Le persone facili si dimenticano, Michela Murgia no - Lucy
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Nicola Lagioia

Le persone facili si dimenticano, Michela Murgia no

23 Agosto 2023

A qualche giorno dalla sua scomparsa, Nicola Lagioia ricorda la scrittrice, l'intellettuale, l'attivista e l'amica.

Michela Murgia si presentò per la prima volta al pubblico nel 2006, quando per le edizioni ISBN pubblicò Il mondo deve sapere. Era il diario, in forma letteraria, della sua esperienza di telefonista in un call center. È QUANDO SMETTI DI PENSARE CHE NON CE LA FARAI CHE PUOI DAVVERO COMINCIARE A FARCELA. PENSA DA VINCENTE! È uno dei cartelli motivazionali che costellano i cubicoli della Kirby, l’azienda statunitense per conto della quale le addette del call center (quasi tutte donne) devono cercare di vendere un’aspirapolvere da tremila euro (“brevettato dalla Nasa!”) a casalinghe da persuadere con tecniche molto ben determinate. “Sorridi”, recitano le istruzioni per la conversazione perfetta, “dall’altra parte del telefono si capisce. Se devi fare una domanda fuori testo, fai in modo che non cominci mai per non, e che la risposta non possa mai essere no”.  Le telefoniste vengono selezionate da una psicologa. Per farsi assumere bisogna fingere di essere spinti da “una motivazione sufficientemente forte da renderti manipolabile, ma che non sia il denaro. Perché ovviamente, se fosse il denaro, il primo che passa e ti offre due lire in più lo segui”. 

Il call center è organizzato come un “gulag svizzero”. Dodici ore di lavoro, divise in tre turni di quattro ore ciascuno, senza soluzione di continuità. Prima di essere tutto questo, però, la Kirby è un dispositivo linguistico fondato sulla vessazione. Il Novecento è finito. Nel XXI secolo lo sfruttamento del lavoro non è più l’esito di una trattativa andata male tra azienda e sindacati (in certi ambienti le parti sociali a tutela del lavoratore, semplicemente, non esistono più) ma il punto di arrivo di una continua inversione semantica giocata su eufemismi e parole fuori posto.  Lavoro di squadra: il modo in cui la gente comune raggiunge risultati non comuni. “Bello” per “brutto”. “Squadra” per “solitudine”. “Vincente” per “perdente”. “Non comune” per “conforme”.

Bene. Se c’è una categoria che meglio di altre è in grado di smontare questi dispositivi linguistici, è quella degli scrittori. 

Sin dal suo esordio, Michela Murgia si propone dunque di smascherare le menzogne del potere che cerca di opprimere lei ma soprattutto quelle e quelli meno attrezzati di lei. Lo fa usando le armi del sarcasmo, del paradosso, della comicità, che tuttavia rappresentano una sorta di “polpa retorica” dentro la quale vibra una corda molto resistente, l’anima d’acciaio di una logica dentro cui l’avversario resta intrappolato, facendo scattare (sia pure per un attimo) il ribaltamento dei rapporti di forza. Tra lei è il call center è evidentemente lei la parte debole e il call center la parte forte. Eppure, scrive Murgia, “ho saputo subito che era il call center che cercavo, quello dove avrei potuto divertirmi. Non l’innocente sorriso del bambino davanti alla farfallina. Direi piuttosto il sadico sorriso del bambino mentre con uno spillo fissa la farfallina al pezzetto di sughero per iniettarle la formalina. Mentre è ancora viva, ovviamente”.

Insomma, Murgia sarebbe qui il bambino armato di spillo, e la multinazionale americana la farfallina. È ovvio che non è così. Ma lo è nel momento in cui l’inganno della multinazionale viene smascherato e l’ingranaggio linguistico si inceppa. C’è, in questo istante di violenza simbolica (o rituale?), la vendetta dell’oppresso.

