Lorenzo Gramatica
23 Febbraio 2024
L’Olocausto è l’evento che più di ogni altro ha denunciato i limiti del linguaggio. L’ultimo film di Jonathan Glazer prova una nuova via per raccontarlo: non mostra la vita dentro al campo di sterminio di Auschwitz ma quella placida e ordinaria del comandante del campo e della sua famiglia, nel giardino accanto. Il film è ambizioso, ha molti meriti, ma c’è anche troppo autocompiacimento e un po’ di kitsch, soprattutto quando cerca di dare un suono alla soluzione finale.
Una delle prime cose che Jonathan Glazer riprende nel suo ultimo film La zona di interesse, presentato a Cannes nel 2023 e pluricandidato agli Oscar, è un bosco di betulle. Dietro i tronchi sottili, sulla riva di un piccolo corso d’acqua, una famiglia tedesca prende il sole. Canottiere, costumi da bagno, sandali, pance flosce, il pallore un po’ sfigato della carnagione: questa famiglia in gita fuori porta non ha niente di speciale, pare.
Sono anonimi ma borghesi, classe dirigente probabilmente, lo si capisce dalla loro macchina, che percorre la strada costeggiata dagli alberi che li riporta a casa, una splendida villa di recente costruzione, dotata di piscina, serra e curatissimo giardino.
Betulle, in tedesco, si dice Birken. Il campo di sterminio di Birkenau, uno dei tre principali che componevano il complesso di Auschwitz, prende il nome dai boschi di betulle che lo circondano. È qui che il film si svolge nel 1943. La famiglia tornata dalla gita fuori porta è quella di Rudolf Höss, comandante del campo di sterminio. La villa è proprio accanto alle alte mura ben sorvegliate che delimitano il perimetro di Auschwitz.
Tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis, il film differisce da quest’ultimo soprattutto per un aspetto: Amis permette al lettore di entrare nel campo, Glazer non concede lo stesso allo spettatore.
Amis scrive un romanzo a tre voci – un giovane nazista “raccomandato” e playboy, il sadico comandante del campo, un prigioniero ebreo che lavora per i Sonderkommando –, Glazer sceglie di raccontare solo la storia del comandante del campo Rudolf Höss e della sua famiglia, chiamandoli con il loro vero nome.
Nelle parole di Primo Levi, “Höss è stato uno dei massimi criminali mai esistiti, ma non era fatto di una sostanza diversa da quella di qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro paese; la sua colpa, non scritta nel suo patrimonio genetico né nel suo esser nato tedesco, sta tutta nel non aver saputo resistere alla pressione che un ambiente violento aveva esercitato su di lui”.
Il film comincia, presumibilmente nel 1943, quando Auschwitz è già in funzione e prima che Höss ritorni per un periodo in Germania, promosso vice-ispettore dei campi di concentramento.
La vita di Höss, di sua moglie Hedwig – felice di essere chiamata “la regina di Auschwitz” – e dei loro cinque figli, è una vita di banalissimo agio. I bambini giocano in giardino, rincorrono il loro bracco, si fanno scherzi a vicenda; Rudolf Höss torna a casa stanco dopo il lavoro, o riceve i colleghi nel suo studio, fuma pensoso in canottiera, si rigira nel sonno, a poca luce; Hedwig Höss dà ordini alla servitù, supervisiona i banchetti, accoglie la madre in visita, fiera di mostrarsi realizzata e di sentirsi dire “Ce l’hai fatta, sei caduta in piedi, figlia mia”.
Poi, col passare del tempo e a guardare bene, un nauseante senso di disagio, un dolore acuto e persistente trafigge lo spettatore: i bambini giocano con dei denti d’oro, Hedwig Höss, davanti allo specchio, si prova una pelliccia, le piace ma va rifoderata, poi scherza con le amiche “quando ho detto che l’ho presa in Canada mi hanno chiesto, ma sei andata così lontana?” (il riferimento è ai magazzini di stoccaggio Kanada, dove venivano conservati i beni sottratti ai prigionieri), la madre le dice: “Sono proprio svegli questi ebrei, che nascondono i diamanti nei tubetti di dentifricio”; e anche: “chissà se la signora ebrea da cui facevo le pulizie è qui nel campo, pensa che organizzavano un gruppo di lettura, roba da ebrei”. Rudolf Höss va a pesca coi figli ma l’acqua porta con sé pezzi di mandibole umane, tibie, la cenere dei cadaveri.
