Marta Aidala
Michele Freppaz è professore ordinario di Nivologia e Pedologia a Torino. Assieme ai suoi studenti scala le montagne per studiare la neve. Ogni fiocco, diverso dall'altro, rivela qualcosa della storia del mondo.
Michele Freppaz viene a prendermi all’ingresso del Dipartimento di Scienze Agrarie Forestali e Alimentari dell’Università di Torino, dove è professore ordinario di Pedologia e Nivologia.
Alza un braccio per farsi riconoscere e non mi convinco davvero sia lui finché non lo sento parlare; la stessa voce con cui, fino a oggi, l’ho ascoltato raccontare la neve. Dal maglioncino spunta il colletto della camicia, abbasso gli occhi per controllare i suoi piedi. Calza scarpe da montagna, simili alle mie. Un segno distintivo, come se dei nostri luoghi volessimo sempre portarcene un pezzo appresso.
È fine settembre, l’autunno qui al nord ci ha colti alla sprovvista e piove, di quella pioggia indolente e fina che pare non ti sfiori e invece impregna i vestiti.
A Michele la pioggia non piace. “Veder piovere invece di nevicare o veder piovere sulla neve mi dà veramente fastidio, sin da piccolo”.
È stato un amico a farmelo conoscere. Gli stavo mostrando alcune fotografie scattate pochi giorni addietro in Valle Po mentre salivo verso il Quintino Sella, l’ultima roccaforte prima delle rocce del Viso. A catturare la mia attenzione, quella volta, non era stata la sua punta sbeccata e la mandria di nubi che spesso ne nascondono la cima, ma il colore di alcune chiazze di neve abbarbicate su un pendio. Neve rosa, come se ci avessero versato sopra sciroppo di melagrana. “Tu sai perché è così?” avevo chiesto ingrandendo le immagini con il pollice e l’indice sullo schermo del cellulare. Lui, ridendo, mi aveva risposto di sì, ma esisteva qualcuno capace di spiegarmelo meglio. Così mi aveva inviato la quarta puntata del podcast “Bello mondo”, dal titolo “Vedremo ancora la neve?”, e a pensare alla risposta mi sale ogni volta la malinconia.
Una voce tenue raccontava che la neve rosa è soprannominata watermelon snow e assume quella colorazione a causa di un’alga che vive nel suolo sotto forma di spora. Quando la neve inizia a fondersi a primavera, l’alga “nuota come un girino”, raggiungendone la superficie. “Quel rosa è una sorta di crema solare, l’alga si protegge dai raggi UV e svolge parte del suo ciclo riproduttivo. La sua esistenza dipende dalla neve, e senza neve perderemmo isole di biodiversità. Anche il suolo è uno scrigno prezioso di biodiversità; un cucchiaio di suolo sano può contenere un numero di microrganismi pari agli abitanti del nostro pianeta”.
Neve e suolo, mi dice Michele, tra loro parlano: per capire la neve devi capire il suolo che ci sta sotto, e per capire il suolo devi capire anche la neve che ci sta sopra. E la neve il suolo lo protegge, è un ottimo isolante.
A Torino quando nevica si blocca l’intera città. Clacson che sbraitano, paciugo sui marciapiedi, tram bloccati e spargisale che non arrivano accompagnano la discesa di quella coltre che, ormai sempre più di rado, imbianca i tetti e le colline sopra la Gran Madre. Un avvenimento epocale, specialmente per i bambini che la cercano sui parabrezza delle auto per poterla toccare, raccogliendola a manciate fino a perdere la sensibilità delle dita.
“A Torino quando nevica si blocca l’intera città. Clacson che sbraitano, paciugo sui marciapiedi, tram bloccati e spargisale che non arrivano accompagnano la discesa di quella coltre”.
Per Michele invece, nato e cresciuto nella Valle del Lys, la neve è stata una presenza costante sin dall’infanzia. “A volte andavo a scuola con lo slittino. Ho imparato a sciare dietro casa, facevo lo slalom utilizzando i pali di legno che si usano nell’orto per far crescere i fagiolini. Adesso però a 1000 metri di neve non ce n’è più così tanta, al posto che nevicare piove. Anche la pioggia nel nostro emisfero, però, nasce dalla neve. Il discriminante tra le due è la temperatura”.
Una passione, quella per la neve e per le montagne, che è riuscito a far diventare un mestiere, iniziando ad approfondire le sue ricerche alla fine degli anni Novanta grazie a un dottorato. Ma la neve e il suolo non si possono studiare sui libri, o almeno non solo. “Quando faccio le esercitazioni di pedologia spesso porto i miei studenti in montagna, e alla fine gli controllo le mani. Chi le ha pulite l’esame non può pensare di passarlo, voglio vedere le unghie sporche di terra”.
