Le sette malinconie di Lisbona - Lucy
articolo

Francesco Pecoraro

Le sette malinconie di Lisbona

Notoriamente Lisbona è ritenuta una città malinconica. A renderla tale è la luce atlantica che la illumina, ma non solo.

1. La luce

Giornate che paiono più lunghe del solito, molto più luminose: il riverbero dell’estuario del Tago si spande su tutta la città: cielo con nuvole basse, quasi una nebbia, e pioggerella finissima, anch’essa quasi nebbia rappresa, sole caldo che ogni tanto si fa vivo, e caligine di lontananze coi ponti che se ne vanno via e si perdono dall’altra parte dell’estuario tra colline, edifici moderni, gru. Se ti siedi al sole e al riparo del vento e guardi la città dall’alto percepisci tutta questa luce in più, tutta questa ridondanza di barbagli e riverberi che rimbalzano sulla superficie delle case, sulla pavimentazione in blocchetti di pietra chiara delle strade e dei marciapiedi, e si diffonde ovunque, ripartendo poi verso l’alto, dove trova l’albedo delle caligini e delle nubi, per poi tornare a piovere sulla città, sempre più opalescente e diffusa e astratta.

2. I granchi

Enormi granciporri atlantici—o tourteau o dormeur, come li chiamano i francesi—affastellati in vasche piene d’acqua sporca, opacizzata dal respiro agonico di animali che il destino ha portato qui, a morire soffocati nella vetrina di un ristorante di Lisbona, mentre stando sul marciapiede li osservi e te li pregusti freddo freddo senza provare la minima pena, perché quello per te è solo cibo e prelibatezza abbondante: ovunque in città si assiste a questa morte pubblica, esibita: ti avvicini al vetro dell’acquario velato di patine verdi e noti che sulla faccia dei granchi, per il resto assolutamente immobili, qualcosa si muove: bargigli che vibrano impercettibili e strane strutture buccali totalmente aliene che agitano leggermente il pulviscolo in sospensione nell’acqua: sono vivi, nonostante tutto. Lì accanto aragoste e astici con chele legate fanno la stessa fine, senza che nessuno possa salvarli e tu nemmeno ci pensi: per te, dicevo, sono crostacei che ti serviranno alla griglia in un grosso piatto di portata in acciaio inox: un trionfo di chele e di limoni: le patatine a parte. I giapponesi di passaggio sono semplicemente deliziati da questa abbondanza a un prezzo basso per noi e per loro addirittura risibile: li incontrerai di nuovo al mercato municipale intenti a una visita semiprofessionale ai banchi di pesce, col sorriso fisso sul volto, l’acquolina in bocca, supponi.

3. Le statue

Che sono dappertutto: sembra irresistibile per il portoghese di Lisbona l’attività di scolpire ed erigere statue e monumenti di re e personaggi consimili, conquistatori e scopritori, padri della patria, poeti e scrittori, pittori: su altissimi piedistalli e circondati da sculture di contorno, animali e piante e schiavi e iscrizioni di ogni tipo disposti ad arte, ma sempre enigmatiche, gente come Joao II e Manuel I e il marchese di Pombal e persino Pessoa – caso a parte di monumento colloquiale e bruttissimo, seduto al caffè Brasilia con un alto cappello in testa e rigido come un bacalhau, se si eccettua che davanti alla chiesa di San Rocco al Barrio Alto c’è un tizio di bronzo a grandezza naturale, ma con proporzioni bislacche, che ti porge un foglio di carta: ovunque insomma c’è qualcuno da celebrare e riverire, come se non fosse stato possibile, una volta costruita una piazza, non marcarne il centro con qualcosa di rilevante e cerimonioso o presunto tale, talvolta con qualcosa di pomposo e retorico e freddo. Altro caso a parte è invece l’orrendo e gigantesco monumento alle scoperte geografiche fatto costruire nel Sessanta da Salazar a Bélem: se togliete Vasco da Gama, Magellano e gli altri, e li sostituite con statue di operai e operaie con falci e martelli e libretti avrete un perfetto monumento sovietico a qualche valore della rivoluzione: il che dimostrerebbe ancora una volta, e ancora una volta non sarebbe vero (perché c’è retorica e retorica), che tutte le dittature alla fine producono la stessa merda monumentale.

