Viola Stefanello
Si può vivere della propria arte? Questa domanda, che da sempre assilla gli artisti, può valere, con qualche differenza, anche per chi oggi fa meme. Bilancio e prospettive di un mestiere che sta ancora cercando una sua definizione.
C’è stato un periodo, più o meno tra il 2017 e il 2021, in cui per reperire tutti i meme di cui sentivo il bisogno – molti più di quelli di cui la persona media necessita per vivere dignitosamente, comunque – mi affidavo ai gruppi su Facebook. In questi gruppi, i membri erano incoraggiati a creare contenuti che riflettessero l’estetica, i riferimenti culturali e il senso dell’umorismo dei fondatori, il più delle volte amministratori di pagine già note, e in cambio ottenevano di essere riconosciuti come brillanti e divertenti da persone che loro stessi ritenevano brillanti e divertenti. I meme migliori finivano sulla pagina del gruppo, e da lì potevano essere visti e condivisi anche migliaia di volte.
Ok, ma cosa c’era oltre la soddisfazione di vedersi apprezzati e ricondivisi? Soldi pochi, anche se sicuramente giravano: gli amministratori delle pagine più popolari potevano aprire uno store online, vendere magliette, cappellini e tote bag con i propri loghi, ma non era una strada intrapresa da molti. Lo scopo principale di chi partecipava a questi gruppi era aderire a una sottocultura, contribuire allo sviluppo di una comunità. Il tutto senza aspettarsi gratificazioni particolari, un po’ come chi scrive fanfiction senza l’ambizione di essere pubblicato.
Questi gruppi esistono ancora, con i loro nomi ironici e lunghissimi che all’epoca volevano segnalare un codice per iniziati e un senso dell’umorismo inaccessibile ai più. Ad esempio: New Urbanist Memes for Transit-Oriented Teens, 229mila membri. Post Colonial Memes for Oriental Minded Teens, 28mila membri. Sciences Po. Institute of Shitposting for Bourgeois Teens, 40mila membri.
E poi, per citarne un’altra, Suona come il Sinistralibro italiano ma va bene, gruppo che per qualche anno ha permesso a persone che si rifacevano a posizioni di sinistra – anche piuttosto diverse tra loro – di scambiare opinioni e consigli di lettura (oltre, ovviamente, a meme) e litigare furiosamente. Scrivendo della rilevanza del Sinistralibro per la storia dei meme italiani su «Il Tascabile», Daniele Zinni l’ha definito il posto che ha segnato “in modo più chiaro e più a lungo, per quanto ci è dato vedere oggi, la percezione diffusa di come vadano fatti i meme di sinistra”.
“C’è stato un periodo, più o meno tra il 2017 e il 2021, in cui per reperire tutti i meme di cui sentivo il bisogno – molti più di quelli di cui la persona media necessita per vivere dignitosamente, comunque – mi affidavo ai gruppi su Facebook”.
“Tra il 2017 e il 2019, in particolare, quando qualcuno credeva che da sinistra non si potesse memare in modo credibile e il fervore creativo della sottocultura memetica era più vivo a destra, diverse centinaia di persone hanno tenuto vivo un dibattito online che aveva i caratteri dell’assemblea e del laboratorio, per insegnarsi tra loro come fare meme efficaci e coerenti con le proprie idee”, scrisse Zinni. “Nella Wunderkammer dove sono custodite le esperienze collettive che hanno animato e dilaniato la sinistra, a queste vicende spetterà almeno una piccola teca”. Il gruppo oggi ha ancora tremila membri, ma è ormai poco frequentato dagli utenti. La sua rilevanza però è indubbia: le posizioni che aveva contribuito a diffondere si trovano altrove, ad esempio su pagine Instagram come Madonna Freeda e Automatizzato Comunismo Memetico.
Alcuni gruppi hanno resistito un po’ meglio alla migrazione di massa degli utenti da Facebook a Instagram. Ma i social network sono diventati un’altra cosa. Così come gli spazi che incoraggiavano scambi e discussioni hanno perso centralità a favore di piattaforme che privilegiano lo sforzo di singoli content creator, anche la creazione di meme si è parzialmente spostata dai gruppi a profili gestiti da singoli. Aprendo così la strada a molte più possibilità di monetizzazione.