E dunque questa normalità è incredibile, bisogna ingannarsi per non vederla per quello che è: ripugnante.
Per Hedwig Höss “qui è un paradiso”. E infatti, quando il marito viene trasferito, si impunta, lotta per restare, non vuole rinunciare a questa vita che ha sempre sognato, fuori dalla città, nella natura, con tutti i comfort possibili. E poi i bambini stanno così bene qui!, gli dice.
A tratti, La zona di interesse è un film sul conflitto tra lavoro e famiglia, sulla difficoltà di conciliare le due cose, sulla devozione al proprio mestiere – nello splendido libro di Gitta Sereny, In quelle tenebre (Adelphi), il comandante di Treblinka dice alla scrittrice che gli chiede se forse non avrebbe potuto fare un po’ meno bene il suo lavoro: “Dovevo fare il meglio che potevo, sono fatto così”.
“Col passare del tempo e a guardare bene, un nauseante senso di disagio, un dolore acuto e persistente trafigge lo spettatore: i bambini giocano con dei denti d’oro, Hedwig Höss, davanti allo specchio, si prova una pelliccia, ma è sporca di sangue”.
Se per “la regina di Auschwitz”, la vita nel campo è meravigliosa, non è semplice per gli ospiti abituarsi a questo paradiso. I “vicini” sono rumorosi: i cani da guardia abbaiano e latrano, le vittime gridano, le guardie sparano. La madre di Hedwig chiude le finestre della camera degli ospiti (forse il puzzo di morte è insopportabile) e guarda con sgomento le ciminiere sempre in funzione; la governante si attacca alla bottiglia.
La servitù, i domestici, gli sguatteri, le cameriere sono deportati. Lavorano per i loro aguzzini, ascoltano i loro discorsi d’odio e di scherno nei confronti degli ebrei, si piegano a ogni umiliazione, “perfino a distruggere se stessi”, come faceva notare sempre Primo Levi a proposito della parossistica perfidia di chi è costretto a servire i propri assassini con la speranza di sopravvivere.
I prigionieri, quando non sono impiegati nella casa degli Höss, ci vengono mostrati camminare in fila indiana minacciati da SS a cavallo, li vediamo tra le fronde, di spalle. Sfuggono al nostro sguardo, non li mettiamo mai a fuoco.
Ci sono scene spudorate: un prigioniero sparge le ceneri dei suoi compagni sui fiori degli Höss come fertilizzante; Höss esce in giardino, sovrappensiero, chiude la doccia che perde acqua, mentre si presume pensi proprio in quel momento a come perfezionare l’efficacia di quelle a gas; delle api si posano sui fiori, la scena è all’apparenza convenzionale nelle sue velleità artistiche, ma forse quei fiori, come quelli di Bataille, sono belli “perché appaiono conformi a ciò che deve essere, cioè rappresentano, per quello che sono, l’ideale umano”. Sono fiori che raccontano dell’ordinarietà di questa vita borghese molto agognata, fatta di apparenze, di servizi da tè, torte e ricevimenti; sono fiori gradevoli per chi li fa piantare, in un giardino che è segno inequivocabile di status, ma sono anche terribili, mostruosi, sordidi – ancora, come quelli di Bataille.
I cespugli servono a nascondere alla vista gli inceneritori, quello che accade nel campo. Anche per questo forse Rudolf Höss, nel film, impone ai suoi sottoposti di non raccogliere lillà dai cespugli. Il campo deve essere ordinato, gradevole alla vista ma prima di tutto funzionale, perfetto in ogni dettaglio.
