Gabriella Dal Lago
12 Novembre 2024
L'uscita "Intermezzo" ha infuocato la discussione tra amanti e detrattori di Sally Rooney, e ci si chiede se le critiche che ricevono le scrittrici riguardino solo la letteratura o qualcosa di più. Cosa è cambiato dai tempi di Woolf e della "stanza tutta per sé", per le donne che scrivono?
Se non vivete su un altro pianeta, probabilmente vi sarete accorti che è uscito un nuovo romanzo di Sally Rooney. Arrivato a settembre sul mercato anglofono e oggi su quello italiano (nella traduzione di Norman Gobetti per Einaudi) Intermezzo è il quarto lavoro della scrittrice irlandese: la sua uscita è stata annunciata da una pervasiva campagna di marketing che ha riempito feed e muri della città con le diverse varianti della copertina del libro.
Al di là del grande valore letterario dell’opera di Rooney (Intermezzo è secondo molti, probabilmente a ragione, il suo libro più maturo finora) penso che la rilevanza culturale della scrittrice dipenda dalla sua capacità di creare un discorso. Lo fa quando politicamente si pronuncia rispetto al genocidio in corso a Gaza, all’aborto in Irlanda; e lo fa nella sua fiction, che è a sua volta politica, attuale, che non si tiene fuori dai fatti del mondo ma anzi li attraversa.
Con l’uscita di Intermezzo sono arrivate anche le interviste; in quella rilasciata al «New York Times» Rooney dialoga con David Marchese su carriera, personaggi e il sospetto dell’autobiografia che sembra infestare qualsiasi narrazione femminile. Un altro dei temi toccati è l’ambivalenza della sua posizione di “giovane scrittrice” nel discorso pubblico, appunto: una condizione che ha contribuito contemporaneamente a darle molta visibilità e a creare dei problemi di leggibilità della sua figura nella scena culturale. Rooney dice: “Quando le giovani donne conquistano un ruolo prominente nella nostra cultura solitamente non lo fanno come intellettuali o critiche, ma come cantanti o attrici. Io sto cercando di lavorare in uno spazio in cui talvolta non mi sento leggibile, e anzi mi sembra che spesso le persone abbiano bisogno di leggermi come una sorta di celebrità, perché è questo il modo in cui siamo stati abituati a leggere l’immagine di una giovane donna nella nostra cultura. Sto provando a occupare un certo spazio nella cultura e ogni tanto mi sembra che sia difficile trovare un posto lì dentro”.
“Al di là del grande valore letterario dell’opera di Rooney (‘Intermezzo’ è secondo molti, probabilmente a ragione, il suo libro più maturo finora) penso che la rilevanza culturale della scrittrice dipenda dalla sua capacità di creare un discorso”.
Questa risposta mi sembra un buon punto d’ingresso per ragionare, ancora una volta, su spazio e posizionamento delle donne nella scrittura. Per questa occasione, ho posto ad alcune di loro delle domande su posizionamento, ricezione e apprendistato letterario: perciò scriverò anche usando le parole delle scrittrici italiane Marta Barone, Olga Campofreda, Sara Marzullo, Martina Merletti e Raffaella Silvestri.
Torniamo alla risposta di Rooney: trovo interessante che utilizzi il termine spazio (sia come space prima, che come room: dice proprio make a room for myself), motivo materiale e simbolico attorno cui Virginia Woolf scrive il saggio più famoso del Novecento dedicato alle donne che scrivono. In Una stanza tutta per sé, Woolf dichiara che una donna abbia bisogno “di denaro e di una stanza tutta per sé per scrivere”: entrambe condizioni che storicamente le sono mancate, non avendo la possibilità di guadagnare qualcosa né di emanciparsi dalla responsabilità primaria del lavoro di cura all’interno dello spazio domestico. La mancanza di queste condizioni ha plasmato la storia della letteratura delle donne, sia per quanto riguarda la loro assenza come scrittrici sia per la fisionomia della loro presenza. Le loro storie sono state scritte nei ritagli di tempo, nei diari o nelle lettere, nei salotti caotici e animati dal chiacchiericcio. Il motivo dello spazio apre anche il racconto del Premio Nobel Alice Munro Lo studio (in Danza delle ombre felici, 1968, pubblicato in Italia da Einaudi nella traduzione di Susanna Basso) in cui la protagonista comunica al marito quella che, stirando, le è apparsa come la soluzione alla propria vita: “Ho pensato che dovrei avere uno studio”. Lo spazio di cui queste autrici parlano è sia un luogo fisico che un dispositivo simbolico di riconoscimento sociale: intorno alla ricerca di questo spazio si costruisce la “autobiografia in movimento” di Deborah Levy, una divagazione sulla forma dell’autobiografia e sulla ricerca non solo teorica ma anche materiale di un posto in cui scrivere (che sia un capanno degli attrezzi o il Bene immobile che dà il titolo all’ultimo dei tre volumi, tutti pubblicati in Italia da NN nella traduzione di Gioia Guerzoni). Ma anche il saggio di Daniela Brogi Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022), che riflette su come la domanda di uno spazio non sia quella di un angolo dove nascondersi ma abbia invece a che fare con un posto da occupare e in cui contare come soggetti.