Meme, personal branding e pagine d’autore
“Internet ha fatto in modo che, a prescindere da chi sei o cosa fai, che tu sia un manager che lavora dalle 9 del mattino alle 5 del pomeriggio o un astronauta o un addetto alle pulizie, non puoi sfuggire alla tirannia del personal branding”, ha scritto di recente la giornalista Rebecca Jennings su «Vox». “Per qualcuno vuol dire aggiornare LinkedIn a ogni promozione, per altri chiedere ai clienti di lasciare una recensione da 5 stelline su Google; tantissimi cercano di creare un personaggio che sia al contempo accattivante ma autentico su Instagram. E chiunque speri di pubblicare un best seller o un disco di successo ora deve pensare a come ‘costruirsi una piattaforma’ in modo che i manager possano guardare il loro pubblico online e ritenere giustificato un investimento in un artista esordiente”. Per chi amministra una pagina meme di un certo successo – dai 10mila follower in su, diciamo – questo vuol dire domandarsi cosa fare, con quell’attenzione.
“Il primo caso in cui ricordo di aver visto dei singoli memer venire pagati da un committente per fargli pubblicità credo sia stata la campagna delle primarie del Partito democratico statunitense in vista delle elezioni presidenziali americane del 2020, quando Michael Bloomberg pagò una serie di enormi pagine che facevano meme, soprattutto su Instagram , per realizzare dei contenuti, seguendo il template di una finta chat con lui”, ricorda lo stesso Daniele Zinni, che nel frattempo ha pubblicato, tra le altre cose, il saggio Meme del sottosuolo: Distopia, follia, orrori artificiali e la ricerca dell’autenticità per Einaudi. “Oggi di pagine che possiamo chiamare commerciali, ovvero che creano meme con l’obiettivo di vendere il loro merchandising o attirare clienti e creare meme per conto di altri, ce ne sono tante, in Italia ma soprattutto a livello internazionale”.
Ci sono poi pagine di meme che si potrebbero chiamare “d’autore”: quelle che utilizzano estetiche, linguaggi, riferimenti e formati immediatamente riconoscibili, piuttosto che riproporre semplicemente i formati di meme più popolari e recenti, come fanno le pagine mainstream. Sono operazioni che nel tempo riescono a crearsi un pubblico affezionato. La maggior parte di questi memer hanno un debito di riconoscenza verso le pagine d’autore che già esistevano su Facebook verso la fine degli anni Dieci: Oznerol e Bispensiero, Logo comune e Karbopapero 900.
Fino a poco prima l’apice dell’umorismo online erano i poster demotivational, le foto di animaletti buffi a cui erano sovrapposte grosse scritte in bianco e nero (i classici “lolcats” di 4chan) o le vignette dozzinali che mostravano reazioni esagerate a situazioni spesso banali (i rage comics).
Queste pagine, come spiegava il giornalista Davide Piacenza in un articolo su «Rivista Studio» del 2017, avevano iniziato a mescolare “alto e basso, personaggi della commedia italiana e attualità nazionale e internazionale, gergo mutuato dalla cultura digitale e personaggi di bolsi sceneggiati Rai, neorealismo e Di Battista”, inventando “un linguaggio immediatamente identificabile, capace di creare nuovi universi regolati da codici interni, e poetiche sui generis che conquistano quella fetta di utenti più acculturata e consapevole, con un gusto per l’ironia sottile, che solitamente rimane fredda davanti alla comicità più standard”.
Seguendo questa stessa impostazione, la nuova generazione di meme d’autore italiani, sta tutta su Instagram. Giulio Armeni, creatore dell’amatissima pagina @filosofiacoatta, ne elenca svariati altri all’inizio delle proprie lezioni sul linguaggio dei meme, che tiene per la Scuola Holden di Torino: @crudeliamemon, @vabeeraga, @alvaraaltissimo, @giovanni_lindo_memetti, @cyaomamma, @memecalcistici_x_tifosimistici, @uomini.eleganti e @relatable_roma_memes.
