L'inquietante ascesa delle influencer virtuali - Lucy
articolo

Andrea Daniele Signorelli

L’inquietante ascesa delle influencer virtuali

05 Marzo 2024

Hanno milioni di follower sui social e lauti contratti con i brand. Hanno una storia, uno stile, dei valori. Eppure non esistono davvero: sono modelle digitali generate al computer, sempre più simili a noi e proprio per questo sempre più stranianti. Oggi sono al centro di molte discussioni: si teme la manipolazione degli utenti, l'iper-sessualizzazione, il rafforzamento di alcuni stereotipi. Qual è il loro futuro?

Nel video del suo singolo d’esordio, Love Communication, porta i capelli castani corti, indossa un top a righe bianche e nere e un paio di pantaloncini aderenti. La vediamo ballare per le strade di New York e cantare in uno studio di registrazione. Tutto normale, se non fosse che la cantante, Kyōko Date, è la prima pop star digitale della storia. 

Creata nel 1996 dalla talent agency giapponese HoriPro, Kyōko venne generata interamente attraverso la computer grafica – e nel video sembra in effetti uscita da un videogioco della Playstation di quegli anni. L’aspetto era quello di una ragazza di sedici anni e, nelle interviste per i giornali, era lei stessa a raccontare la sua storia familiare, i suoi ricordi e i suoi sogni. Incise un paio di album e comparve in qualche altro video, senza, a onor del vero, riscuotere troppo successo. Ma dopo il suo debutto, i programmatori che l’avevano creata dimostrarono di vederci lungo: “Nel giro di pochi anni, la tecnologia permetterà alle celebrità virtuali di apparire in TV e di chiacchierare con chiunque”.

C’è voluto più tempo del previsto, ma il percorso iniziato da Kyōko Date sta ormai giungendo a conclusione: le celebrità virtuali – oggi soprattutto nella forma di influencer attivi su Instagram – stanno gradualmente invadendo il mercato, conquistando in parecchi casi centinaia di migliaia di follower, a volte milioni.

Lil Miquela, per esempio, esiste dall’ormai lontano 2016 ed è una statunitense di origine brasiliana: di professione cantante e attivista per i diritti sociali, può vantare collaborazioni con marchi come BMW e Prada. L’ultima arrivata è invece Emily Pellegrini (i cui creatori sfruttano la tecnologia dei deep fake per farla apparire anche in video): si presenta come “digital influencer”, ha 23 anni e vive a Los Angeles. Aitana Lopez è invece spagnola, nella sua bio su Instagram dichiara una passione per i videogiochi e per il fitness, ma si fa notare soprattutto per le sembianze talmente verosimili da non rendere immediatamente riconoscibile la sua natura sintetica. E poi incontriamo la supermodella Shudu Gram, la fashion influencer giapponese Imma e tantissime altre.

Quasi sempre di aspetto femminile e dotate di un background narrativo più o meno approfondito, le circa cento celebrità virtuali dotate di un nutrito seguito sui social media hanno, nella maggior parte dei casi, l’unico scopo di diventare testimonial di brand e far così guadagnare le agenzie che le hanno create.

D’altra parte è la stessa cosa di cui si occupano gli influencer in carne e ossa, che – a differenza dei creator, che producono contenuti social di vario tipo in veste di divulgatori, comici, gamer, autori di tutorial e altro ancora  – prestano esclusivamente la loro immagine per promuovere marchi, servizi o prodotti. E per loro, infatti, la concorrenza portata delle controparti digitali è sempre più invasiva: secondo i dati Grand View Research, l’industria degli influencer virtuali vale ormai 3,6 miliardi di dollari all’anno, circa il 17% dei 21 miliardi di dollari generati nel complesso da questo settore.

L’ascesa degli influencer virtuali sta creando parecchi risentimenti tra quelli tradizionali, che lamentano una forma di concorrenza sleale: soprattutto quando la loro origine artificiale non è immediatamente riconoscibile. Ma né le agenzie responsabili della loro creazione – tra cui la spagnola The Clueless, la statunitense Brud o la giapponese Aww – né tantomeno i brand, che utilizzano questi personaggi pixelati anche per la creazione di tradizionali spot pubblicitari, sembrano curarsene più di tanto.

I vantaggi di affidarsi a un influencer virtuale, d’altra parte, sono molti. Prima di tutto, c’è la questione economica: per quanto Lil Miquela, dall’alto dei suoi 2,6 milioni di follower, abbia tariffe in linea col mercato (circa 8mila dollari per post sponsorizzato), gli influencer virtuali sono generalmente più economici e permettono – soprattutto quando si tratta di promuovere alberghi, spa, ristoranti, negozi, eccetera – di tagliare i costi legati ai trasporti, all’ospitalità, allo staff e tutto il resto. Come ha spiegato Diana Núñez di «The Clueless», “eravamo stupefatte da quanto le tariffe stessero salendo alle stelle. E questo ci ha fatto pensare: e se ci creassimo la nostra influencer?”.

