Andrea Cortellessa
07 Gennaio 2025
All’apparenza depistante e menzognero come pochi altri scrittori, Giorgio Manganelli ha in realtà repertoriato nella sua opera tutti i propri incubi e le sue personalissime nevrosi: senza mai, però, riuscire del tutto a superarli.
Quando Lea Vergine gli chiese se si considerava “religioso”, Manganelli rispose che d’una cosa sola poteva dirsi certo: di non essere “laico”. Probabile che credesse nella reincarnazione, allora. Di sicuro lo faceva in termini letterari. In uno dei magnifici pezzi sui classici della letteratura italiana (e latina) da lui raccolti nel purtroppo mai ristampato Laboriose inezie (Garzanti 1986), quello dedicato a uno scrittore dai più incondito come il seicentesco poligrafo veneto Francesco Pona, usa proprio questa metafora per definire la sua sorprendente riproposta moderna: “scrisse non poco, ma ha scelto di reincarnarsi ne La lucerna”. Una riedizione, aggiunge il Manga, è l’equivalente editoriale di Eusapia Palladino (la famosa medium di fine Ottocento, protagonista d’una delle sue celebrate Interviste impossibili radiofoniche); e più in generale leggere un classico, cioè ridargli vita, non è che un modo di comunicare coi morti: non a caso un preclaro Discorso dedicato a quest’ardua disciplina figura come highlight nel quarto libro di Manganelli, Agli dèi ulteriori (pubblicato nel ’72). Anche da vivo, peraltro, uno scrittore può trattare sé stesso come un classico (e cioè – si legge in uno dei saggi raccolti nel ’67 nella Letteratura come menzogna, quello dedicato a d’Annunzio “splendida larva” – “uccidendolo; trattandolo come un puro oggetto”): riscrivendosi. Lo fece anche il buon Pona che, avuta qualche noia con l’Inquisizione, “aggiunse, tagliò, spiegò, giustificò, deplorò, ‘mi stupisco che’, glissò, interpretò, svagò, eluse, prosternò”. Anche questo era un modo di reincarnarsi: nel tentativo di anticipare, e così rinviare, la sorte toccata al tetragono, ma non ignifugo, Giordano Bruno.
Manganelli non fu riscrittore nevrotico come i suoi grandi predecessori Manzoni e Gadda, o come un coevo altrettanto consanguineo quale Arbasino; eppure quando – forse sentendosi vicino alla fine: era il 1989, un anno prima della morte – si risolse a compilare una propria Antologia privata (ripubblicata da Quodlibet nel 2015), paragonò quella rivisitazione del proprio stesso corpus, consistente nello “sbranare i libri che vanno sotto il suo nome”, al banchetto atroce di Tieste che nel mito (raccontato fra gli altri da Seneca e Foscolo) si nutrì delle carni dei propri figli: “una antologia è una legittima strage”, per mezzo della quale “il così detto autore può dar sfogo alla parte più cruda della sua ambivalenza verso quei libri”.