A partire dagli anni Novanta, dopo la gavetta in BBC, Glazer dirige molti video musicali di prestigio – Radiohead, Blur, Massive Attack, Nick Cave, Jamiroquai – e poi arrivano i film: Sexy Beast del 2000, che è un mezzo cult, Birth del 2004 e il molto divisivo Under the Skin, presentato nel 2013 a Venezia e accolto con bordate di fischi ma anche tanti applausi. Come La zona di interesse, anche Under the Skin è l’adattamento di un libro (qui di Michel Faber) in cui il regista si prende parecchie libertà, un approccio che Hitchcock avrebbe apprezzato – come disse infatti a Truffaut a proposito degli adattamenti cinematografici: “Leggo la storia solo una volta. Se mi piace l’idea di base la faccio mia, dimentico completamente il libro e faccio del cinema”.
Scarlett Johansson interpreta una misteriosa predatrice aliena che, sfruttando la sua bellezza, abborda uomini soli, tristi e disperati per le strade di Glasgow. Questi uomini vengono poi risucchiati in una melma nera: che ne è di loro? E chi lo sa! Si presume diventino bistecche nel piatto di qualche gourmet alieno, ma è una supposizione suggerita dal romanzo, non dal film di Glazer.
In Under the Skin cominciano a farsi evidenti alcuni aspetti distintivi del suo cinema: pochi o nessun retroscena dei personaggi e scarsa attenzione alla loro psicologia, dialoghi scarni, musiche seducenti, inquietanti e assillanti, atmosfere perturbanti. La camera segue la protagonista, la riprende in modo a tratti asfissiante. Glazer esercita un controllo quasi soffocante sulle immagini.
Nel film, le immagini mostrano, ma non dicono molto. Sono il regno dell’incertezza, della confusione, della curiosità che non può essere soddisfatta. Le immagini dichiarano la propria resa. Fanno di tutto per sembrare evocative, ma sono spesso indifese.
Attraverso una sorta di “realismo inquietante”, Glazer mostra una realtà verosimile ma deformata, bizzarra e nello stesso tempo seducente. Il film è sempre in bilico tra pretenziosità pseudo-artistica e una certa originalità nella forma. La sensazione, alle volte, è che si voglia solo sentir dire: bravo!
Le sue capacità tecniche sono comunque abbastanza indiscutibili. Anche in La zona di interesse ci sono momenti che denotano grande maestria, e che sono esteticamente accattivanti: una ragazza in bicicletta, ripresa con telecamere termiche, lascia delle mele per i prigionieri la notte. Chi la sta guardando? Noi o le guardie? Il punto di vista non è chiaro, rimane forse solo un po’ di compiacimento per la resa della scena.
Glazer segue Rudolf Höss e gli altri personaggi come fossero sorvegliati – a dire forse: sono prigionieri del nostro sguardo? Prigionieri della Storia, che presto li vedrà condannati? –, si muovono in uno spazio che pare asfittico; la camera è fissa, li segue, li cerca, ma non si avvicina troppo, tenendosi sempre a debita distanza, in campi, lunghi, totali o medi.
“Nel film, le immagini mostrano, ma non dicono molto. Sono il regno dell’incertezza, della confusione, della curiosità che non può essere soddisfatta”.
Se la camera si avvicinasse di più rischieremmo di simpatizzare per loro? O finirebbe per incalzarli, aspettandosi da noi quindi una ferma e inappellabile condanna? Entrambe le possibilità sussistono.
Grazie a questi campi lunghi, totali e medi la crudele e angosciosa quotidianità del campo di sterminio si ritaglia spazio sullo sfondo e lo sfondo diventa protagonista: il fumo nero che esce dai camini dei crematori – come possiamo ignorare cosa rappresenta quel fumo? – , un prigioniero-giardiniere, nella sua tuta da lavoro, che spinge una carriola nel giardino degli Höss, una domestica che versa un bicchiere di acquavite fino all’orlo e lo porta in giardino a passi svelti su un vassoio d’argento – ci chiediamo: è ebrea? Ma soprattutto: speriamo non lo faccia cadere, che le succederà sennò? – catturano il nostro sguardo, che si muove sullo schermo alla ricerca di conferme di quello che sta accadendo là dove non è ammesso.