Altrettanto importante è la possibilità di controllare ogni aspetto degli influencer virtuali: “La ‘personalità’ di questi influencer è costruita da sceneggiatori che si inventano interi retroscena per dotare le azioni dei personaggi di una motivazione coerente”, si legge in una lunga analisi sul sito di marketing «The Drum». “Contestualmente, ogni immagine viene faticosamente renderizzata e inserita all’interno di fotografie già esistenti, in modo che il personaggio in questione possa sempre trovarsi dov’è richiesto. Ogni influencer viene inoltre fornito di un ciclo di vita: un arco narrativo che il team può usare per renderli più coinvolgenti per i loro follower”.

“L’ascesa degli influencer virtuali sta creando parecchi risentimenti tra quelli tradizionali, che lamentano una forma di concorrenza sleale: soprattutto quando la loro origine artificiale non è immediatamente riconoscibile”.

Dudley Neville-Spencer della Virtual Influencer Agency ha spiegato di pianificare sempre almeno cinque anni di storia dei suoi personaggi, spezzettando poi questo ciclo in momenti più brevi, di circa tre mesi, durante i quali per esempio vivono una relazione romantica, affrontano una gravidanza o prendono parte a un lungo viaggio. L’obiettivo è inserire le campagne pubblicitarie all’interno di determinati momenti della vita del virtual influencer, sempre con l’obiettivo di aumentare il coinvolgimento dei follower.

Questi personaggi inoltre non invecchiano, possono essere lo stesso giorno a New York e a Dubai, e sono in grado di parlare qualunque lingua. Soprattutto, sono controllabili in ogni loro azione, post e parola. È il sogno di tutti i brand: arruolare testimonial che non commettono mai errori, non fanno dichiarazioni imbarazzanti, non finiscono al centro di polemiche o scandali (mentre, da Kanye West a Chiara Ferragni, l’elenco di aziende che hanno dovuto cancellare i contratti di sponsorizzazione dopo qualche scivolone di un loro testimonial è ormai molto lungo).

Ma le cose non sono semplici come potrebbero sembrare. È sempre Lil Miquela a offrire un paio di esempi interessanti. Il primo risale al 2019, quando lei e la modella in carne e ossa Bella Hadid si scambiarono un bacio in uno spot promozionale di Calvin Klein, suscitando accuse di “queer bating” – ovvero accattivarsi l’audience LGBT+ come pura tecnica di marketing – e costringendo l’azienda statunitense alle scuse. Nello stesso anno, sempre Miquela si trovò al centro di altre polemiche quando, in un video pubblicato sul suo canale YouTube, raccontò di aver subito una violenza sessuale. Una scelta a dir poco discutibile da parte della sua agenzia, vista la zona grigia narrativa – a metà strada tra fiction e reality show – in cui queste figure si muovono.

Per quanto gli influencer virtuali possano sembrare infallibili, lo stesso non può insomma dirsi di chi crea loro e le loro storie. Come ha spiegato Jenny Quigley-Jones, fondatrice dell’agenzia di influencer (reali) Digital Voices: “I marchi possono avere controllo su ogni dettaglio della singola campagna di un influencer virtuale, ma ciò alleggerisce solo alcune preoccupazioni: il team dietro ai virtual influencer è infatti composto da esseri umani, spesso designer che cercano di farsi notare. . Di conseguenza, non si può essere certi che un virtual influencer sia privo di rischi e complicazioni per i brand che decidono di servirsene”. 

L’agognato controllo si rivela insomma minore rispetto alle speranze delle agenzie e dei brand. E rischia di ridursi ulteriormente perché una parte sempre maggiore del lavoro di scrittura dei personaggi – soprattutto a livello di interazione con i follower – viene già affidata all’intelligenza artificiale generativa, con l’impiego di Large Language Model in stile ChatGPT sia per rispondere ai follower, sia per generare le didascalie dei post su Instagram.

Una strategia comprensibile se l’obiettivo è quello di aumentare le interazioni e semplificare il lavoro, ma che rischia di rivelarsi un boomerang: per loro natura, i Large Language Model sono solo parzialmente controllabili e, nonostante tutti i vincoli e le barriere poste dai programmatori, in tantissime occasioni generano interazioni spiacevoli se non addirittura pericolose – come nel recente caso del chatbot che ha consigliato a una persona in cerca di supporto psicologico di “farla finita”.

