Lorenzo Gramatica
02 Settembre 2025
Benny Safdie, senza il fratello, realizza un riuscitissimo film sul wrestler Mark Kerr, con una grande prova d’attore di The Rock.
Sarebbe corretto – pure se improprio in senso architettonico – ribattezzare il Lido di Venezia durante i giorni della Mostra del Cinema “Fondamenta dei miserabili”. Malcostumi e angherie varie che a fatica tollereremo nella nostra vita di tutti i giorni, qui si accettano per sfinimento o anche solo per mancanza di tempo ed energie: se tutti ribattessero riottosamente a chi cerca di superarli in coda alle proiezioni, al bar, fuori dai bagni, si finirebbe per ripopolare il manicomio di San Servolo. Vige la legge del più stronzo, del più esasperato (particolarmente patetico è assistere alle corse forsennate per accaparrarsi un posto buono in sala: gente che scivola, che spinge, che tiene due, tre, quattro seggiolini agli amici). Al vecchio giornalista romano in braghe corte che alza il gomito come un centravanti di provincia per arrivare per primo ai pisciatoi a muro della sala stampa, si vorrebbe ricambiare la scortesia con una body press da wrestler, lasciandolo a sgocciolare per terra con la sua prostata malconcia. “C’ero prima io!” – d’altronde, Io, diceva Gadda, è il più lurido di tutti i pronomi.
Ma se il buonsenso impedisce di compiere vendette così drastiche, c’è spesso una vaga consolazione nella violenza agita sullo schermo. Quella di The Smashing Machine, primo film di Benny Safdie non in coppia col fratello Josh, non ha però nulla di liberatorio o di autocompiaciuto. Il film, in concorso, racconta tre anni decisivi – dal 1997 al 2000 – nella vita di Mark Kerr, wrestler americano tra i pionieri della UFC e nome di punta della lega giapponese Pride che, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, è stata la più prestigiosa e remunerativa per le arti marziali miste. Ribattezzato, per l’appunto, “The Smashing Machine”, Kerr ha avuto una carriera straordinaria e parecchio altalenante, a causa di una forte dipendenza dagli oppiacei che ha rischiato di ucciderlo e della relazione travagliata, intensa e non priva di morbosità con la compagna, poi moglie per qualche anno, Dawn Staples. 191 per 116 chili di muscoli ipertrofici, eccellente nella lotta libera e quindi nel grappling, Kerr nei momenti migliori era solito sbaragliare gli avversari in pochi minuti; questa sua presunta imbattibilità lo porterà a vivere con incredulità e doloroso disorientamento le sconfitte che, quasi inevitabilmente, toccano anche agli atleti più talentuosi e dominanti (nel film, a un giornalista che gli chiede cosa significhi perdere, Kerr, incapace di afferrare il senso della domanda, risponde: “Non so proprio cosa dirti, non ho mai perso”).
Il film racconta la veloce ascesa presto interrotta di Kerr, dagli esordi del 1997 nella UFC fino al Pride Fighting Championship del 2000. Dipendenza affettiva e dalle sostanze, fallibilità e difficoltà nell’accettazione della stessa sono i temi sui quali Safdie ha lavorato per assemblare The Smashing Machine, senza indugiare nella retorica a volte pomposa e spesso gratificante per lo spettatore a cui le storie di esaltazione e/o redenzione sportiva si prestano con facilità.
Già nel 2019 Benny Safdie – che negli ultimi anni ha sempre più affiancato alla carriera di regista e sceneggiatore quella di attore, con Claire Denis, Christopher Nolan, Nathan Fielder tra gli altri – assieme a Dwayne Johnson (The Rock) e alla sua casa di produzione – la Seven Bucks, che ha prodotto il film con A24 e a Out For the Count – aveva acquistato i diritti della storia di Kerr: inevitabile, per il suo passato da wrestler e per la fisicità imponente, che Johnson fosse sin da subito l’attore più adatto a interpretare il protagonista. In un’intervista a «Variety», un entusiasta Safdie racconta di aver mandato a Johnson una felpa del brand Nautica indossata nel 2022 da Kerr, assieme a una lettera nel quale lo blandiva, designandolo come l’unico in grado di interpretarlo – Johnson sostiene però di non aver mai ricevuto il regalo; pazienza, il film si è fatto lo stesso.