Il mondo deve sapere diventò in breve uno dei rappresentanti più riconoscibili della cosiddetta “letteratura del precariato”. In Italia il lavoro stava cambiando in modo rapido e profondo, ma chi doveva rendersene conto voltava la testa dall’altra parte. Non se ne rendevano conto i sindacati. Non se ne rendevano conto i partiti politici, specie chi avrebbe dovuto capirlo più in fretta, vale a dire la sinistra (incatenata, nelle sue opposte anime, ai cancelli della Fiat o al sorriso di Tony Blair). Non se ne rendevano conto i grandi giornali. Non se ne rendevano conto quasi tutti gli intellettuali nati prima degli anni Cinquanta, quelli che all’epoca monopolizzavano il dibattito pubblico. Anzi, molti di questi intellettuali, giornalisti, dirigenti politici reagirono infastiditi a chi denunciava un nuovo tipo di oppressione. Molti non sopportavano (per occulto senso di colpa, per più banale superbia o vanagloria) che le nuove generazioni crescessero in un contesto che offriva meno opportunità rispetto a quelle che avevano avuto loro. Non se ne accorse chi avrebbe dovuto accorgersene. Se ne accorsero alcuni scrittori, tra cui Michela Murgia, e lo raccontarono. Molti lettori si riconobbero in quel racconto. 

Se la “narrazione del precariato” era un fenomeno nuovo, non lo erano i codici che Michela Murgia utilizzava: quelli del reportage, del diario, della letteratura ibrida. Il Novecento italiano offre molti esempi di questo tipo. In quegli anni tuttavia era attiva una nuova ondata di scrittori impegnati a ridefinire il genere. Penso a Sandro Veronesi con Superalbo. Ad Antonio Pascale con La città distratta. A Gomorra di Roberto Saviano, che uscì proprio nel 2006. Soprattutto penso ad Alessandro Leogrande, che attraverso libri come Un mare nascosto, Le male vite, Nel paese dei viceré si proponeva come il giovane maestro di questo piccolo rinascimento. Alessandro Leogrande, come Michela Murgia, trovò nel cristianesimo l’elemento trascendente (con tutto ciò che di misterioso ha la fede) per la propria battaglia politica.

Il mondo deve sapere fu pubblicato da una casa editrice indipendente, ISBN. Prima di essere un libro era stato un blog. Michela Murgia, all’epoca già piuttosto incline all’autodeterminazione, si era costruita vale a dire da sola il proprio spazio, e l’aveva fatto usando il nuovo mezzo: la rete. In realtà Murgia aveva a lungo frequentato il mondo on line anche attraverso Lot, un gioco di ruolo in cui ogni azione era fatta solo di parole, e a cui lei prese parte con più di un avatar. “In quella comunità di gioco ci sono stata per dieci anni ed è stata l’unica scuola di scrittura che mi potevo permettere. È dove ho imparato a scrivere e a costruire trame. È lì che ho simulato i caratteri dei personaggi che poi anni dopo sarebbero entrati nei miei romanzi, mentre ci passavo le notti in cui l’insonnia non mi dava pace. Soprattutto è lì, tra quei 40mila giocatori, che ho incontrato alcune delle persone più importanti della mia vita, affetti così duraturi da vincere persino il fatto che da anni nessuno di noi gioca più”.  

Una giovane editrice, anche lei appassionata di Lot, mi raccontò di aver conosciuto l’avatar di Michela molti anni prima della Michela in carne e ossa. Lot era un gioco di ispirazione fantasy, uno dei personaggi interpretati da Michela era un’elfa. (“Scelsi di giocarmi un’elfa, le diedi una storia decisamente meno tragica della media e per qualche settimana mi limitai a guardare quelli bravi davvero, i giocatori di lunghissimo corso che si muovevano con disinvoltura dentro a una rete di relazioni narrative complessa e affascinante. Per giocare coerentemente da elfa entrai in un clan di altri elfi e nell’arco di tre anni imparai accettabilmente sia il Quenya che il Sindarin, le due varianti dell’elfico codificate da Tolkien stesso”). Chiesi all’editrice che tipo di elfa fosse quella impersonata da Michela quando di Michela Murgia non sapeva niente nessuno. Risposta: “Minchia, era tostissima. Era una celebrità nell’ambiente dei giocatori on line. Io ero una sua fan senza manco sapere come si chiamasse per davvero”.

La dimestichezza di Michela Murgia con le nuove tecnologie veniva insomma da lontano, un tipo di abilità a cui avrebbe fatto sempre più ricorso anni dopo, quando il gioco si sarebbe fatto molto duro.