Vorremmo sbirciare oltre il muro che delimita il campo, stare con le vittime, solidarizzare con loro, ricordare la loro sofferenza, restituire loro dignità, ma anche semplicemente guardarle – l’atto del guardare come fine – e c’è in questo desiderio una componente morbosa per quelle immagini capaci di appellarsi al nostro voyeurismo, che ci attraggono solo per respingerci.
Susan Sontag, nel saggio Davanti al dolore degli altri (nottetempo), scriveva che il “desiderio di immagini che mostrano corpi sofferenti”, è “forte quasi quanto la bramosia di immagini che mostrano corpi nudi”. Quel particolare tipo di desiderio è fonte di tormento, di angoscia. Queste immagini crudeli, per Sontag, ci provocano, chiedendoci: riuscite a guardare? In chi lo fa prevale un senso di soddisfazione, chi non ci riesce prova il piacere di essersi tirato indietro.
Il film di Glazer ci mette in una posizione scomoda, quella di dover resistere non alla tentazione di guardare, ma alla voglia di voler vedere di più.
La tensione che ci porta a desiderare di partecipare con lo sguardo all’orrore è alla radice del dibattito sulla rappresentabilità dell’Olocausto. Non esiste nessun altro evento capace di mettere in discussione più dell’Olocausto le immagini, il loro presunto statuto di verità, la loro funzione archivistica, memoriale, simbolica, feticistica, quello che ci aspettiamo da loro, quello che possiamo ricavarne.
Claude Lanzmann realizza nel 1985 Shoah, un documentario composto essenzialmente da interviste a superstiti ebrei dei campi di sterminio, a testimoni, a carnefici ex nazisti. Lanzmann non si fida delle immagini-archivio, e poi non bastano, non ci sono, infatti le ricrea: gli intervistati, come personaggi, rimettono in scena l’accaduto, rivivendolo davanti agli occhi del regista e ai nostri – approccio destinato a essere replicato con grande successo, da Werner Herzog a Joshua Oppenheimer. Abraham Bomba, deportato che a Treblinka era costretto a rasare i capelli delle prigioniere prima che entrassero nelle camere a gas, si racconta nella sua bottega di parrucchiere, concentrato sul taglio che sta eseguendo; poi tentenna, si interrompe quando il ricordo si fa troppo disturbante e le parole non possono restituire l’esattezza dell’orrore. Per Lanzmann la verità è testimoniale, è solo di chi era lì, di chi ha visto, di chi può raccontare o non è in grado di farlo. Il ruolo del cinema è quello di immortalare questa verità.
Il momento che riassume con maggior precisione l’orrore dell’Olocausto è forse quello delle camere a gas. Le porte si chiudono, i prigionieri nudi vanno incontro al loro destino con un residuo di speranza. Già solo questa mia breve descrizione mi pare pornografica: che diritto ho di scrivere che i prigionieri nudi mantengono un residuo di speranza? Non c’ero, non ho visto, non esistono immagini delle camere a gas in funzione.
Le quattro foto scattate clandestinamente nell’agosto del 1944 ad Auschwitz da un anonimo membro dei Sonderkommando.
Nel film di Lanzmann, a dirlo è una guardia di Auschwitz: se vuoi vivere, devi sperare. Dopo aver convinto i prigionieri – spogliatevi, ci servite ancora, non vi preoccupate, non vi accadrà niente è solo che vi vogliamo puliti – quelli erano come rassicurati, dubitavano ma erano costretti alla fiducia. Sullo schermo vediamo l’ingresso delle camere a gas, come erano nel 1985, prima dal cortile, poi dal tetto.
