Irene Graziosi
Vivian Lamarque gira per Milano con una pinza telescopica raccatta-cartacce, ama i piccioni e se avesse potuto scegliere avrebbe fatto l'accarezzatrice di animali alla catena: la vita di una poeta straordinaria oltre i suoi versi.
Vivian Lamarque le interviste preferisce farle scritte. Me lo dice su whatsapp, si scusa e appone l’emoji di alcune foglioline autunnali; quando le dico che va bene, mi manda lo sticker di un bellissimo colibrì dal piumaggio rossiccio che frulla le ali velocissimo sfarfallando sullo schermo del mio telefono. È naturale, penso, che la sua lingua digitale riecheggi il suo immaginario poetico, eppure mi stupisce ugualmente.
Nell’inverno a cavallo tra il 2007 e il 2008, Silvio Soldini girò un documentario sulla poeta dal titolo Quattro giorni con Vivian. Il film pare una chiacchierata tra due vecchi amici, e segue Vivian Lamarque nei suoi luoghi milanesi e soprattutto negli appartamenti che ha abitato negli anni che ho riconosciuto dalle sue poesie: la casa con il giardino dove è sepolto l’adorato cane Brigante, giardino che Lamarque teneva in ordine spazzando le foglie secche, le finestre da da cui osservava le famiglie altrui spaventata dalla prospettiva della solitudine e disorientata, come i suoi versi di quel periodo, le piante delle vicine di cui si prendeva cura di nascosto (“Cercasi casa con luce forte / così quando viene la Morte / quando la Morte viene forse / si spaventa e torna indietro”; “Trovata, e con sole / con sole fin dal mattino / e con vista su un castellino / finto, e su una caserma / vera, e col tennis di sotto / e sul piano una signora / con un cane bassotto e c’è anche / e c’è anche una vera famiglia / con un bambino, che assomiglia”).
Nella mia vita da lettrice raramente ho incontrato una poeta le cui poesie riflettessero in modo così limpido dei piccoli eventi quotidiani che, se ripercorsi, costruiscono il diario dolcissimo di una vita ricca, turbolenta, a tratti malinconica, punteggiata di intuizioni luminose che brillano nei suoi versi alonandoli di saggezza affettuosa e spontanea (“In mezzo a indiani / e piccoli cani / mia figlia e i suoi amici / hanno in corso l’infanzia / e come avvertirli?”; “Mia figlia quest’estate / vendeva i pinoli / che prendeva dalle pigne / che cadevano dai pini / si sedeva per terra / e diceva pinoli pinoli dieci lire”).
Lamarque viene segnata dal non riconoscimento paterno e dall’abbandono materno, a 9 mesi, in quanto illegittima nipote di una figura eminente della comunità valdese (“A nove mesi la frattura / la sostituzione il cambio di madre”). Viene adottata da genitori di origini più modeste che vivono a Milano (“Valdesina trascinata per una mano / giù fino a Milano / appena appena finito Natale / zitta guardava attorno / il nuovo presepe / la nuova mamma”).
Il padre adottivo, vigile del fuoco, muore quando lei ha quattro anni, e solo sei anni dopo Lamarque scoprirà di avere due madri, rivelazione che la scuoterà profondamente e la cui eco risuona in una parte consistente della sua poesia. Negli anni Ottanta inizia una felice, almeno nei suoi frutti, analisi junghiana, e la relazione con il suo terapeuta, il transfert, ma anche l’esperienza dell’abbandono entro i confini sicuri della relazione di cura vengono posti al centro delle sue poesie ne Il signore d’oro, Il signore degli spaventati e Poesie dando del lei (“Credevo non mi amasse / perché vietato / invece forse non mi ama / perché non è innamorato”).
Lamarque ha scritto anche libri per bambini, e gli elementi fiabeschi si insinuano spesso nei suoi versi sia in forma di immaginario (“nel bosco nel cuore del cuore del bosco / gli occhi dei lupi ti sbranavano poverino”) sia nell’andamento di filastrocca di molte sue poesie, spesso rese stranamente seducenti da parole ripetute che interrompono il cammino dello sguardo del lettore, come a volerlo provocare, svegliare, non farlo distrarre, farlo inciampare su ciò che stona, ed è per questo importante.