La disponibilità di Murgia ad abitare il mondo 2.0 (e tuttavia, anteriore a Facebook e Instagram) si accompagnava a una formazione di tipo più classico. Prima di pubblicare il suo primo libro, si era diplomata all’istituto tecnico, aveva frequentato l’Istituto di Scienze Religiose della Diocesi di Oristano, aveva militato nell’Azione Cattolica, era soprattutto fuggita di casa all’età di diciotto anni, dopo essersi scontrata ripetutamente con un padre violento. E aveva fatto molti lavori. Era stata insegnante di religione, venditrice di multiproprietà, operatrice fiscale, dirigente amministrativa in una centrale termoelettrica, nonché (come Vitaliano Trevisan) portiera notturna. Se i concetti di “cavarsela da sola” e “venire fuori dal nulla e combinare molte cose” avessero un nome e un cognome, Michela Murgia non calzerebbe male.

Quando Matteo Salvini (il potentissimo maneggiatore di rosari che, in un sol bacio, riusciva a vilipendere sia il Vangelo che la Costituzione), definì Murgia “intellettuale radical chic e snob”, Murgia rispose con un altro gioco: la sinossi dei curriculum comparati. Eccone un estratto: “nel ’91, anno in cui mi diplomavo come perito aziendale, mi pagavo l’ultimo anno di studi lavorando come cameriera stagionale in una pizzeria. Purtroppo, feci quasi due mesi di assenza perché la domenica finivo di lavorare troppo tardi e il lunedì mattina non sempre riuscivo ad alzarmi in tempo per prendere l’autobus alle 6,30 per andare a scuola. A causa di quelle assenze, alla maturità presi 58/60esimi. Nel ’92, mentre lavoravo in una società di assicurazioni per sostenermi gli studi all’istituto di scienze religiose, lei prendeva 48/60 alla maturità classica in uno dei licei di Milano frequentati dai figli della buona borghesia. Sono contenta che non abbia dovuto lavorare per finire il liceo. Nessuno dovrebbe. Nel ’93 iniziavo a insegnare nelle scuole da precaria, lavoro che ho fatto per sei anni. Nel frattempo lei veniva eletto consigliere comunale a Milano e iniziava la carriera di dirigente nella Lega Nord, diventando segretario cittadino e poi segretario provinciale. Non avendo mai svolto altra attività lavorativa, è lecito supporre che la pagasse il partito. Chissà se prendeva quanto me, che allora guadagnavo 900 mila lire al mese”.

Agonismo (non si gioca per 10 anni a Lot invano), sfrontatezza, sberleffo, uso implacabile della logica, smascheramento delle bugie del potente di turno. Ed ecco che per un attimo Salvini diventa la “farfallina” e Murgia il “bambino armato di spillone”. Ovviamente non è così: Salvini in quel momento è Ministro dell’interno, Murgia ha solo le sue parole. Ma qui Murgia sta svolgendo egregiamente la sua funzione di intellettuale: sta dimostrando che il Ministro parla a vanvera. Il Ministro decide della vita dei cittadini. Uno scrittore no. Sta a chi legge trarne le conseguenze.

Come scrivevo, Il mondo deve sapere fu pubblicato da una casa editrice indipendente. Tra la seconda metà degli anni Novanta e i primi Duemila, la scena indipendente sta vivendo in Italia un momento magico. Case editrici (ISBN, Fandango, minimum fax, Iperborea, Fazi, e/o, Theoria), riviste on line (Nazione Indiana, Il Primo Amore, minimaetmoralia), cartacee (Lo Straniero, Accattone, Il malepeggio), piccoli e grandi eventi (uno su tutti: il festival di Gavoi, che ha tra i principali animatori Marcello Fois e avrebbe avuto tra i collaboratori di valore proprio Murgia) raggiungono un protagonismo mai visto prima.

La scena indipendente non è solo un trampolino di lancio per esordienti, ma un luogo di incontro e militanza. È un periodo in cui redattori, scrittori, editor, grafici, traduttori provano a fare dell’editoria la propria religione laica, dedicandoci ogni giorno (e ogni notte!) un tempo che non ha nulla a che fare con il tempo lavorativo. Ha a che fare con la dimensione della preghiera, con la dedizione assoluta, con la socialità come dovere etico, persino con l’utopia. È in questo contesto che Michela Murgia conosce nuovi compagni di viaggio e di lotta. Chi ha parlato in maniera disinvolta di consorteria non ha di solito la più pallida idea del contesto in cui sono stati costruiti certi legami, guarda con sconcerto al cosiddetto premio di visibilità e prestigio (“perché io no e loro sì?”) ignorando quali sacrifici ci siano dietro, e fingendo di non vedere i risultati: il festival, l’associazione, la rivista, la casa editrice che il volenteroso carnefice dell’evidenza non metterà mai su. Per non parlare dei libri che non scriverà mai.