E poi, bisogna amare il freddo. “Le giornate più belle sono quelle in cui ti congeli le mani e i piedi. È una sensazione bellissima, perché sai che i cristalli di neve saranno meno vulnerabili e potrai osservarli con maggior agio”. Mentre parla muove le mani con la delicatezza di chi è abituato ad avere a che fare con gli oggetti fragili e come se un fiocco di neve, in quel momento, lo stesse maneggiando davvero. Sorride, negli occhi il riverbero della luce su un ghiacciaio.
Già durante la salita in quota, la neve si può iniziare a leggere. Bisogna attivare tutti i sensi, affidarsi alle “emozioni sonore”, l’odore che permea l’aria, il suono che producono gli sci, la sensazione di sprofondare o meno quando si cammina. Lo immagino lassù, dove il cielo e la terra sembrano fondersi e tutto è bianco, il fiato si fa condensa e se togli il cappello ti si ghiacciano i capelli.
Giornate che iniziano col buio e in cui non si spreca tempo, nello zaino una tavoletta di cioccolato fondente, un thermos con del tè, lastra e lente per osservare i cristalli, un piumino azzurro rattoppato di nastro adesivo e una giacca a vento arancione, gli stessi da vent’anni e per cui lo prendono un po’ in giro, perché in ogni foto è sempre vestito uguale. Queste ascensioni non sono solo trasferte lavorative, ma fonte di divertimento, “non ho perso quel lato giocoso che avevo da bambino”.
Michele la neve la definisce così, “una lettera dalle nuvole. Dietro ogni cristallo si cela una storia, la cui scrittura inizia durante la sua formazione all’interno della nube. Ciò che succede lì è già affascinante: ci vogliono delle particelle, dei piccoli pezzi di materiale organico e frammenti di minerali che si chiamano nuclei di congelamento e che, assieme alla combinazione di freddo, umidità e vapore acqueo danno vita a diversi tipi di cristalli: per esempio le piastre, gli aghi o le dendriti, che uniti vanno a formare i fiocchi di neve. Ognuno tiene memoria di tutto, anche del proprio viaggio fino al suolo. Magari si fonde e poi rigela, oppure si scontra con altri cristalli. I fenomeni che determinano i cambiamenti del fiocco non sono casuali, dipendono dalla temperatura dell’aria, dall’umidità della nuvola, dalla presenza o assenza di vento. Sono processi che rispondono a meccanismi non così semplici da decodificare. Un cristallo non è mai lo stesso di quando parte, e al suo arrivo finalmente parla. Se mi hai trovato così, è perché è successo questo. La neve, se si ha la fortuna che non fonda o ci piova sopra, quando cade si stratifica. Osservando i vari strati del manto nevoso, si può ricostruire la storia di un intero inverno”.
Un racconto effimero, da leggere prima che venga assorbito dalla terra o evapori nell’aria.
Gli chiedo conferma a quella diceria che sostiene non esista un fiocco di neve uguale all’altro, e mi risponde che due identici non ne ha mai visti.
“Se il cristallo si conquista l’eternità, cioè cade a quote che oramai sono sempre più alte, si trasforma in ghiaccio ma conserva le sue caratteristiche e può rimanere per secoli. Impiega parecchi anni e a un certo punto diventa firn, assumendo una forma simile a delle biglie. È una fase di trasformazione, il manto nevoso perde aria e diventa più denso, la pressione aumenta finché non si genera il ghiaccio dei ghiacciai, che ha caratteristiche diverse rispetto a quello che si forma dall’acqua. È una sorta di macchina del tempo che ti permette di tornare indietro in più inverni. Sulle Alpi arriviamo a dei millenni, in Antartide addirittura a 800 000 anni fa. La neve è un sensore, se succede qualcosa nell’aria, lei ne tiene traccia”.
Durante le riprese di una trasmissione televisiva, lo avevano calato in un crepaccio assieme al conduttore. Mentre scendevano, Michele indicava i vari strati: “qui siamo negli anni Ottanta, qui ci sono gli Settanta, ci fermeremo all’inizio della Seconda Guerra Mondiale”.
Calarsi in un crepaccio è una manovra padroneggiata da alpinisti esperti; lo immaginavo così, Michele, un cultore delle cime alte, con un curriculum che annoverasse le vette più ambite. Ma più che alpinista, Michele si definisce sciatore, uno dei pochi a praticare ancora il Telemark – tecnica in cui, a differenza dello sci alpino, l’unico attacco allo sci è in punta e il tallone rimane libero – che non ha più abbandonato dal dottorato ad Aberdeen, in Scozia. “Oltre allo sci, ciò che so l’ho imparato per la neve, mi hanno aiutato tanto le guide alpine con cui ho condiviso l’attività di ricerca. Raggiungo anche luoghi isolati o impervi non per la cima in sé, ma per osservare ciò che mi piace. A volte mi fermo anche prima, o rimango addirittura vicino casa. D’estate mi piace stare nel bosco o appena sopra il limite. Sono più un contemplativo”.