Rooney dice di sentirsi indesiderata nello spazio della letteratura, e probabilmente ha ragione, anche se ha successo e vende un sacco di copie. Lo so, è difficile tenere separate le cose, ma penso che il discorso sulla scrittura femminile tenga insieme più piani. Tra questi, ovviamente, c’è anche quello del mercato – che negli ultimi anni ha riconosciuto l’esistenza della scrittura femminile e ha attivamente lavorato per trasformarla in un prodotto. Non per questo agendo su una reale attribuzione di valore, anzi.
Sì, ma cosa si intende per “scrittura femminile”? Rachel Cusk in Le sorelle di Shakespeare (in Coventry, Einaudi 2024, traduzione di Nadotti e Pasqualetto) scrive che queste parole connotano “una letteratura che emerge e prende forma in un insieme di condizioni specificatamente femminili. Un libro non è un esempio di ‘scrittura femminile’ solo perché è scritto da una donna. Può diventare ‘scrittura femminile’ quando non avrebbe potuto essere scritto da un uomo”. Cusk procede dicendo che è probabile che una donna che scrive nel XXI secolo si senta piuttosto asessuata. “Non vuole né esprimere né negare: vuole solo essere lasciata in pace”, aggiunge. Rispetto al posizionarsi come female-writer e sul senso di questa etichetta ho chiesto un parere ad alcune scrittrici.
“Ho pensato spesso all’atteggiamento di molte scrittrici italiane novecentesche: dato che in italiano non esiste il neutro writer si autodefinivano scrittori per non sentirsi limitate, circoscritte, dentro a un luogo obbligato” mi dice Marta Barone, di cui mi interessa lo sguardo sincronico di scrittrice e quello diacronico sulla letteratura. Alle sue parole fa eco l’esperienza di Raffaella Silvestri, che ha studiato Filosofia di genere, scrive romanzi e articoli su diversi inserti culturali e cura la bellissima newsletter Velluto. “Una volta” racconta Silvestri “ho usato il termine female writer riferito a me stessa e un’autrice americana, di origine nigeriana e ghanese, me lo ha contestato, dicendo che writer non ha genere né in qualche modo identità. Ma mi sembra ovvio che fare esperienza del mondo come donna influisca su come e cosa scriviamo”. D’accordo anche Olga Campofreda, scrittrice, studiosa e curatrice del Miu Miu Literary Club, con cui porta avanti un discorso di riscoperta di quelle scrittrici che sono state espunte dal panorama culturale, e che peraltro osserva come lo stesso stereotipo della scrittura delle donne costruita su intimismo e relazioni amorose derivi dalla sfera sociale ridotta di cui storicamente le donne hanno fatto esperienza per secoli, essendo escluse dagli intrighi e dagli affari del mondo. “Cosa restava loro se non partire da se stesse e dalla propria esperienza personale, domestica, sentimentale?”. La consapevolezza di questa eredità comune deve metterci al riparo dalla tentazione di usarla come criterio per dare una supposta omogeneità alla categoria (che è, a tutti gli effetti, la tentazione in cui spesso incorre il marketing dei libri delle scrittrici). Le variabili di classe, eredità culturale, contesto (e anche quella anagrafica: essere giovani è un fatto nell’industria culturale, soprattutto in quella italiana) intervengono a sfaccettare il discorso, a sparigliare le carte. “Gli impliciti, gli spazi bianchi sono riempiti da me in modo diverso da come potrebbero essere riempiti da te”, mi dice Sara Marzullo, che scrive di genere (la lettura del suo libro Sad Girl. La ragazza come teoria ha nutrito molte delle mie riflessioni nell’ultimo periodo) . Ma quella del genere è una lente difficile da dismettere, segnala Martina Merletti (che oltre ad essere una scrittrice è anche la persona con cui parlo costantemente di posizionamento, ruoli di genere e in generale tutto ciò che ha a che fare con scrittura e legittimazione): “Nel momento in cui scrivo non mi identifico attivamente come female writer, ma con l’essere me. Il fatto stesso di essere io, però, vale a dire una donna che scrive, che io lo voglia o no, priva la mia voce di sicurezza, il mio essere me riempie gli spazi vuoti di domande sulla legittimità della mia voce di occupare uno spazio, pronunciarsi, asserire nel mondo”.