È di conseguenza, quella di cui sto scrivendo, anche l’epoca in cui le major osservano con particolare attenzione cosa succede nel mondo delle piccole case editrici. È normale che succeda, anche se è un gioco che – altrettanto normalmente – agli indipendenti non piace affatto. Chi pubblica un buon libro per ISBN, minimum fax, Fazi, Fandango, pubblica di solito il secondo per Einaudi, Mondadori, Bompiani, Feltrinelli. Michela Murgia inizia a pubblicare per Einaudi. Nel 2008 esce Viaggio in Sardegna. Nel 2009 Accabadora. I lettori scoprono una Michela Murgia molto diversa da quella dell’esordio. C’è una Michela Murgia “in luce” (quella che vuole smascherare i potenti a suon di logica) e c’è una Michela Murgia ombrosa, ancestrale, lunare, ctonia, una “forza del passato” che viene a chiedere conto del presente. 

Anche la prosa cambia. Si fa a propria volta sinuosa, oscura, più tradizionalmente letteraria. “Quando la vecchia si era fermata sotto la pianta del limone a parlare con sua madre Anna Teresa Listru, Maria aveva sei anni ed era l’errore dopo tre cose giuste. Le sue sorelle erano già signorine e lei giocava da sola per terra a fare una torta di fango impastata di formiche vive, con la cura di una piccola donna. Muovevano le zampe rossastre nell’impasto, morendo lente sotto i decori di fiori di campo e lo zucchero di sabbia. Nel sole violento di luglio il dolce le cresceva in mano, bello come lo sono a volte le cose cattive”. Accabadora diventa un caso letterario. Poi un best seller. Vince il Campiello. Viene tradotto in tutto il mondo. È un libro amato da centinaia di migliaia di lettori. È uno dei romanzi italiani più celebrati degli ultimi anni. È il momento più alto della Michela Murgia scrittrice, ma è sufficiente a respingere chi oggi vorrebbe sminuirne i meriti (a fare uno scrittore basta un libro notevole. Raffaele La Capria insegna. Proprio Ferito a morte, tra l’altro, fu osteggiato da molti contemporanei).

Del resto, certi attacchi, oltre un determinato grado di veemenza (che i mediocri confondono con la “sincerità”), si disinnescano da soli: se il tempo è il supremo giudice delle opere letterarie, basterà in fondo aspettare perché lo scrittore che tanto detestiamo ne venga incontestabilmente ridimensionato; un eccesso di accanimento è invece sempre sospetto, ed è spesso una prova. Quelli che stroncavano Il Gattopardo. Quelli che stroncavano La Storia. Quelli che stroncavano Il nome della rosa. Quelli che stroncavano L’amica geniale. Solo che poi le opere sono ancora tutte lì, lette da milioni di persone, studiate nelle università di mezzo mondo, mentre gli stroncatori spesso li ricordiamo solo per quello.

È tuttavia dopo Accabadora, all’apice del successo come romanziera, che Michela Murgia compie una scelta che pochissimi capiscono e che altri (io tra questi, all’epoca) non condividono: quella di abbandonare i panni della “scrittrice pura” e di utilizzare la letteratura (volutamente imbastardendola, semplificandola, facendone persino a volte uno strumento di persuasione) per fare politica. Escono libri come Ave Mary (di nuovo il cristianesimo, e la questione femminile), L’ho uccisa perché l’amavo (falso!) (quest’ultimo scritto con Loredana Lipperini). Si apre al tempo stesso una delle stagioni più difficili per Murgia. La scrittrice tenta la strada della politica istituzionale. Si candida alla presidenza della Regione Sardegna, e perde. 

Più che la competizione, Michela Murgia aveva l’agonismo (forse anche più dell’antagonismo) nel sangue. La sconfitta alle elezioni sarde è un duro colpo, c’è forse qualche comprensibile sbandamento. È però da questa caduta che Murgia rinasce per l’ennesima volta, ed è, per così dire, la trasfigurazione decisiva. È qui che comincia a usare i social in modo programmatico ed efficace (e a volte eccessivo, spericolato), che lavora in televisione, che conduce trasmissioni radiofoniche, che interviene sulle prime pagine dei quotidiani, che diventa un’intellettuale di enorme visibilità, che parla a ragazze e ragazzi a cui attraverso i soli libri non sarebbe arrivata, che catalizza l’attenzione sulle questioni del femminismo, dell’intersezionalità, della famiglia queer, è qui che diventa una guida per molte e molti, un oggetto d’odio per altre e altri, che risulta divisiva, insopportabile, oppure provvidenziale. È qui, soprattutto, in un modo per me incredibile, che viene identificata come una sorta di nemico pubblico (la parola non è avversario) da alcuni leader politici di destra, e dai loro galoppini.