Gli animali per Lamarque sono compagni di viaggio che la interrogano e le rispondono, interlocutori a cui raccontare la vita e la morte, e attraverso i quali vivere anzitempo la scomparsa degli amori, la vecchiaia, la paura, come accade in Poesie per un gatto, dedicate al gatto Ignazio, che della vita sa poco, e capita che confonda il sonno con l’assenza (“Pedinate il sole / là dove c’è il sole / là c’è sdraiata / Zarina addormentata. / Scemi vedendola dormire / vi siete confusi col morire”).
Eppure, sebbene Lamarque abbia sempre raccontato la morte, la paura del vuoto e della solitudine e del tempo che fugge, è nella sua ultima raccolta di poesie L’amore da vecchia – che le è valsa la vittoria alla prima edizione del Premio Strega Poesia – che questa età bianca appare al lettore come un periodo di ricongiungimento con l’amore più puro, per ciò che l’ha salvata per una vita intera. I cari, gli alberi, le parole, il cinema, i treni, gli innamoramenti e, alla fine, se stessa. La raccolta si apre con I nomi degli amanti, che dal tono smemorato e affettuoso scivola in un’atmosfera crepuscolare, eppure piena di vita:
Confondere i bei nomi
degli amanti? Pronunciarli al momento
giusto con il nome sbagliato?
Chiedo perdono all’Olmo
quando lo chiamo Faggio
e al Frassino quando lo chiamo
Acacia, quanto si offese il Carpino
quando non lo riconobbi;
a voltarsi di là umiliato l’aiutò il vento.
Mi perdoni il Larice che l’ho chiamato Abete
e l’Abete che l’ho chiamato
Pino, alle conifere tutte chiedo scusa
e perdono chiedo ai fidanzati.
Tutti dimenticati?
No, i loro nomi ho ancora dentro bene
incisi, ma come per nebbia
confondo un poco rami e mani, colore
delle foglie e dei capelli…
Oh presto saremo boschi
tutti quanti insieme? avremo cuori
d’erba? di radici?
Orfei ed Euridici indietro vòlti
non ti vedremo mai più luce di sole?
Saremo presto boschi
tutti quanti insieme? da una vita
passeremo a un’altra dove? come?
privi dell’azzurro della neve?
privi dell’amore nelle vene?
Proprio in questi giorni sta uscendo un’antologia di poesie “per bambini, genitori e nonni” curata da lei e Crocetti il cui titolo è un omaggio a Carducci: Bei cipressetti, cipressetti miei. Lei ha la fortuna di essere stata sia genitore, sia nonna. Che valore ha avuto la poesia in queste diverse posizioni?
Quando nel 1968 diventai mamma di Miryam (“mia bambina, mia rima / mia infinita mattina”) scrissi poesie, sì, ma le scrivevo già dal ’56, la novità fu che iniziai anche a scrivere fiabe: le prime furono Il libro delle ninne nanne (Miryam aveva già 7 anni, ma avevamo un dolore e, come scrisse Garcia Lorca “le ninne nanne cullano i bambini ma anche le mamme”) e La Bambina che mangiava i lupi.
Anche nella nonnità scrissi fiabe, ma diverse, più lievi, perché l’analisi junghiana, iniziata nell’84, cominciava a dare i suoi frutti.
Per i nipotini Micol e Davide scrissi molto ma con loro non leggevo, mi sarebbe sembrato di lavorare, preferivo giocare. Mi piaceva tanto portarli in bicicletta senza pedalare, cioè spingevo la bici a mano, io in piedi, loro nei cestini, diventavamo alti quasi uguali, chiacchieravano, ridevamo.
Io qui a casa ho, tra le sue raccolte di poesie, anche Animaletti vi amo e Storie di animali per bambini senza animali. Sono libri per bambini, e naturalmente entrambi parlano di animali, come anche molte sue poesie – bellissime quelle raccolte in Poesie per un gatto, con metà copertina illustrata da lei. Lei è stata una bambina senza animali? Ma soprattutto: crede che gli adulti esistano?
Da bambina ho avuto due cocker, una nera e una bionda. Entrambe morte da piccole. In campagna d’estate guardavo tanto i cani alla catena, erano tristissimi, non ricordo a quale età avevo deciso di fare da grande l’accarezzatrice loro e dei maialini e agnellini portati al macello. Nel libro uscito quest’anno, Animaletti vi amo, quel tema spunta qua e là.