Se una reincarnazione può essere considerata la madornale colluvie di inediti e semi-tali seguita alla terrena dipartita del Manga (28 maggio 1990), potrà dirsi una reincarnazione ulteriore quel fenomeno singolare – solo a lui toccato, forse, fra i nostri classici tardonovecenteschi – che è il remix editoriale di quegli stessi libri postumi. Non posso dirmi esente da questa colpa (se è vero che un paio di pezzi che avevo già incluso nel 2005 nella Favola pitagorica non mi sono peritato di riproporli, nel 2023, in Emigrazioni oniriche), anche se devo rimarcare come la babele bibliografica abbia raggiunto ormai il livello di guardia (c’è da scommettere comunque che lui, l’incolpevole oggetto di tanto labirintico détournement editoriale, si sarebbe divertito un mondo). Solo in questo 2024, al cui postremo sgocciolare scrivo, si contano tre di queste “reincarnazioni” capaci di far girare la testa anche ai più occhiuti degli aficionados: le Lettere familiari uscite da nottetempo, con lunga e interessante prefazione di Giorgio Vasta, ampliano un volume uscito nel 2008 da Aragno, Circolazione a più cuori (Lietta Manganelli vi ha aggiunto una ventina di addendi preziosi: oltre a sette fogli coi disegnini istoriati dalla non disprezzabile mano del Manga, quattro lettere alla fidanzata, poi per breve tempo moglie Fausta, e undici alla madre Amelia); mentre tanto Il gatto di casa è un agente d’altri mondi (pubblicato in discutibile package grafico, e con qualche taglio, da Graphe.it) che Il vescovo e il ciarlatano (uscito, invece nello stesso ordine e con lo stesso titolo della princeps, da Sellerio) remixano sillogi pubblicate rispettivamente nel 2003 (con un saggio di Raffaele Manica e col titolo UFO e altri oggetti non identificati, già ripubblicato con questo titolo nel 2015 da Mincione), e nel 2001 dal piccolo e benemerito editore romano Quiritta. Manca dunque all’appello, di quella pionieristica stagione, solo il non meno pregevole L’infinita trama di Allah: curato nel 2002, da Graziella Pulce, raccogliendo i tanti pezzi scritti dal non-laico Manganelli sulla letteratura e la cultura dell’Islam. Ed è la stessa Pulce, bibliografa accuratissima e mai ringraziata a sufficienza (indispensabile il suo lavoro del 2015, anche se ne urge ormai una terza edizione), ad allestire l’unico libro davvero “nuovo” fra quelli a nome di Manganelli allestiti quest’anno: quello che raccoglie le sue tante pagine dedicate a una figura “familiare e assolutamente inafferrabile” quale Marco Polo (anche se, pure in questo caso, la maggior parte dei pezzi raccolti figuravano già in Laboriose inezie, nelle Interviste impossibili, in Salons e in Altre concupiscenze).
Un enigmatico frammento di Agli dèi ulteriori s’intitola Alcune ipotesi sulle mie precedenti reincarnazioni: e parte appunto dall’ipotesi che in una vita precedente chi dice “io”, ossessionato com’è dalla “fantasia religiosa” della “morte”, fosse un “prete” che aveva scelto il “suicidio” come forma del suo “colloquio con una diversa e incombente ombra che chiamerò nume”. Quella che chiamiamo “vita” sarebbe allora “nata dal suicidio”, cioè dalla morte (nei pezzi forse più belli, e comunque conclusivi, di Laboriose inezie così viene appunto definita, un suicidio, la metamorfosi salvifica dell’amatissimo Pinocchio alla fine della fiaba di Collodi). Nei documenti più sorprendenti fra quelli inclusi nelle Lettere familiari – quelle, intrise di alta e nient’affatto ironica retorica cristiana, inviate alla cognata Angiola per consolarla della scomparsa di suo fratello Renzo, nel ’73 – la morte della persona cara viene definita “quasi un atroce battesimo”, una circostanza “viva e vitale, così sconvolgente ma datrice di vita”: quello che chiamiamo “Dio” non è altro che “l’unico luogo nell’universo in cui noi tutti siamo da sempre a sempre; noi, i vivi e i morti, insieme”.
Congiungendo fra loro questi due punti in tutti i sensi distanti, all’interno del continente Manganelli, forse sarà lecito leggere in modo meno astratto l’episodio di Agli dèi ulteriori (e, in generale, tutto l’arci-tema manganelliano della morte). Seguo il ragionamento di una giovane quanto brillante psicoterapeuta, Elena Gigante, la quale ipotizza che un nodo mitobiografico dell’esistenza dello scrittore sia stato il suicidio tentato, a sedici anni, appunto da suo fratello Renzo (futuro ingegnere elettrotecnico e funzionario Rai che molto aiutò il giovane Manga, nei suoi duri anni Cinquanta da “avventizio” insegnante, traduttore e pubblicista), dopo il quale decise di lasciare la casa materna. All’epoca Giorgio di anni ne aveva tre, e a quel periodo risale forse la prima foto che lo ritragga: come la descrive la figlia Lietta (che la riproduce, anche, nella biografia paterna pubblicata da La nave di Teseo per il centenario del ’22, Aspettando che l’inferno cominci a funzionare), lo si vede “seduto su un muretto con un libro davanti […]; come mi confesserà molti anni dopo, aveva trovato la sua ‘muraglia cinese’”. Commenta Gigante che quella muraglia – destinata a resistere, con sorprendente solidità, sino alla fine – a Manganelli “serviva per difendersi da un dolore che si riverberava in tutti i componenti della famiglia”. Uno dei primi tentativi di scrittura (fra quelli pubblicati nel 2011 da Silvano Nigro in Ti ucciderò, mia capitale), risalente al 1953, s’intitola proprio Un libro e a un certo punto vi si legge:“anche scrivere un libro è un atto pratico. Serve per rendere tollerabile l’esistenza, per rinviare il suicidio […]. È un rito magico, uno scongiuro. Forse all’inferno non si può scrivere”.