Sbrigativamente, ma non senza una vaga esattezza, è facile trovare affinità tra la performance di Johnson e quella di Mickey Rourke, che nel 2008 interpretò per Darren Aronofsky un lottatore sul viale del tramonto in The Wrestler, in concorso proprio qui alla Mostra e vincitore del Leone d’Oro (sorprendentemente però senza Coppa Volpi né Oscar per Rourke). Se l’ambizione attoriale è simile (anche Johnson può concorrere con merito alla Coppa Volpi e di certo spera negli Oscar), è più difficile qui l’esercizio di sovrapposizione tra attore e personaggio che nel caso di Rourke e della storia di rivalsa cucitagli addosso dal regista, conferiva particolare fascino e partecipazione alla sua interpretazione; che Johnson, solido caratterista di blockbuster, autoironico e capace di sfumature comiche non banali, fosse in grado di interpretare efficacemente il protagonista in un film di questa caratura, presentato a Venezia e diretto dalla metà di un duo di autori tra i più talentuosi al mondo, era tutto da dimostrare.
Dwayne Johnson è molto bravo e in parte: capelli neri a corti boccoli sulla crapa solitamente pelata, l’espressione ora malinconica, ora determinata, gli occhi placidi ma capaci di accendersi in un furore di luciferino agonismo; una misura nella recitazione che era difficile immaginare possedesse.
Nelle interazioni bizzose, ora violente ora romantiche con Dawn, interpretata da Emily Blunt, la tenerezza, fragilità e pacatezza di questo omone che vorrebbe, come dice nella scena che apre il film, “soverchiare fisicamente con la volontà” i suoi avversari, emergono senza manierismi e prevedibilità: ecco Kerr che nel mezzo di una lite domestica si alza portando con sé il piatto dal quale stava mangiando; è lucido e inquieto, esibisce una tranquillità che non inganna nessuno, e che quel piatto voli e si infranga al muro è aspettativa certa di chi guarda; con studiata lentezza, Kerr appoggia il piatto e sfonda invece una porta con la noncuranza di chi solleva un bicchiere d’acqua.
Nel rapporto con l’allenatore Bas Rutten (ex lottatore che qui interpreta se stesso) e in quello con l’amico, collega e mentore Mark Coleman (Ryan Bader) c’è l’affettuoso riconoscimento tra simili di chi condivide un mestiere eccitante, inebriante ma dove la paura della morte – e quindi la compassione – è un esercizio quotidiano: omoni, affratellati nel destino periglioso, che si abbandonano al pianto e cercano nell’abbraccio del proprio simile conforto. Un rapporto tra uomini che finisce inevitabilmente per escludere le donne; di questo, anche, Dawn si cruccerà molto, non sentendosi indispensabile al compagno.
Il merito di questa interpretazione di grande valore è certo di Johnson, ma anche di una scrittura e di una regia anti-retoriche, che disattendono le aspettative che film come questo generano solitamente nello spettatore, pure portandolo a credere – ma assieme instillandogli il dubbio – nel completo riscatto e nella vittoria, sentimentale e sportiva, del protagonista. Anche la colonna sonora originale della musicista belga Nara Sinephro – un costante rumore di fondo, un jazz ronzante, come di una mosca musicalmente dotatissima – concorre largamente al raggiungimento di questa enfasi interrotta. Con una certa spensieratezza, Benny Safdie riprende, liberandoli dalla gabbia in cui la reiterazione e l’usura li hanno confinati, alcuni elementi più attesi e stereotipati di questo cinema di redenzione e sofferenza: la doccia finale, sulle note di una bellissima canzone dei Cleaners From Venus, ne è un buon esempio, così come la “citazione ribaltata” della celebre scena della scalinata di Rocky.
“Il merito di questa interpretazione di grande valore è certo di Johnson, ma anche di una scrittura e di una regia anti-retoriche, che disattendono le aspettative che film come questo generano solitamente nello spettatore”.
Più che un convincente film sulle arti marziali miste – cosa che senz’altro è, e che troverà l’apprezzamento dei tanti appassionati di MMA, ai tempi sport molto più avversato, impopolare e discusso di quanto non lo sia oggi – The Smashing Machine è un film per nulla consolatorio sui rapporti umani, sulle torsioni e ambiguità che li attraversano, e sulla tragica e patetica – nel senso: capace di ispirare compassione – strada che porta ad accettare il fallimento. Un tema, quello della sconfitta, che accompagna i fratelli Safdie sin dagli esordi: proprio qui a Venezia nel 2013, nella sezione Giornate degli Autori, i due presentarono un documentario su Lenny Cooke, uno dei più grandi talenti mancati del basket americano, che ebbe la sfortuna di incontrare sulla sua strada Lebron James.
The Smashing Machine meriterebbe un premio, probabile che venga preso in considerazione dalla giuria presieduta da Alexander Payne. Tra le altre cose, gli appassionati di sport di combattimento potranno apprezzare l’esordio da attore di Oleksandr Usyk, campione unificato dei pesi massimi di boxe e uno dei più grandi talenti di sempre, forse, nella storia di questo sport: qui interpreta l’ex lottatore ucraino Ihor Vovčančyn.
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