Non solo: i chatbot tendono a imparare dalle interazioni con i follower, con conseguenze imprevedibili. Nel 2016 Tay, il chatbot di Microsoft lanciato su Twitter, venne chiuso in meno di 24 ore: a causa delle eccessive interazioni con dei troll, aveva iniziato a pubblicare raffiche di post razzisti, nazisti, sessisti, ecc. In questi anni le tecnologie dietro ai chatbot sono state raffinate, ma la storia di Tay resta un monito per chiunque voglia affidare i propri influencer virtuali all’intelligenza artificiale. 

C’è un altro aspetto problematico legato all’utilizzo dell’intelligenza artificiale: la capacità dei sistemi generativi di creare immagini e video in cui compaiono personaggi digitali talmente verosimili da non essere immediatamente riconoscibili come tali. È il caso della sorprendente verosimiglianza della già citata Aitana: “Gli utenti non riescono a credere che sia finta”, hanno spiegato le fondatrici dell’agenzia The Clueless. “Riceve 300 messaggi al giorno da parte di persone che vogliono conoscerla dal vivo”.  

L’inquietante ascesa delle influencer virtuali -

Una situazione simile si è verificata anche nel caso di Emily Pellegrini, forse la prima influencer virtuale a fare un massiccio uso di video invece che di fotografie e con la quale, stando alle dichiarazioni del suo anonimo creatore, avrebbero cercato di entrare in contatto parecchi VIP. Si tratta di dichiarazioni impossibili da verificare, ma nemmeno implausibili.

Con il varo nell’Unione Europea dell’AI Act, i contenuti generati con l’intelligenza artificiale ma non segnalati come tali diventeranno illegali. Viene da chiedersi quale possa essere la reazione degli utenti che, all’improvviso, si accorgeranno che l’influencer che pensavano reale è invece creata al computer. “Ci troviamo nel bel mezzo della Uncanny Valley”, ha spiegato durante un evento dal vivo Lore Oxford, esperta di culture digitali, citando la teoria secondo cui il disagio dell’essere umano nel rapportarsi con entità artificiali cresce proprio al crescere della loro verosimiglianza. 

“I brand lavorano con gli influencer per inserirsi nel rapporto che hanno con la loro audience”, ha spiegato a Digiday Brian Yamada, responsabile innovazione per l’agenzia VMLY&R. “Non so se abbiamo ancora visto un influencer virtuale che possiede questa qualità”. In poche parole: con gli influencer virtuali viene meno ogni aspetto di genuinità, sappiamo che le loro storie sono create a tavolino. Come possiamo sentire quella connessione che normalmente si sviluppa tra gli influencer umani e il loro pubblico? Siamo in grado di appassionarci alle vicende inventate di celebrità social finte?

Una delle principali ragioni del successo dei veri influencer è legata alla loro capacità di mettersi in scena, permettendo ai follower di sbirciare nella loro quotidianità personale e familiare e avere così almeno la sensazione di essere parte della loro quotidianità. Il successo di Chiara Ferragni (e di Fedez) su Instagram non sarebbe mai stato lo stesso se non avessero consentito ai follower di seguirli mentre mettevano su famiglia e crescevano i loro figli, traslocavano in una nuova casa, si riunivano con i parenti per le feste, e così via.

Di tutto ciò, ovviamente, sono consapevoli anche le agenzie che si occupano di influencer virtuali e che infatti, come abbiamo visto, lavorano parecchio sulla costruzione delle biografie e sugli archi narrativi: Plusticboy (uno dei rarissimi casi di influencer virtuali di sembianze maschili) racconta per esempio su Instagram la sua amicizia con la collega Imma (qui sono entrambi ritratti in compagnia del DJ Steve Aoki) e interagisce con lei nella sezione dei commenti, allo scopo di creare una storia che i follower possano seguire in tutte le sue evoluzioni. 

“Per quanto queste storie siano di fantasia, il tentativo è sempre di renderle quanto più realistiche possibili, al fine di aumentare l’accettazione da parte dei follower”, si legge in uno studio pubblicato su «Nature» che analizza il modo in cui queste figure vengono costruire, la forma che assumono e la loro efficacia promozionale. Può davvero funzionare? Fino a questo momento, siamo stati abituati a consumare storie che erano o fiction o non-fiction (faccio rientrare in quest’ultimo ambito anche reality show ampiamente sceneggiati, come quelli con protagonista la famiglia Kardashian): le storie degli influencer virtuali sembrano cadere in una sorta di straniante limbo.

Nel 2019, una ricerca di «MarketingWeek» riportava che per il 61% dei consumatori l’autenticità (o presunta tale) sia il principale motivo di interesse nei confronti degli influencer umani. È un elemento evidenziato più recentemente anche nello studio pubblicato su «Nature»: “Gli influencer virtuali sono efficaci nel dare forma all’immagine di un brand, ma a essi manca il potere persuasivo in grado di motivare le intenzioni di acquisto, a causa dell’assenza di autenticità e delle deboli relazioni parasociali con i loro follower”.