La legittimazione delle donne (e dello spazio che occupano o che vorrebbero occupare) è un tema che investe vari aspetti della vita politica, sociale, pubblica e si ripercuote nel campo della creatività come luogo di osservazione privilegiato della dinamica. È quello che Deborah Levy intende quando scrive “È faticoso imparare a diventare un soggetto, figuriamoci una scrittrice”. Se gli uomini godono storicamente di una legittimazione interna derivante dal loro ruolo predominante nel lavoro intellettuale e nella costruzione del mondo, il lavoro intellettuale delle donne è soggetto a una validazione esterna (la difficoltà di sentirsi parte di quello spazio di cui parla Rooney è una difficoltà di essere ritenuta degna). Inoltre, il lavoro intellettuale delle donne è stato sottoposto a quelli che Joanna Russ, nel suo saggio Vietato Scrivere (1983, pubblicato in Italia nel 2021 da Enciclopedia delle donne nella traduzione di Chiara Reali e Dafne Calegaro) definisce schemi ricorrenti che sono stati usati per soffocare la scrittura di queste ultime. Si tratta della negazione dell’agency (non lo ha scritto davvero lei: è stata aiutata), l’etichettamento di alcune esperienze come prive di valore (l’ha scritto lei ma è debole/poco interessante/sentimentale/noioso), l’isolamento o l’anomalia (l’ha scritto lei ma è un’eccezione). Ma perché usare il passato, quando è così facile riconoscerli anche nel presente? “Per un mio libro è stata utilizzata la parola paturnie. E ancora adesso alcuni usano autofiction come un insulto, come se l’elemento autobiografico sporcasse l’opera letteraria”, dice Silvestri quando le chiedo se abbia mai ricevuto dei commenti volti a svalutare la sua scrittura in quanto scrittura femminile. “Ho scritto un libro con la parola ‘Ragazze’ su una copertina rosa shocking. Ho sentito uomini dirmi frasi come ‘il tuo libro sembra interessante, lo prendo per mia sorella/cugina/moglie’”, risponde Campofreda, sottolineando come questo atteggiamento proceda nel solco del fenomeno per cui, a livello statistico, gli uomini leggono principalmente romanzi scritti da uomini o con protagonisti maschili, mentre le donne leggono di tutto. “Quello che è scritto da donne, al di là del contenuto, viene respinto nel mondo del sentimento. Nel momento in cui il sentimento sembra uno strumento importante di comprensione, le scrittrici godono di maggiore attenzione: ma questo non toglie che sia una visione connotata e volta a sminuirne il valore”.