Bando però, per carità, a qualsiasi determinismo psico-biografico. In generale è proprio Gigante (riprendendo un argomento di Hanna Segal) a sostenere che la psicoanalisi si sottrae al “tema della ricerca della verità” che “caratterizza tutta la scienza”; infatti per lei somiglia piuttosto a un’‘arte’”. Fatto sta che parrebbe “l’unica disciplina interessata non all’oggetto, ma al processo in sé” (e questa in effetti potrebbe essere una buona definizione che isoli, fra le discipline del discorso, quella che chiamiamo “letteratura”). Si potrebbe dire, parafrasando quanto recita la Costituzione degli Stati Uniti in merito alla “felicità”, che non sia tanto questione di una verità da conseguire, e da assumere in quanto tale, bensì di una ricerca della verità (questo appunto, secondo Segal, “è il fattore terapeutico”). Sicché non si può dire un… caso, se sulla relazione che legò Manganelli a Ernst Bernhard dal ’59 alla morte di quest’ultimo nel ’65, scelga di concludere le “riflessioni intorno al “caso clinico”, da lei scritte insieme a un maestro della disciplina come Augusto Romano (e raccolte sempre sul finire del ’24 sotto il titolo Scritture della cura). Nei diversi scritti da lui dedicati al suo mentore, allievo eretico di Jung, a più riprese Manganelli definisce Bernhard colui che gli “aveva insegnato a mentire”: più cauta (ma ben sapendo come un intero libro di Manganelli sia intitolato Discorso dell’ombra e dello stemma) Gigante lo definisce, di nuovo junghianamente, “un alleato dell’ombra”.
Al fratello Renzo, in una delle Lettere familiari, confessa Manganelli che l’approdo nello studio di questo “anziano tedesco” (consigliatogli dall’amica Vittoria Guerrini, alias Cristina Campo), in Via Gregoriana nell’aprile del ’59, lo ha fatto scampare a “una durissima crisi: di quelle verticali”. Anni prima sempre a lui, che come abbiamo visto ne sapeva qualcosa, aveva esplicitato la matrice radiante di quell’angoscia, la sua nera stella polare: “mia madre mi ebbe tra le mani indifeso […], e mi camminò sopra storpiandomi per sempre”. È un fatto che solo dopo l’esperienza-Bernhard Manganelli riuscirà a venire a capo della sua muraglia cinese; all’inizio del ’61, in lacrime, annuncia alla compagna Ebe Flamini di aver “scritto un libro”: è Hilarotragoedia (anche se Feltrinelli lo pubblicherà solo tre anni dopo, quando il suo autore di anni ne aveva quasi quarantadue). Da quell’inferno in terra, comunque, ogni tentativo di fuga era lecito.
“Al fratello Renzo, in una delle ‘Lettere familiari’, confessa Manganelli che l’approdo nello studio di questo ‘anziano tedesco’ (consigliatogli dall’amica Vittoria Guerrini, alias Cristina Campo), in Via Gregoriana nell’aprile del ’59, lo ha fatto scampare a ‘una durissima crisi: di quelle verticali'”.