“Una delle principali ragioni del successo dei veri influencer è legata alla loro capacità di mettersi in scena, permettendo ai follower di sbirciare nella loro quotidianità”.

Se le cose stanno così, a cosa è dovuto il recente ritorno in pompa magna degli influencer virtuali? Probabilmente, la fiammata d’interesse degli ultimi mesi è legata più che altro alle possibilità offerte dall’intelligenza artificiale, che ha permesso di creare figure ancora più verosimili di qualche tempo fa, protagoniste per la prima volta di video quasi indistinguibili da quelli reali e con le quali sta rapidamente diventando possibile anche dialogare. Gli studi e i dati mostrano però come la loro natura artificiale rischi di essere un limite insormontabile, che crea inevitabilmente una distanza con gli utenti proprio in un campo in cui la sensazione di vicinanza tra influencer e follower è un elemento imprescindibile. L’interesse nei confronti degli influencer virtuali, insomma, potrebbe col tempo svanire.

L’unica rilevante eccezione sembra essere Lil Miquela: avendo conquistato 2,6 milioni di follower dopo l’enorme attenzione generata dal suo avvento, Miquela è ancora oggi in grado di conquistare collaborazioni di primissimo piano (lo spot con la BMW è di quest’anno). Nella maggior parte dei casi, però, come segnala ancora il «New York Magazine», “l’influenza di questi personaggi è limitata e inestricabilmente legata alla metanovità di tutta l’industria”.

Su cosa possono puntare le agenzie creative che su questo settore hanno scommesso per limitare i rischi di obsolescenza? I due più recenti casi di influencer virtuali in grado di conquistare centinaia di migliaia di follower e i titoli delle testate online sembrano offrire una risposta tristemente prevedibile: la sessualizzazione.

Sia Aitana sia Emily Pellegrini non solo rispondono a canoni estetici esasperati, ma vengono costantemente mostrate in lingerie, abiti provocanti, ecc. “Non è un caso che il loro maggior successo sia su Instagram, ovvero una piattaforma estetica e aspirazionale”, ha spiegato sempre Jenny Quigley-Jones. “I virtual influencer non rappresentano necessariamente uno sviluppo positivo per la salute mentale degli utenti social, dal momento che possono avere forme fisiche idealizzate e conformi a standard di bellezza irrealistici” (che è esattamente il caso di Aitana ed Emily Pellegrini).

Lil Miquela, che è stata una delle prime influencer virtuali, impersona una ragazza socialmente attiva, non sessualizzata, non bianca e che fornisce un’immagine diversa rispetto allo stereotipo della celebrità social. Ma, come spiega ancora Quigley-Jones, “per quanto molti creatori di influencer virtuali possano prestare attenzione alla diversità, subiranno inevitabilmente pressioni finanziarie per produrre influencer virtuali più stereotipate”. I creatori delle più recenti Emily Pellegrini e Aitana sembrano averlo capito. Quando accuse di questo tipo sono giunte proprio alle fondatrici di The Clueless, loro hanno risposto dicendo che “la sessualizzazione è prevalente anche tra modelli e influencer reali” e che le loro creazioni “non fanno che rispecchiare queste pratiche consolidate senza deviare dalle norme attuali del settore”.

Gli influencer virtuali per molti versi esasperano quelle che già oggi sono le contraddizioni e i limiti di figure “famose per il fatto di essere famose”, spesso accusate di scarsa  genuinità, di un’eccessiva esibizione del proprio corpo e le cui collaborazioni con i brand non sono il risultato di una notorietà conquistata per altri meriti (come avviene con sportivi, cantanti, attori, ecc.), ma la loro stessa ragion d’essere.

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Probabilmente, poiché la figura degli influencer è in larga parte assimilabile a quella di un prodotto, si è pensato di poterli sostituire con dei prodotti veri e propri. È uno strano cortocircuito: fin qui ci è venuto spontaneo cercare una connessione con le vite di esseri umani che si propagandano come genuine ma che sappiamo essere guidate da un alto tasso di artificiosità. E invece non riusciamo a superare la barriera che ci impedisce di affezionarci a esseri artificiali che cercano il più possibile di somigliarci. 

Sul breve termine il gioco potrebbe anche funzionare e la novità esercitare curiosità e fascino. Ma tra vantaggi meno evidenti del previsto, rischio di manipolazione degli utenti e – soprattutto – la distanza che ancora avvertiamo (e forse sempre avvertiremo) nei confronti di questi simulacri digitali di esseri umani, il successo degli influencer virtuali potrebbe invece avere vita breve.

Andrea Daniele Signorelli

Andrea Daniele Signorelli è giornalista e collabora a diverse testate tra cui: «Domani», «Wired», «Repubblica», «Il Tascabile». È autore del podcast Crash – La chiave per il digitale.

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