Oltre alla legittimazione mi interessa come l’apprendistato di chi scrive sia legato a temi di visibilità, presenza, incontro con le altre autrici. Brogi annovera tra le varie tipologie di spazi che analizza la figura della mappa: facciamo una mappa ogni volta che contiamo, delimitiamo, facciamo una lista dei nomi presenti nei libri, nei dialoghi pubblici, nelle università, nelle scuole di scrittura. Mi colpisce che il termine mappa ritorni anche nelle parole di Campofreda, che scrive: “Sono cresciuta in una città senza una biblioteca. In libreria c’erano poche autrici sugli scaffali, a scuola il programma prevedeva la menzione di pochissime autrici. La mia formazione è stata una specie di caccia al tesoro senza mappa. Per molti anni mi sono sentita in una stanza, al buio, mentre a tentoni cercavo voci e storie che mi parlassero più da vicino del mio posto nel mondo”. Alla sua esperienza fa eco quella di Silvestri, che nel suo liceo di Milano ha letto moltissimi autori “e nella mia formazione, come un po’ tutte, ho assunto il male gaze. Anche se ho iniziato a definirmi femminista prestissimo, non facevo caso al fatto che leggevo solo uomini, era semplicemente la regola, il canone”. E anche Merletti parla di come ha “letto moltissimi uomini prima di rendermi conto che mi mancava la letteratura scritta dalle donne. Questa mancanza non ha fatto che rafforzare la paura di porre la mia voce al centro del discorso; e la cosa peggiore è che a lungo non ne sono stata consapevole”. Mi pare di registrare che negli ultimi anni questa situazione stia cambiando (penso a festival, premi per autrici, progetti editoriali su autrici del Novecento che vengono recuperate e inserite nuovamente nei cataloghi). La caccia al tesoro senza mappa si gioca allora in un terreno in cui “la possibilità di incappare in qualcosa viene moltiplicata”, dice Barone. E aggiunge Marzullo: “Per fortuna non bisogna chiedere il permesso a nessuno per leggere quello che si vuole, né per scrivere”.
È così, ma quanto è difficile aggirare il divieto, accordarci il permesso, combattere con la vergogna. Mi trovo a leggerci spesso combattute tra la paura di compilare dei collettivi cahier de doléances, aspirare alla validazione, isolarci in spazi alternativi. Forse il desiderio più profondo è quello di vederci, prima ancora di quello di essere viste.
“Rooney dice di sentirsi indesiderata nello spazio della letteratura, e probabilmente ha ragione, anche se ha successo e vende un sacco di copie. Lo so, è difficile tenere separate le cose, ma penso che il discorso sulla scrittura femminile tenga insieme più piani”.
Nelle aule della scuola di scrittura che ho frequentato, spesso echeggiava una citazione attribuita a Joseph Conrad, che dice “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. Per anni ho pensato che fosse perfetta per descrivere il cincischiare proprio del lavoro della scrittura. Solo negli ultimi tempi mi sono domandata: ma chi era la moglie di Conrad? Cosa faceva? Apparentemente, oltre a farsi spiegare cose dal marito, Jessie Conrad (nata George) aveva preso molto seriamente il suo ruolo di moglie di scrittore, occupandosi di battere a macchina le opere dell’uomo che aveva sposato. (La macchina da scrivere che usava le era stata regalata nel 1869 come dono di nozze da parte dell’editore di Conrad.) Ha anche scritto due memoir: entrambi dopo la morte del marito, entrambi dedicati alla sua relazione con lui.
Jessie Conrad mi fa pensare a Judith Shakespeare, la sorella del poeta sul cui destino Virginia Woolf si interroga in uno dei passaggi più famosi di Una stanza tutta per sé. Cosa le sarebbe successo, se il genio del fratello fosse sbocciato in lei invece che in William? Non scolarizzata, non ascoltata, derisa, sarebbe finita con l’uccidersi durante una notte d’inverno.
Ma questa non è una storia di fantasmi: Jessie Conrad e Judith Shakespeare non verranno a sedersi accanto a noi mentre digitiamo delle parole al pc. È però una storia di posizione: sta nel modo in cui ci sediamo, in cui occupiamo spazio, in cui formuliamo le frasi, in cui scegliamo le parole. Un testo non è mai solo un testo, è anche un contesto (e questo vale sempre, in ottica intersezionale). Essere una young female writer (sì, eravamo partiti da qui) ha delle evidenti implicazioni nella presenza di Rooney sulla scena pubblica: rende il suo lavoro, in questo preciso momento storico, un prodotto che funziona e insieme ne determina un problema di leggibilità e legittimazione. Tenere tutto insieme, sia quando scriviamo che quando leggiamo, è un esercizio difficile, una presa di posizione culturale. A Conrad ora preferisco Natalia Ginzburg, che dice “Scrivo le novelle, corro a scuola coi libri, perdo il tempo, mi pettino e mi spettino”. Ha tutta la forza e l’allegrezza che mi pare di cercare in egual misura nell’esercizio della scrittura.
Gabriella Dal Lago
Gabriella Dal Lago è autrice e scrittrice. Il suo ultimo romanzo è Estate Caldissima (66thand2nd, 2023).
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