Le camere a gas di Treblinka erano nascoste da filo spinato, staccionate e alberi. Abraham Bomba e gli altri parrucchieri reclutati dai nazisti avevano l’esplicito ordine di dire alle donne che dopo il taglio di capelli e una doccia sarebbero state libere di andare. Quando descrive le camere a gas, Lanzmann lo incalza, chiede di ripetere, di spiegarsi meglio, di entrare nei dettagli. “Cos’hai provato la prima volta che le hai viste entrare nude?”; “Io ho dovuto obbedire agli ordini: tagliare i capelli, fare un taglio normalissimo, come avrebbe fatto qualsiasi altro parrucchiere”.
Se per Lanzmann solo la testimonianza è conoscenza, non tutto può essere rappresentato sotto forma di fiction. In modo particolare, non si può rappresentare quello che accadeva nelle camere a gas, perché non ci sono sopravvissuti che possano fornirne precisa testimonianza.
Non è un caso che una delle scene più discusse di Schindler’s List di Spielberg, forse il film sull’Olocausto per eccellenza e uno dei più controversi – perché accusato di eccessivo glamour, di privilegiare la reazione emotiva dello spettatore al rigore storico, di creare arditi cortocircuiti tra sesso e violenza, di feticizzare la morte – sia ambientata proprio nelle camere a gas, o meglio: voglia convincere lo spettatore di essere ambientata nelle camere a gas. Per Lanzmann, Spielberg ha fallito, creando immagini vuote, banali, inutili, offensive.
Glazer non mostra le camere a gas, ma cerca di dargli un suono. Il regista ha modellato il film sulle sonorità di Mica Levi, talentuosissima musicista già autrice della colonna sonora del suo film precedente, Under the Skin, e sul lavoro di sound design di Johnnie Burn.
Curioso, perché nell’ultimo film di Glazer le musiche quasi non ci sono: sentiamo l’acqua del ruscello che scorre, i colpi di pistola, le urla degli internati, lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli delle guardie, i giochi dei bambini nel giardino, le chiacchiere frivole, mediocri e dunque spaventose dei tedeschi nella villa.
Come fossero degli estratti trasmessi da una radio o da una televisione collocata altrove, in un luogo precluso alla vista, irrompono nella porzione di spazio che Glazer riprende brandelli sonori di una realtà altra, crudele e difficile da accettare – come è possibile infatti che nel giardino si festeggi un compleanno mentre negli inceneritori vengono bruciati i cadaveri dei prigionieri? Che dall’altra parte del muro si muoia di inedia e che aldiqua si consumino invece in gran quantità pasticcini, salatini, torte, wurstel, uova e grappe? Ma l’Olocausto è forse l’esperienza che più di ogni altra nella Storia ci mette a confronto con l’inimmaginabile, con l’indicibile, con le contraddizioni e con i limiti della rappresentazione, del racconto, del linguaggio. D’altronde, come ricorda Hannah Arendt, è proprio su questa enormità, su questo disequilibrio tra reale e implausibile – non può essere vero! / lo è! – che i nazisti, con perverso cinismo, facevano affidamento: infatti, “erano convinti che la miglior chance di successo di questa impresa [N.d.R.: lo sterminio degli ebrei] risiedesse nel fatto che nessuno all’esterno avrebbe potuto ritenerla vera”.
Il lavoro di Mica Levi e Johnnie Burn dunque sembra essere teso sia a enfatizzare la drammaticità di alcuni momenti di sconcertante ordinarietà – come a dire che, a dispetto di quello che vediamo, c’è di più, c’è dell’altro – sia a connotarne la natura quasi ultraterrena. Hanno una funzione iper-realistica e una natura eerie. Sono infatti suoni inferi, alieni, gelidi, penetranti, artificiali, voci umane adulterate, triturate, fantasmatiche, lamenti metallici. Da dove provengono? Lo spettatore del film di Glazer si ritrova immerso in un clangore paralizzante, abita i suoni come si abita uno spazio appena distinguibile e profondamente irriconoscibile, un mondo che gli è in parte familiare ma ostile, ammaliante però intollerabile per più di qualche breve istante. Il sottofondo sonoro attira lo spettatore e lo respinge, lo ridesta e lo atterrisce.