Si sorprende Manganelli del fatto che Marco Polo – il quale tanti mirabilia riporta dei suoi ventisei anni di viaggio, in Cina e negli altri Orienti visitati – non parli mai della Muraglia Cinese, quella vera (ma forse quello che avevano iniziato a costruire mille anni prima “era allora un muro abbandonato”, e la forma “elegante” che ha oggi è frutto di un restauro successivo al passaggio del viaggiatore veneziano). Non sorprende noi, invece, se tutte le volte che parla del Milione Manganelli insista sul carattere “ambiguo, duplice”: del testo e di chi lo scrisse. Intanto perché, come si sa, non lo scrisse lui. Tornato in patria e catturato dai genovesi nella battaglia di Curzola, nel 1298, finì rinchiuso in una cella dove si trovò compagno un pisano, Rustichello, che ivi languiva da dodici anni: e a lui, “un favoleggiatore” e forse un “manipolatore” se non un “falsario”, uno che aveva compilato tante storie cavalleresche, dettò il suo libro. Non solo: il manoscritto originale, che Rustichello redasse in francese, si perse; e così quello che leggiamo è il frutto di una serie di copie, traduzioni, riscritture e interpolazioni: il Milione è “un libro perduto da sempre e da sempre con noi”. Da questa serie di circostanze irripetibili deriva l’unicità di qualcosa che è “non già una descrizione, un documento, ma una “istoria”, una invenzione veridica ma tutta mentale”: l’Asia di Marco “era un luogo della mente, qualcosa che ha insieme sperimentato e pensato”. Quella narrazione, che si voleva tutta genuina (quando per esempio descrive l’”unicorno”, a Rustichello che ci s’immagina tutto in fregola, con tutta evidenza sta solo parlando di un rinoceronte: a quei tempi diffuso anche in Asia), prendeva così toni da favola. E infatti da molti non venne creduta vera (“forse Polo è sincero, ma meglio sarebbe per lui che fosse un mentitore”). Dunque “cronaca o fola? Entrambe? Niente del tutto?”.
A ragione dice Pulce che questo è “uno dei passaggi cruciali della macchina letteraria” che risponde al nome di Manganelli. Anche lui, negli scritti di viaggio dove così spesso ripercorre gli itinerari del Milione (da questa produzione oggi molto amata dai lettori – e che annovera in effetti alcuni dei suoi capolavori, come il postumo Esperimento con l’India – Manganelli trasse in vita, nel ’74, un solo libro: Cina e altri Orienti, ripubblicato nel 2013), racconta con straordinaria prensilità dettagli icastici e “verissimi” di luoghi che nelle sue parole, però, ci appaiono perfettamente “fantastici”. Come dice di Polo, “non raccontava favole, forse non aveva nemmeno tanta fantasia. La sua fantasia era il mondo”. Più in generale, si chiede Manganelli parlando di Sergio Solmi e dei suoi saggi sul “fantastico” (articolo del ’78 pure raccolto in Marco Polo), “vi è qualcosa in comune tra il nostro modo di pensare l’Antico Egitto, la fantascienza, l’impossibile conversione di Marco Polo? Forse sì: sono, tutti, documenti che ci sottraggono agli “inferni realistici”; “inferno” giacché il “realistico” non è che un modo estremamente riduttivo, apotropaico di parlare della “realtà”: mentre “la ‘realtà’, a sua volta, è talmente polivalente e protetta da indecifrabili codici, da proporsi come un altrove, la giustificazione mentale e fatale di un viaggio, non un punto d’arrivo” (in Laboriose inezie quello stesso anno, parlando dei sonetti del Belli, se ne uscirà con un aforisma da incorniciare: “sono persuaso che la realtà sia piuttosto irrealistica”).
Tutta la raccolta intitolata nel 2002 UFO, e ora Il gatto di casa è un agente d’altri mondi, è a ben vedere incentrata su questa concezione diciamo dialettica della “realtà”. Nel pezzo brevissimo ora collocato in apertura di libro si dice proprio questo, ancorché in tono (come sempre nella corsivistica di Manganelli) in apparenza svagato: è nelle fantasticazioni rubricate sotto il genere della “fantascienza” che si trova “quanto di più onestamente realistico abbia prodotto la nostra macchina per scrivere”, “i veri libri che ‘rispecchiano i tempi'”. Più in generale, precisa il Manga non di “credere” nell’esistenza dei dischi volanti, bensì di volerlo credere: “perché sono improbabili, infinitamente allusivi, e soprattutto perché non li ho mai visti”. E ricorda come queste credenze nelle “cose che si vedono in cielo” (prima degli UFO era stata la volta degli angeli, dei santi volanti negli ex voto, eccetera) fossero state spiegate proprio da Jung, nel saggio intitolato Un mito moderno, quali “immagini proiettate del nostro mondo più profondo”, simboli dell’”esigenza intima di ritrovare il nodo del mondo”.
