.
La Virginia dell’Ovest è un hub del traffico informatico globale e 5 anni fa ha annunciato 75 nuove infrastrutture per l’elaborazione dati. Presto vorrebbe raddoppiarle. Oggi ne ospita circa 300 e l’espansione avverrà anche grazie ai 35 miliardi di dollari di Amazon Web Service. Inoltre, è anche uno dei principali produttori di carbone: il suo Senatore democratico Joe Manchin aveva dato più di qualche grattacapo a Joe Biden per l’approvazione degli investimenti green dell’Inflation Reduction Act.
La nuova domanda energetica dei nuovi centri di elaborazione dati sta già mettendo in crisi gli obiettivi di sostenibilità delle Big Tech. Per soddisfarla non è sufficiente la crescita delle fonti a basse emissioni: servirà anche nuova energia fossile e la Virginia sta programmando di ritardare lo spegnimento delle sue centrali a carbone, per stabilizzare la sua rete. Qui la più avanguardistica delle tecnologie del nuovo millennio sta paradossalmente riportando in vita la più vecchia delle fonti fossili. Nel XVIII secolo il carbone alimentava le prime macchine a vapore, negli anni Venti del 2000 permetterà a qualcuno negli Stati Uniti di chiedere a un’IA come si fa la transizione energetica.
ChatGPT ci consiglierebbe forse di tenere insieme tutto, dalle rinnovabili alla CCS, passando per una regolamentazione che valga a livello mondiale e una sensibilizzazione della cittadinanza a un consumo più consapevole. Di sicuro, non sarà sufficiente fare la transizione energetica: bisognerà anche farla in fretta, perché il budget di anidride carbonica che possiamo ancora riversare in atmosfera è molto limitato se vogliamo mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C, come previsto dall’accordo di Parigi: secondo un recente studio pubblicato su «Nature Climate Change» il grado e mezzo ce lo siamo già giocati. Questa non è però una buona ragione per far saltare il banco della decarbonizzazione, perché un mondo più caldo di 3° o 4°C è molto meno ospitale di uno più caldo di 2°C. Ogni decimo di grado conta.
Francesco Suman
Francesco Suman è dottore di ricerca in filosofia della biologia e giornalista scientifico. Collabora con diverse riviste dove scrive soprattutto di scienza e società.
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