Campare a meme
Ma quindi, con le pagine meme, oggi, ci si campa? “Le mie entrate mensili non arrivano dalla pagina Relatable Roma Memes. Non ci ho mai guadagnato, se non per la pubblicazione del libro Grande racconto anulare”, dice Marzio Persiani, uno tra i pochi memer italiani riusciti a migrare con successo da Facebook a Instagram. Nei suoi post, Persiani descrive personaggi, eventi e situazioni tipiche di Roma con un certo grado di dettaglio, sovrapponendoli a riferimenti presi da serie tv, anime, manga, celebrità, eventi storici o di attualità. Il risultato è, dice lui, “a metà tra dei meme troppo verbosi e dei racconti troppo stringati”.
Per Persiani, ci sono due strade per lavorare coi meme oggi: la prima è quella di curare la comunicazione di brand o istituzioni. In questo senso, la massima ispirazione per tantissimi appassionati di cultura di internet in Italia rimane la svolta compiuta dai profili social dell’enciclopedia Treccani nel 2018, che mostrò come fosse possibile portare brillantemente linguaggi memetici anche non mainstream nella comunicazione online. “Questo, ovviamente, per i memer ha senso soltanto in un contesto in cui venga loro concessa libertà di espressione”, sottolinea. “Oggi la piattaforma di streaming Mubi collabora in modo interessante con alcune grosse pagine di meme italiane, lasciando loro grande spazio espressivo”.
La seconda strada, avviata qualche anno fa negli Stati Uniti e, parallelamente, anche da alcuni memer e appassionati in Italia, è quella degli eventi dal vivo, che uniscono i riferimenti di nicchia di una determinata sottocultura digitale ai formati tipici della standup comedy. “In America c’è quella pagina pazzesca che è Depths of Wikipedia: la curatrice, Annie Rauwerda, è molto brava a scovare bizzarrie su Wikipedia, e a partire da questo suo talento, ha creato una sorta di routine comica che porta in giro per gli Stati Uniti, chiamando a supportarla sul palco anche attori famosi”, continua Persiani.
Due esempi simili in Italia sono Fuga dall’algoritmo, basato su una serie di vignette che Giulio Armeni (Filosofia Coatta) ha creato appositamente per i propri spettacoli live, e il Cyaomamma Tour, show comico itinerante organizzato dal memer assieme alla catena alberghiera Ostello Bello.
“Secondo me, fino a quando sei una pagina piccola puoi essere quello che vuoi”, commenta Domenico Emanuele Spagnuolo, il creatore di @cyaomamma, pagina Instagram da 40mila follower. “Ma quando diventi grande, devi scegliere se diventare una macchina da monetizzazione che non crea alcun tipo di cultura oppure se essere un artista. Non sono molti a scegliere quest’ultima strada, e conosco persone che di queste macchine da monetizzazione fanno parte e prendono per il culo pagine d’autore molto seguite, forse perché non provavano minimamente a guadagnarci”.
I meme di Spagnuolo, che si definisce provocatoriamente “il più grande poeta della sua generazione”, fanno parte a pieno titolo di questa ondata di pagine d’autore: hanno l’ambizione di confondere lo spettatore, mettendolo davanti a creazioni sostanzialmente assurde: “la cosa principale è l’estetica”, sottolinea Spagnuolo.
Spagnuolo, che insegna diritto ed economia alle scuole superiori, dice di aver cominciato a fare meme “for fun”. La sua prima pagina, creata nel 2017, prima di essere bannata per violazione delle linee guida della piattaforma nel 2020 aveva 80mila follower. “All’inizio mi sono montato subito la testa: pensavo di poter guadagnare bene, e infatti aprii un crowdfunding per finanziare un fumetto in cui credevo molto. Fu un fiasco, alla fine me lo sono finanziato da solo. Dicevo a tutti: Ormai sono famoso, ho 50mila follower, me lo pagano i miei fan! Ma erano stronzate: se non sei ben organizzato e non hai un piano editoriale in mente, non ce la farai mai”.
Hanno avuto più fortuna tre iniziative organizzate negli ultimi due anni con Cyaomamma: oltre al tour già citato, un libro di meme autoprodotto su Amazon e una linea di magliette.
Le collaborazioni con i brand sono invece, nella sua esperienza, deludenti. “Avendo così tanta visibilità, entriamo facilmente in contatto con i brand, ma poi loro non ti prendono sul serio, nonostante i numeri”.