In un articolo dell’86, fra quelli raccolti nel Vescovo e il ciarlatano, spiega Manganelli (specificando di farlo a partire “da una lunga esperienza ‘a parte objecti'”) come la psicoanalisi differisca in un punto chiave dalla medicina: “l’analisi non guarisce; considera la sofferenza come il segno di un errore nel colloqui con sé” e semmai “sostituisce ad una sofferenza impropria – quella che definiamo ‘malattia’ – una sofferenza propria”. Nella nuova edizione del Vescovo e il ciarlatano è importante il recupero, a mo’ d’introduzione, di una lunga intervista (o meglio, serie di conversazioni) con Manganelli di Caterina Cardona (una versione assai scorciata si legge nella Penombra mentale, la raccolta di interviste – alla quale in effetti gioverebbe oggi una bella rinfrescata – pubblicata nel 2001 da Editori Riuniti), dove fra il molto altro dice Manganelli che quello affrontato nel mitico studio di Via Gregoriana era “un problema di ‘spostamento'”: “Bernhard ti spostava la visuale e quindi ti cambiava la tua autobiografia”. Se impossibile da conseguire è la “salute” (“la pace è la sconfitta”, suona devastante la clausola di un’altra conversazione di Manganelli con Lea Vergine), quella che si può incontrare, a una certa altezza dell’erranza che chiamiamo “vita”, è appunto “la malattia giusta”.
Altrove, sempre nel Vescovo e il ciarlatano, dice Manganelli che Bernhard “voleva essere frainteso”. Nella bellissima conversazione con suo padre Mario (che di Bernhard era stato discepolo, raccogliendone alla morte il testimone fondando il Centro Italiano di Psicologia Analitica), Invasioni controllate, riproposto sempre quest’anno da Ponte alle Grazie (dopo una prima edizione, nel 2007 da Castelvecchi, e dopo la scomparsa dello stesso Mario Trevi, nel 2011; nonché dopo aver raccontato suo padre, nel 2023, nella Casa del mago), il curatore del Vescovo e il ciarlatano, Emanuele Trevi, riporta questa frase oracolare di Manganelli. Al che suo padre replica che si trattava di “una bella proiezione”: era Manganelli stesso, e non Bernhard, a “esigere di essere frainteso”. In effetti è lui ad aggiungere, poco dopo, che a “voler essere fraintesa” è piuttosto “la menzogna”, cioè il vessillo sotto la cui insegna aveva scelto, il Manga, di presentarsi al mondo (“una strada mia da sempre e da sempre ignota”): perché “una menzogna presa alla lettera è inerte e intollerante come una qualsiasi verità”.
È proprio così. Menzogne prese alla lettera sono per esempio quelle che era abituato a scrivere Rustichello, “eventi che egli sapeva e dichiarava falsi”: per questo era uno “scrittore rassicurante”, cioè privo di qualsiasi interesse. Ben diverso lo statuto del Milione; e infatti – dice Manganelli anche del suo autore – “prima di essere totalmente capito, Polo doveva essere frainteso”. Frainteso, come pensava Mario Trevi, è certo oggi lo stesso Manga: quando lo si legge come un entertainer brillante, superficiale e un po’ mattacchione, quando va bene un trickster di quelli che tanto piacevano al mentore del suo mentore, Jung. Quando invece praticare quella che lui chiama “menzogna” non equivale certo a dire il contrario della “verità”, il che comporterebbe una sua precisa e inequivoca cognizione. Bensì (dice nel saggio su Beckett della Letteratura come menzogna) “prendere la propria “verità” per i capelli e trascinarla in una regione in cui il vero non ha alcun privilegio sul falso”. Proprio com’era capitato, al di là delle sue intenzioni, a quel bennato viaggiatore veneziano.