“Enormi granciporri atlantici—o tourteau o dormeur, come li chiamano i francesi—affastellati in vasche piene d’acqua sporca, opacizzata dal respiro agonico di animali che il destino ha portato qui, a morire soffocati nella vetrina di un ristorante di Lisbona”.

4. L’impero perduto

Leggo che il Portoghese Standard oggi è parlato, oltre che in Brasile, nelle Azzorre, a Madera, in Angola, in Mozambico, ad Antigua, a Capo Verde, Guinea Bissau, Guyana, Timor, São Tomé, St. Vincent e le Grenadines, Suriname, la Giamaica, Macao, Malawi, Goa (India), le Andorre ed il Congo: quasi tutti posti ormai indipendenti da tempo. Questa perdita si percepisce e si vede: si percepisce sotto forma di nostalgia per quel passato di conquista e sfruttamento del nero e del giallo e del bruno, soprattutto dell’angolano, del mozambicano, le colonie perse più di recente, di cui è più fresco un sentimento complesso, fatto di nostalgia, rimorso, rabbia per ciò che si è commesso e per ciò che si è perso: si vede nelle sezioni dei musei dedicate all’oriente e all’africa e nei monumenti di quel tempo, ricchi e ridondanti come pochi altri, quasi stucchevoli nella volontà di esibizione di ricchezza e sfarzo in una sorta di marginalità culturale. La si percepisce anche in quelli che mi paiono i continui svarioni sintattici che questa esibizione contiene: per esempio le follie cinquecentesche e manueline del Monastero di S. Geronimo a Bélem (che non è dedicato al capo apache, ma a san Gerolamo, per il quale in Lisbona pare ci sia un culto speciale), in un gotico non solo attardato, ma sostanzialmente re-inventato e pieno di errori, così come è pieno di errori l’episodio rinascimentale del coro della chiesa – e però progettato da un architetto italiano, anche lui non proprio bravo. Tutte cose che dimostrano, per dire, che quando diventi ricco in tempi brevi soffri a tutti gli effetti di sindrome del parvenu, cioè che non sai bene come dimostrare ed esibire la tua ricchezza e sbagli pesantemente strisciando nel cattivo gusto finché l’agio e lo studio non risollevano le successive generazioni: cosa che qui a Lisboa pare succeda solo nel Settecento col Divino Marchese (di Pombal).

5. Le avenidas

Non sempre lunghissime – qui malinconiche perché in decadenza – e così tipiche della penisola iberica – strutturano le espansioni otto-novecentesche della città, parrebbe, in una fame di darsi al grandioso, che però sembra soffrire di poca vita, di troppo vuoto: le avenidas sembrano feste apparecchiate e pronte per accogliere un sacco di gente che però non è venuta tutta e dunque il buffet resta parzialmente intonso e gli addobbi sembrano ridondanti e l’allegria – la solennità – risulta alla fine un po’ forzata e malinconica: bella l’Avenida della Libertade, ma anch’essa un po’ morta, con la sostituzione in atto, ma non a ritmo accelerato, della primitiva architettura liberty con palazzoni nell’international style attuale, cioè in stile post-modernoide: ed è proprio quello che chiamerei il modernoide dei tempi di Salazar, ovvero il modernismo salazarista, ad essere sommamente malinconico, nel suo sussurro che parla dei tempi grigi di un regime fascistico durato dal 1926 al ’68, cioè ben 42 anni, e finito con la delizia inaspettata della Rivoluzione dei garofani del ’74, inedita sollevazione militare non-violenta: decine, centinaia di edifici fermi a uno stile che si direbbe un déco epurato di ogni invenzione e bizzarria e leggerezza e ricondotto nell’alveo sordo di una modernità malintesa e non capita, non accettata e soprattutto in tempi salazariani guardata con sospetto. Le avenidas sono piene di questa architettura non-moderna, testimonianze non-morte di qualcosa di indefinibile che ancora senti operante nella città: quarant’anni di regime lasciano segni profondi: anche se ovunque si leggono le tracce dei tempi precedenti e di quelli successivi, come nell’area della Fiera del ’98, mi pare, dove la volontà di moderno (Calatrava, Siza, Foster, ecc.) si esprime come una sorta di forma simbolica, di pietra sul passato, di ingresso in Europa e nella contemporaneità: insomma di cose di questo genere, basate solo su percezioni azzardate, se ne possono dire tante. 