Per studiare la neve Michele è stato in Himalaya, sulle Rocky Mountains, in Giappone, ma “non è uguale in tutto il mondo, la frequenza di certi cristalli cambia, anche in base alla vicinanza o alla distanza dal mare, alla temperatura. Diversifica e caratterizza gli ecosistemi”.
Sulle Rocky Mountains, ad esempio, spesso c’è la champagne powder, una neve leggerissima e polverosa, il sogno di qualsiasi sciatore”.
Ma il suo luogo d’elezione è il Monte Rosa, e il suo “parco giochi” è l’istituto Angelo Mosso, incastonato a 2091 mslm e fondato nel 1907 come centro di ricerca per osservare l’adattamento dell’uomo nelle alte quote. Attualmente in fase di ristrutturazione, ospiterà un museo e diventerà anche un piccolo rifugio, con una sala conferenze adibita per ospitare convegni e presentazioni. Ci si può arrivare a piedi oppure in funivia, salendo da Alagna Valsesia o da Gressoney- La Trinité fino al passo dei Salati, ramo d’accesso ai Quattromila. “Per noi la funivia è utile, ci consente di raggiungere più in fretta l’Istituto, e così posso anche portare i miei studenti, non tutti e tutte sono abituati a camminare. Ci dedichiamo allo studio del funzionamento degli ecosistemi d’alta montagna, gli ambienti più simili alla vita extraterrestre, in cui la sopravvivenza è al limite e anche gli organismi si sono adattati a vivere al confine delle proprie possibilità. Sono fragilissimi, messi a dura prova dal cambiamento climatico”.
Non è vero, specifica Michele, che nei prossimi anni non vedremo più la neve all’Istituto Mosso, ma se non conteniamo il riscaldamento globale rischieremo di perdere i ghiacciai, e la quota della neve sicura è destinata ad alzarsi, arrivando fino ai 1800-2000 mslm tra il 2050 e il 2070.
Si approfondiscono anche queste tematiche nel Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie per la Montagna, che ha contribuito a fondare un paio di anni fa e raccoglie sempre più adesioni.
Mi mostra la brochure, in copertina c’è la fotografia di un pendio ripido e innevato. Il corso di laurea dei miei sogni, forse potrebbe addirittura tornarmi la voglia di studiare.
“Per studiare la neve Michele è stato in Himalaya, sulle Rocky Mountains, in Giappone, ma “non è uguale in tutto il mondo, la frequenza di certi cristalli cambia, anche in base alla vicinanza o alla distanza dal mare, alla temperatura”.
Quando esco dal suo studio mi accompagna all’ingresso, vuole accertarsi che non mi perda di nuovo, io non me ne vorrei andare perché vorrei continuare a farmi spiegare la neve, il mistero del suo odore, che nessuno a parole riesce a descrivere.
Una neve preferita Michele non sa se ce l’ha, dipende dal suo stato d’animo e dal momento in cui la vive. Ma c’è una neve che dura trenta minuti, al massimo un’ora.
“Nelle mattine di primavera la neve fonde, e i primi raggi del sole ne ammorbidiscono una sottile pellicola in superficie. Devi cogliere quell’attimo per scendere con gli sci, mi piace perché devi essere al momento giusto in quelle condizioni. Poi diventa troppo caldo e gli sci sprofondano, ma anche se per un brevissimo arco di tempo, ti sei divertito un sacco”.
Mentre torno alla stazione piove ancora, e penso che in realtà quelle gocce sono nate cristalli, e cerco di mettere a fuoco l’ultima nevicata che ho vissuto in montagna, qualche anno fa, mentre lavoravo ancora in rifugio. L’assenza di rumori, il respiro umido, il sollievo perché finalmente cadeva, poca o meno non importava, la preoccupazione di dover spalare, la temperatura che, se troppo bassa, avrebbe fatto gelare i tubi. Ma intanto rimanevo ferma, a guardare il mio mondo che iniziava a nascondersi sotto un esercito bianco. Se non lo avessi già mandato a memoria, forse ne avrei confuso i contorni. I cristalli a cui all’epoca prestavo poca attenzione e che scuotevo via dal guscio con noncuranza e si infiltravano nell’orlo ripiegato dei pantaloni, adesso mi sembrano delle piccole buste che il cielo ci invia senza francobollo.
E di quelle che riesce a raccogliere, Michele ne è il postino.
Marta Aidala
Marta Aidala è libraia e scrittrice. Il suo libro d’esordio è La strangera (Guanda, 2024).
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