Certo in un punto decisivo fraintende il suo mentore, Manganelli. Quando, citando nel Vescovo e il ciarlatano una formula di Mitobiografia (il libro del ’69 che riporta, raccolti dai discepoli, i detti di un Bernhard sintomaticamente renitente alla scrittura), insiste sul fatto che “l’alleato operoso della malattia”, cioè secondo lui l’analista, insegna che “da un labirinto si esce solo per trapassare ad altro labirinto”. Sovrapponeva così Manganelli, all’itinerario di Bernhard, il suo: è a lui che appartiene “la vocazione dello sradicato, dell’errante, costretto a vivere le proprie tradizioni in travestimenti e invenzioni simboliche e mentali”. Non voleva tener conto del punto d’arrivo, dell’”anziano tedesco”: che nel ’61 aveva acquistato una casa a Bracciano e vi aveva insediato l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica da lui fondata; in uno degli ultimi appunti di Mitobiografia, lo stesso Bernhard identificò in questa scelta “la fine della sua esistenza nomade, di beduino, dopo l’espulsione”. Non cita Manganelli gli ultimi dei tanti pensieri dedicati da Bernhard al “labirinto”, nei quali si capisce che dalla forma “cattiva” del labirinto, quella della prigione, si doveva passare a quella salvifica, del mandala. Questo il senso “autentico” dell’aforisma che tanto lo colpisce: “ogni traversata notturna per mare è una via al superamento del labirinto, il cui senso nascosto viene con ciò rischiarato e reso consapevole; dalla nigredo alla albedo è la via attraverso il labirinto, da labirinto a labirinto!”.
Ma non poteva che fraintenderla, questa immagine, Manganelli. Il fatto è che, come scrive nel racconto Autocoscienza del labirinto (compreso in un altro libro dell’86 mai ristampato, Tutti gli errori), egli non poteva riconoscersi che in quella figura senza soluzioni, senza vie d’uscita: “mi abbandono alla pace immobile in mezzo alle innumeri strade, la pace che mi viene dal sapere, come da sempre sapevo, che io solamente sono il labirinto”. Quella del labirinto, per lui, non è un’imagery elegante, un calligramma da stampa di pregio su carta forte. Ha raccontato Giovanna Sandri, anglista e scrittrice a sua volta (in un memoir premesso alle lettere inviatele dal Manga col quale, in quei teterrimi anni Cinquanta, intratteneva un dolorante affair: raccolte da Graziella Pulce in Costruire ricordi, Archinto 2003), che nel 1953, durante un viaggio a Londra, fecero incauta visita al “labirinto” appunto, cioè al giardino all’italiana di Hampton Court; e che, lì perdutosi, Manganelli ebbe una vera e propria crisi psicotica: “rumore di passi accelerati, una voce sempre più alterata. A tratti fruscio del fogliame. Non riuscivo a raggiungerlo. Chi, cosa lo inseguiva? […] Lo ritrovai la sera in camera mia […], mi avvicinai. In silenzio gli posi una mano sulla spalla. Non si voltò. Con un filo di voce mi chiamò mamma. […] Quando realizzò la mia presenza si alzò, e senza dire una parola andò in camera sua”.