“Ci sono poi pagine di meme che si potrebbero chiamare ‘d’autore’: quelle che utilizzano estetiche, linguaggi, riferimenti e formati immediatamente riconoscibili, piuttosto che riproporre semplicemente i formati di meme più popolari e recenti”.
Le aziende che provano a introdurre i meme nella loro comunicazione online spesso finiscono per risultare imbarazzanti: “È facile accorgersi quando il brand sta facendo il simpatico solo per venderti qualcosa”.
Monica Magnani, autrice di Vabeeraga, una delle pagine di meme d’autore più originali di Instagram (e che oggi conta 115.00 follower), è dello stesso avviso: “In Italia siamo davvero indietro, non solo rispetto alla comprensione del significato semantico dei meme ma anche al loro potenziale. Si tende molto a limitare il meme all’immaginetta che fa ridere, quando invece si tratta di un medium molto più complesso”.
I suoi meme, che lei definisce “diaristici”, sono caratterizzati da un immaginario fanciullesco, intriso di folklore locale e magia. Le sue priorità nella vita sono: fare lunghi pisolini, camminare nei boschi, bere tisane, andare in bagno con regolarità.
Trova impossibile trasformare la sua pagina, @vabeeraga, in un lavoro vero e proprio. “Non potrei metterlo a servizio di qualcun altro”, dice. “Se io facessi soldi con Vabeeraga, non vedrei più i miei meme come spontanei, non sarei più tranquilla. Avrei l’angoscia dei numeri e del risultato. Mi sono state fatte offerte di sponsorizzazioni, le ho sempre rifiutate”.
Schiavi dell’algoritmo
Giulio Armeni di @filosofia_coatta invece, ne ha fatto un lavoro. Quello di Armeni è senza dubbio uno dei nomi più conosciuti nella galassia meme italiana. Oltre al corso che tiene alla Holden e al tour, collabora con riviste, digitali e cartacee, e ha scritto due libri.
“In teoria avrei la possibilità di promuovere brand sulla mia pagina, ma farebbe un effetto un po’ strano. È una pagina satirica, e la satira si nutre molto di scetticismo: promuovere qualcosa, comunicare che io credo in uno specifico prodotto, sarebbe bizzarro”, dice. “Ancora oggi, devo lottare contro il mio istinto per farmi pagare quando parlo agli eventi”.
Con queste pagine meme, dicevamo allora, ci si campa? Sicuramente lo fanno già le “macchine da monetizzazione” a cui si riferiva Spagnuolo: esistono per quello. E sicuramente ci guadagnano i social network su cui gran parte di questi meme vengono pubblicati, il cui intero modello di business si basa sulla capacità di mostrare quante più pubblicità possibili tra un contenuto generato dagli utenti e l’altro.
La situazione è un po’ più complessa per chi riconosce ai meme un valore più alto, e non solo perché il rapporto di potere tra creator e piattaforme è decisamente sbilanciato a favore di queste ultime. Ne hanno avuto la conferma i memer che nell’ultimo anno hanno provato a usare la propria visibilità per parlare delle atrocità che stanno avvenendo nella Striscia di Gaza: @madonnafreeda, per esempio, ha dovuto spostare gran parte dei propri contenuti sull’app di messaggistica Telegram. Su Instagram, invece, è spesso costretta a ricorrere a perifrasi per non essere silenziata dall’algoritmo ogni volta che parla della Palestina.
In finale, il quadro che ne deriva sembra piuttosto cupo. Spagnuolo lo riassume così: “Il problema, parafrasando Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire di McKenzie Wark, è che noi al momento siamo il prodotto che Instagram (e gli altri social) vende. E cosa ci hanno dato in cambio? Nulla, o quasi: siamo dei lavoratori creativi sottopagati a cui viene richiesto costantemente di creare senza però godere del frutto della nostra creazione”, chiude Spagnuolo. “Possiamo solo scegliere di farlo perché ci piace, o monetizzare, diventando degli esseri senz’anima”.
Viola Stefanello
Viola Stefanello è giornalista. Ha collaborato con «Repubblica», «Internazionale» e altre testate. Fa parte della redazione de «Il Post».
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