Da grande invece ho avuto il cane Brigante (“dei cani brutti eri il più bello di tutti”) e il gatto Ignazio (“fai l’agguato a una piuma di merlo / l’intero manca anche a te / senza saperlo”).
Devo anche confessare una predilezione per un animaletto odiato da tutti, spero di non perdere qui lettori per questo motivo: i piccioni. Suona meglio dire las palomas, ricordate Picasso? L’esperto Danilo Mainardi mi disse che piccioni e colombi sono la stessa cosa. Mi sembrano minuscoli omini affamati sempre chini alla ricerca di cibo. Quando fanno il bagno nelle fontane guardo incantata le piume luccicanti dei loro colli verdini e violetti. Sono famosi per la loro fedeltà (infatti li mettono sulle torte degli sposi). Un giorno ho assistito al dolore di un piccioncino per la sua compagna investita da un’auto. Non si dava pace.
Piante e animali, sono presentissimi nelle sue poesie e poco presenti a Milano, dove lei vive e dove vivo anche io (anche se questo non le ha impedito di scrivere una bella poesia per le betulle della Biblioteca degli alberi…). In effetti il suo universo di riferimento naturalistico mi riporta in altri luoghi (mi viene in mente L’intrepido ciclamino anche): la montagna, la campagna. Secondo lei questo imprinting è dato dalle sue origini?
Sono nata nella Maternità di Tesero (TN) (che ora è invecchiata come me, infatti è diventata una Casa di Riposo) ma i primi 9 mesi della mia vita (più i precedenti nove nella pancia) li ho vissuti a Cavalese, in via Unterberger, quasi sempre su un balconcino che adoravo (vedi la poesia Errore di adorazione, a pag. 87 dell’Amore da vecchia). Ecco come imprinting sento più quello dei balconi, tuttora li amo molto, e sento tanto anche quello della neve, neve trentina. Neve da guardare scendere dal cielo. Non come sciatrice, le mie due mamme sì, lo erano, vedi la poesia Sciare che si conclude però con la sparizione prima di una mamma, poi dell’altra, e infine “causa surriscaldamento del pianeta” purtroppo anche della neve. Ossessivi i titoli di alcune mie fiabe: La bambina di ghiaccio, Tre storie di neve, Poesie di dicembre, Neve neve dove sei? Poesie di ghiaccio.
La sua Milano è una Milano che mi ha colpita. Si vede bene nel documentario di Silvio Soldini Quattro giorni con Vivian: le vicine di casa a cui lei annaffia i fiori di nascosto, le foglie secche spazzate via, le finestre che danno su autobus che le ricordano case mobili e appartamenti altrui all’interno dei quali può sbirciare. È una Milano piccola, un po’ infreddolita, molto umana. Che rapporto ha lei con Milano?
Da bambina, quando mi raccontavano che in India le persone dormivano anche per la strada, sui marciapiedi, non volevo crederci. Ora che succede anche qui, più di loro mi stupiscono i passanti che passano a pochi centimetri da loro senza degnarli neppure di uno sguardo, non si chiede la luna, almeno uno sguardo! I senza tetto quasi mi colpiscono più d’estate, sdraiati sull’asfalto, che d’inverno quando stracci e cartoni possono vagamente lontanamente somigliare a giacigli. Ma certo lo so che è l’inverno il loro grande nemico.
Una cosa che faccio molto volentieri a Milano è girare con una pinza telescopica raccatta-cartacce. Vorrei che tutti facessero come me, così non mi sentirei una marziana (nel nord Europa, il plogging è molto diffuso anche correndo e in bicicletta e sugli skate). Sapessero quanto fa felici. È come una bacchetta magica: vedi un bel prato smeraldino oltraggiato da lattine, da rifiuti, in pochi secondi fai sparire il brutto e lui torna come nuovo, intatto, luccicante.
Poi c’è una delle sue poesie che preferisco per i poeti romani, dove recita le fermate della metro (“cari poeti romani tornando poi a Termini in metrò / ho letto i nomi delle vostre fermate che emozione / allora / le ho copiate, la vicina di posto mi guardava come / per dire / cosa fa? ma non-romani sentite un po’ che nomi: / Magliana / Garbatella Colosseo Castro Pretorio Rebibbia Pietralata / mi sono così tanto emozionata che sentivo una specie / di magone”). Ha mai pensato di vivere in una città che non fosse Milano?