A questo punto chi vuole sminuire Michela Murgia comincerà a dire che non è più una scrittrice ma una pop star, non un’intellettuale ma un’influencer. Il dato singolare è che a muovere queste critiche sono a volte scrittori e intellettuali che (non avendo alle spalle un’opera di rilievo, né lettori, al massimo qualche direttore di giornale) esistono quasi solo sui social. Sul tema è interessante ciò che ha scritto Francesco Costa su Il Post. Lo riproduco: “alla luce del fallimento evidente delle istituzioni che più di ogni altre dovrebbero teoricamente sviluppare il cosiddetto dibattito pubblico fuori dalle cosiddette élite (giornali, riviste, sto parlando di noi), il suddetto dibattito si è trasferito principalmente in luoghi – i social media – che non sono stati costruiti per ospitarlo, e che anzi cercano in ogni modo di peggiorarlo e scoraggiarlo con gli incentivi sanciti dai loro algoritmi. Questo tragico trasloco, insieme al lavoro poverissimo delle istituzioni che avrebbero il compito di insegnare alla popolazione intera a discutere, e quindi a partecipare al dibattito pubblico con argomenti logici e conoscenza (scuole superiori, televisione di Stato, sto parlando di voi), ha prodotto un’altra triste conseguenza oltre all’istupidimento generale di cui siamo insieme responsabili e testimoni, ognuno per la sua parte: la perdita della capacità di distinguere un influencer da un politico da un intellettuale”.

I social sono il territorio della contraddizione e del rischio assoluto. Sono anche il gioco dove il banco vince sempre. Come scrive Costa, non sono stati progettati per ospitare dibattiti di spessore, ma sono il luogo in cui molti dibattiti che aspirano a essere influenti si sono disgraziatamente trasferiti. Chi si lamenta che “non ci sono più gli intellettuali di una volta” ha in mente il mondo in cui vivevano Pasolini, Calvino e Morante. È una lamentazione spesso frutto di meschinità: se pretendo che Pasolini venga fuori da un tempo che non potrà produrlo, è solo per screditare le persone di valore – ovviamente diversissime da quelle del passato – che il presente può invece produrre, le stesse che temo mi tolgano spazio, facendo piazza pulita della mia mediocrità (per fare un esempio lontano da Murgia, quando Troppi paradisi e Il contagio di Walter Siti furono lodati da chi ne colse la novità, alcuni detrattori di Siti – parodizzando in modo involontario Midnight in Paris – li stroncarono furiosamente all’urlo di “mica siamo di fronte a Pasolini! Mica siamo di fronte a Moravia!”, non capendo che la cosa interessante era proprio quella, il fatto cioè che Siti fosse un’altra cosa).