6. Bacalhau

Ovunque leggi sui menu che se vuoi puoi mangiarti un bel piatto di bacalhau asado, alla griglia, oppure cucinato in altri modi, fritto, per dire, con o senza patate: sapore sordo e uniforme, sapido e vagamente malsano, come di una putrefazione arrestata sul nascere ma pur sempre iniziata: bacalhau, o come cazzo si scrive, servito in porzioni monumentali che è impossibile finire, per sazietà ma soprattutto per la noia di un sapore privo di sfumature: eppure si sa che col baccalà bisogna sbizzarrirsi con uvette e pinoli e manteche che qui difficilmente trovi nei: poi vai a vedere lo splendido oceanario di Lisbona, costruito di recente all’Expò ’98 e contemplando l’immensa meravigliosa vasca centrale dove nuotano pesci enormi e bellissimi, vedi il bacalhau che pure nuota, il bacalhau vivo, il merluzzo, che ti guarda dall’altra parte del vetro: è uno strano pescione malinconico lungo quasi un metro di colore biancastro-rosato e l’aria malaticcia, svagata, istupidita: ma è pur sempre una creatura vivente, mentre siamo abituati a considerarlo solo cibo e nemmeno dei migliori: nuota assieme ad altri pesci ben più interessanti & vigorosi & dotati di lui: tonni e ricciole, barracuda, squali, cernie e mante, ombrine e corvine e orate e saraghi e dentici, enormi salmoni, di tutto insomma: lui, il bacalhau sembra più lento degli altri, appare smarrito in mezzo a tanta forza e bellezza: poi ti siedi a vederti un video che illustra come si nutrono e si curano i pesci e vedi uno di questi merluzzi-bacalhau che subisce un’operazione chirurgica per l’asportazione di un nodulo sospetto a fior di pelle: gli fanno l’anestesia con dei tubicini, lo operano rapidamente, lo ricuciono, lo rimettono in acqua. Stupefacente: la città è piena di questi animali morti seccati e salati e affumicati, mummie rigide che pendono dappertutto e puzzano di andato-a-male-con-sale e qui invece ce ne sono due o tre vivi portati in palma di mano, curati, analizzati, disinfettati, anestetizzati perché non provino dolore, operati addirittura.  

Le sette malinconie di Lisbona -

7. Azulejos

Soprattutto all’Alfama: amato dai turisti e quindi anche da me, come summa del pittoresco lisbonese con vista sul Tago e bottegucce infime, trattorie famigliari, negozietti di turismo e tramvetti mitici, piccolissimi, che si inerpicano su pendenze tremende, intorno al 12%-15%, si direbbe (l’8% è il max per i disabili) e soprattutto scale: dunque sudi e ti affanni nella malinconia dell’Alfama e del suo délabré un po’ troppo prevedibile e annunciato da guide e manifesti e film di Wenders: ti piace, non può non piacerti, è essenza di saudade lisbonica, in una mescolanza di tratti stilistici e forme di derivazione la più varia ed esotica: i gialli, i bianchi e soprattutto gli azzurri degli azulejos, le macchie di verde degli alberi: qui la città è come un organismo non molto vitale e privo di idee su se stesso, su quello che vuole essere o diventare: si direbbe adagiata nell’oblio, non come l’illuminismo francese della Baixa di Pombal, del Barrio Alto, o come la città prospettica dei palmizi delle avenidas e di Salazar: l’Alfama è davvero Lisbona allo stato puro, se questa parola ha un senso, e forse non ce l’ha. Qui la città pare andare alla deriva, lontano da ogni possibile modernità, allontanarsi, attardarsi a contemplare la pozza immensa di luce dell’estuario del Tago e i ponti lontani, mangiati dall’abbaglio: la settima malinconia ritorna al punto di partenza, cioè alla vera essenza di questi luoghi: la luce atlantica.

(Appunti di un viaggio del 2011 recentemente rielaborati).

Francesco Pecoraro

Francesco Pecoraro è architetto, poeta, scrittore. Il suo ultimo libro si intitola Solo vera è l’estate (Ponte alle Grazie, 2023).

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