Ricordo bene quel giorno, seduta sul metro, leggevo i nomi delle fermate e mi risuonavano echi uno via l’altro, una emozione forte.
Mi sarebbe piaciuta una città con mare. Una città grande però, Napoli per esempio. O anche Roma, che prendi il metrò e scendi a Ostia. Il rumore delle città grandi mi fa compagnia. Sotto le mie finestre ho otto corsie d’auto. Mentre leggo o scrivo, se al piano di sopra, pur scalzi, camminano, mi disturba, ma se sotto sento passare tir, ambulanze, filovie, tram, auto della polizia, sono felice. Soprattutto mi piace guardare i pedoni. Specie quelli che aspettano il tram.
Lei parla spesso d’amore, un amore segreto, inconfessato, che è inutile ammettere a chi si ama. Perché è così inutile dichiararsi?
Un’abitudine adottata dopo i 70 anni… chi vorrebbe essere corteggiato da una quasi ottantenne? Anzi, a pensarci bene, mi è successo spesso anche da giovane di non dichiararmi, ma solo se capivo che non c’erano speranze di essere corrisposta.
Le sue poesie sono piene di parole ripetute, ne cito solo una ma ce ne sono tante: La mia mamma cammina / dritta come un fuso / o come una Rosa dal lungo / lungo stelo. Le spine della vita / l’hanno ferita, ma lei cammina / dritta elegante intemerata / e come profumata rosa / profumata.” Che valore hanno per lei le ripetizioni?
Da bambina, nella casa vuota, leggevo fiabe su fiabe su fiabe, fiabe in quantità allarmante, se non ne avevo di nuove leggevo e rileggevo le stesse. E nelle fiabe reiterazioni e anafore sono frequenti, sono sempre stata sensibile alla loro musica, cerco di ricrearla. Le sento anche come parole/specchio, che si guardano, che si corrispondono.
Ho letto che lei traduce e insegna o ha insegnato italiano agli stranieri… Mi piacerebbe sapere di più del suo rapporto con queste due attività.
Ho insegnato mezzo secolo fa, oggi sarebbe tutt’altra cosa. Gli iscritti spesso erano persone abbienti, per esempio mogli di dirigenti stranieri in trasferta a Milano, turisti, ecc. Ben diverso sarebbe oggi insegnare agli immigrati, ammiro molto le Scuole Penny Wirton, gratuite, fondate da Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi. Lì seduti nelle aule, come niente fosse, siedono persone che portano sulle spalle pesi immani, storie spaventose.
Molti decenni fa, su committenza, ho tradotto Baudelaire, Valéry, La Fontaine e altri. Il sogno sarebbe tradurre Emily Dickinson, ma non sono assolutamente in grado e ha già grandi traduttori. Ogni tanto mi traduco qualche suo verso, solo per me, solo per farmi un regalo.
Infine… Lei ha un rapporto particolare con i morti e i cimiteri e i fiori che li abitano, e a volte va per sistemare i fiori, annaffiarli, salvare quelli buttati anzitempo. Che rapporto ha avuto con la morte nel corso della sua vita? Ha dialogato sempre con lei?
Il lutto più grande: a 4 anni persi il mio babbo adottivo, lui ne aveva solo 34. Era un gigante buono, come quelli delle fiabe, era un Vigile del Fuoco (nome creato da D’Annunzio), salvò tante vite. Morì sul colpo scontrandosi con la sua motocicletta con un’auto della Polizia. Mi aveva adottata da soli tre anni, mi adorava. Ricordo le visite con la mamma sulla sua tomba tutte le domeniche mattine. Ricordo che poco lontano c’era una tomba che mi piaceva tanto, era di una bambina, le avevano scritto la storia di Cappuccetto Rosso su bellissime pagine di marmo.
Questa intervista è stata realizzata in occasione di Più Libri Più Liberi 2023, dove il 7 dicembre alle 17 si svolgerà l’incontro dal vivo tra Vivian Lamarque e Irene Graziosi, introdotto da Stefano Petrocchi e Nicola Lagioia.
Irene Graziosi
Irene Graziosi è autrice, scrittrice e vicedirettrice di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).
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