Il mondo di Moravia, Morante e Pasolini, appunto, è stato spazzato via molti anni fa. È saltata la scuola, l’università, la politica per come le conoscevamo, sono saltati i giornali e i mediatori tradizionali. È un mondo, per certi versi più selvaggio, contraddittorio e inospitale. Ma è in questa giungla che Michela Murgia ha allestito un efficace, eccessivo, rischiosissimo (e spettacolare: nel bene e nel male) esperimento. È esistita in rete come nessuno prima in Italia, sui temi che ha affrontato. Si è mossa sì con consapevolezza, però tra codici e algoritmi in continua trasformazione. Se essere intellettuali significa rischiare (di risultare insopportabili, inopportuni, indigeribili, scandalosi, rompicoglioni, divisivi; come se avere a che fare con Elsa Morante fosse facile. Come se fosse facile avere a che fare con Pier Paolo Pasolini, con Carmelo Bene, con Luciano Bianciardi, con Oriana Fallaci) chi lo è stato più di lei? Se significa dare alla propria lotta e alla propria continua polemica nuove forme espressive, chi ci è riuscito di più? Se significa avere coraggio (non solo di dire cose impopolari ma anche, inevitabilmente, cercando una verità, di prendere una o più sonore cantonate, di vedere la propria logica collassare su se stessa) chi ne ha pagato le conseguenze come lei? Se significa restare soli nell’occhio del ciclone (un leader politico che attacca uno scrittore ha un apparato a proprio servizio; uno scrittore ha solo se stesso) chi ne ha pagato il conto come lei? Se significa gestire il potere che deriva dall’avere un grande pubblico intrattenendo con il potere vero un rapporto complicato, quella è stata Michela Murgia, i cui rapporti con gli editori, le radio, i giornali e le tv che le hanno dato spazio sono spesso stati a dir poco spigolosi. Se essere intellettuali significa arrivare a infastidire un Presidente del Consiglio, un Ministro dell’Interno, usando solo le parole, come vogliamo chiamare una così? E se a quel Presidente del Consiglio diamo più fastidio di quanto riescono a dargliene i partiti d’opposizione? Che paese è quello il cui governo trova negli intellettuali, più che negli altri leader politici, i propri veri avversari? Una cosa del genere sta succedendo in Germania, in Francia, in Gran Bretagna? Quale cartina di tornasole è stata, per l’Italia, Michela Murgia? (Nessuno che non lo abbia provato sa davvero come ci si sente – e cosa si rischia di diventare, nella tempesta di hater e fan – quando un leader politico dà ordine di attaccare uno scrittore; ma è anche lo sforzo d’astrazione, e di immedesimazione, a farci umani). Infine, se da un certo punto in poi, essere intellettuali ha significato in questo paese fare del proprio corpo uno strumento di lotta, di spettacolo, di attrazione, di repulsione, di irritazione, la pietra dello scandalo, quello è stato il corpo di Michela Murgia.

(Non è solo per fare scattare una vendetta simbolica se Michela finge di essere il bambino armato di spillone e non la farfalla, ma anche per evitare – in modo sin troppo muscolare, plateale, scenografico – che sia intaccato il nucleo irriducibile della sua fragilità. Chi la attaccava senza criterio, è stato così scemo da cadere nella trappola che a volte Michela Murgia tendeva a proprio stesso danno?)

Bisognava essere d’accordo con Murgia quando diceva che, in un sistema patriarcale, i maschi sono portatori di una colpa originaria? Bisognava essere d’accordo con Pier Paolo Pasolini quando proponeva di abolire la scuola dell’obbligo? Bisognava essere d’accordo con Carmelo Bene quando sosteneva che, in un paese di pusillanimi, l’unica persona degna d’interesse era Totò Riina? Bisognava essere d’accordo quando Oriana Fallaci attaccava l’Islam? E quando lo faceva Michel Houellebecq? E quando Jean Genet faceva l’apologia del giovane criminale? E quando Aldo Busi parlava della sessualità dei ragazzini? E quando Jean Baudrillard definiva l’11 settembre “la madre di tutti gli eventi”? Perché non essere d’accordo non ci basta? Di cosa abbiamo davvero paura?

Ho frequentato Michela per diciassette anni. Ricordo momenti di confidenza. Ricordo anche incomprensioni, poi ancora vicinanza. C’è stata di recente una lunga passeggiata a piedi, da Flaminio a Trastevere, nella notte di Roma. Non è stato un rapporto facile. Molte persone con cui ho avuto un rapporto facile le ho già dimenticate.

Ma c’è un poscritto. La scomparsa di Michela Murgia ha scatenato anche reazioni poco dignitose, che nulla hanno a che fare con la “sincerità”. La compostezza e l’umiltà di fronte alla morte, a propria volta, non hanno nulla a che fare con il galateo. Lo dice bene in un suo libro Cormac McCarthy. “La morte di ogni uomo fa le veci di quella di ogni altro. E poiché la morte viene per tutti, non c’è altro modo di placare la paura se non amando l’uomo che fa le nostre veci. Non stiamo ad aspettare che la sua storia venga scritta. È passato di qui molto tempo fa. Quell’uomo che è tutti gli uomini, e che sta sul banco degli imputati al nostro posto, finché non arriva il nostro momento e tocca a noi starci al posto suo. Lo ami, quell’uomo? Onori il cammino che ha intrapreso? Sei pronto ad ascoltare ciò che ti narrerà?”

La foto in copertina è di Chiara Pasqualini, che Lucy ringrazia.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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