Altro che entertainer. Manganelli scrive sempre in presenza dei suoi incubi, e a saperlo leggere davvero – al di là degli scudi e degli stemmi che, come quelli del “Grande Mentitore” nella Letteratura come menzogna, ci si rivelano a questo punto le più eloquenti, ironiche preterizioni – quegli incubi si materializzano sulle sue pagine con una presenza a tratti intollerabile: messi a nudo come il “cuore” di Baudelaire, il “cuore rivelatore” della favola horror di Edgar Allan Poe, che tanto piaceva pure a lui. Chi lo aveva capito in tempi non sospetti era stato Enrico Filippini. L’instancabile traduttore, e futuro inimitabile giornalista culturale, coltivava allora una vocazione da narratore che provvide poi a nevroticamente inibirsi; prese così parte al secondo convegno del Gruppo 63, a Reggio Emilia nel ’64, e fu anche lui invitato a dire la sua da Eugenio Battisti, sulla rivista semi-ufficiale del Gruppo «Marcatré». Prima di lui aveva parlato appunto Manganelli degli “amici dissidenti” dell’avanguardia (dissidenti non solo nei confronti dell’establishment, ma l’uno contro l’altro e anche, possibilmente, ciascuno con sé stesso); Filippini dice invece che “il problema dell’avanguardia è quello di stare sempre bene attenta ad essere proprio nuda”; Battisti lo interrompe dicendo che “è il contrario di quanto dice Manganelli” e allora Filippini risponde: “Non credo che sia il contrario. Manganelli mi sembra proprio bello nudo”.
“Il Manga desnudo è lo scrittore la cui intera opera può essere letta – dice Elena Gigante – ‘come un caso clinico in prima persona, […] un documento sotto mentite spoglie, quindi un camuffamento del camuffamento, una menzogna della menzogna’”.
Il Manga desnudo è lo scrittore la cui intera opera può essere letta – dice Elena Gigante – “come un caso clinico in prima persona, […] un documento sotto mentite spoglie, quindi un camuffamento del camuffamento, una menzogna della menzogna”. Ossia, come lui stesso definì la conferenza che nel ’73 tentò di pronunciare su Jung e la letteratura (a sua volta raccolta nel Vescovo e il ciarlatano): “un documento da allegare a una cartella clinica; sta tra il comizio, il sogno, l’attacco isterico, la visione, una moderata invasione psicotica”. La menzogna della menzogna è quella che si riassume nel personaggio indecifrabile di Epimenide il Cretese: come dice sempre Il vescovo e il ciarlatano, la menzogna non può che essere “fraintesa” se non vuole “tradire la propria natura di parola, di verbo. Sa che la proposizione fondamentale di tutte le proposizioni è quella, “impossibile” degli antichi sofisti: “Crizia cretese afferma che tutti i Cretesi sono dei mentitori”.
“Aveva ragione lui, l’’avventizio’ Manganelli, quando ancora tanto tempo gli toccava di passare nelle entragne del labirinto nevrotico”, nelle segrete del carcere tetro che era la sua esistenza: “forse all’inferno non si può scrivere”. Non si può scrivere stando nel labirinto, in effetti; semmai lo si può fare (e forse non lo si può che fare) dal labirinto: a partire da lì. Il suo incubo più plastico e viscerale ha per titolo, non a caso, non “all’inferno” ma Dall’inferno (Rizzoli 1985; Adelphi 1998). È proprio così. Dal labirinto si esce solo entrando in un altro labirinto: dall’inferno della vita, nella menzogna della letteratura.
Bibliografia:
Giorgio Manganelli, Il gatto di casa è un agente d’altri mondi. Nei territori del mito moderno, introduzione di Antonio Castronuovo, indici a cura di Massimiliano Pagani, Graphe.it 2024;
Giorgio Manganelli, Lettere familiari, con un testo di Giorgio Vasta, postfazione di Lietta Manganelli, nottetempo 2024;
Giorgio Manganelli, Marco Polo: il mercante che inventò un mondo, a cura di Graziella Pulce, Aragno 2024;
Giorgio Manganelli, Il vescovo e il ciarlatano. Inconscio e letteratura: l’incontro con Ernst Bernhard, a cura di Emanuele Trevi, con una conversazione di Manganelli con Caterina Cardona, Sellerio 2024;
Augusto Romano-Elena Gigante, Scritture della cura. Riflessioni intorno al «caso clinico», Bollati Boringhieri 2024;
Emanuele Trevi-Mario Trevi, Invasioni controllate, Ponte alle Grazie.
Andrea Cortellessa
Andrea Cortellessa è critico letterario, storico della letteratura e professore associato Università degli Studi Roma Tre, dove insegna Letteratura italiana contemporanea. Il suo ultimo libro è Con l’ascia dietro le nostre spalle. Amelia Rosselli (Electa, 2024).
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