Ne La zona di interesse si sovrappongono e si scontrano un film fatto di immagini, e un film fatto di suoni, che lavora quasi a un livello subconscio. Quando il film comincia lo schermo è nero. Le musiche di Mica Levi accompagnano – qui tristissime e romantiche – lo spettatore, scendendo di tono, fino all’arrivo delle immagini, la già citata scena placida e bucolica simil-vacanziera. Quando il film finisce, lo schermo torna nero, la musica ci trascina in una fanghiglia gelida e melmosa.
Il reale non si può tradurre solo nel visibile, l’immagine è imperfetta, così come l’occhio. La musica quindi, in questo processo di parziale osservazione e arbitraria ricostruzione – forse nelle ambizioni anche di svelamento, mostrare cosa c’è sotto l’apparenza –, ha quindi un ruolo non secondario.
Il film di Glazer vuole essere un film di fatti, vuole che lo spettatore lo creda verosimile, scrupoloso nei dettagli ricostruiti. Ma cosa sono i fatti in un’opera di finzione se non una proposta di sguardo che si crede, a volte illudendosi, oggettiva? Cosa la verosimiglianza se non un’approssimazione della verità, un’imitazione maldestra della vita? La realtà è sfuggente, infida, scivolosa e ogni tentativo di ritrarla come tale è destinato a parziale o spettacolare insuccesso.
E infatti, parafrasando Walter Siti, il realismo deve coglierci impreparati e cogliere impreparata la realtà stessa, non cercare di aderirle. Una domanda, che sembra oscena: qual è il rumore dello sterminio di massa più grande ed efferato mai avvenuto? Per ricreare il suono dei forni crematori, Johnnie Burn ha posizionato un microfono nel camino di casa sua, orientando il ritmo del crepitio con dei cartoncini, e aggiungendo poi il rumore dei passi e quello di macchinari tessili.
Il procedimento segue un’accurata ricerca e catalogazione di suoni, un lavoro di archeologia, verifica, studio, interviste ai superstiti. Eppure, anche nella sua accuratezza – o proprio per la sua accuratezza – , nel tentativo di essere il più possibile rispettoso dell’attendibilità storica, il risultato sfiora il kitsch.
“Il film di Glazer vuole essere un film di fatti, vuole che lo spettatore lo creda verosimile, scrupoloso nei dettagli ricostruiti. Ma cosa sono i fatti in un’opera di finzione se non una proposta di sguardo che si crede, a volte illudendosi, oggettiva?”
Le vittime sono un sofisticato e intermittente ronzio. Il sottofondo sonoro dovrebbe evocare morte, ma potrebbe ricordare l’accensione di un enorme robot che si appresta a combattere un kaijū in un film di Guillermo Del Toro o Michael Bay. Genererà forse in alcuni un senso di inquietudine diverso da quello che ci si aspetterebbe: tanto lo sforzo è mirabile a livello tecnico, quanto il risultato è artificioso. La realtà, per l’appunto, non la puoi rifare pari pari.
Negli anni Novanta e Duemila, quando i video musicali erano ancora una forma di racconto per immagini dominante, molti registi di talento sono arrivati al lungometraggio dopo essersi cimentati con successo e inventiva nel videoclip: da Michel Gondry a Spike Jonze, passando per Edgar Wright e Romain Gavras.
Alcuni di loro sono riusciti a portare al cinema nuove idee, una certa freschezza nel racconto, ricchezza compositiva e originalità espressiva. Altre volte, superficialità e manierismo videoclipparo hanno avuto la meglio.
Ne La zona di interesse, tra immagini termiche e close-up su api e fiori, la sensazione è che ci sia spesso qualcosa di troppo e che manchi invece qualcosa di importante: la fiducia nelle immagini.
Nel febbraio del 1943, il vero Rudolf Höss rilascia una circolare per tutti i membri del campo: “Segnalo una volta ancora che è vietato scattare foto nei dintorni del campo. Punirò severamente coloro che non rispettano quest’ordine”. I nazisti avevano paura delle immagini; temevano che le immagini gli sarebbero sopravvissute, che avrebbero consegnato al mondo le prove inconfutabili delle loro colpe.
Epperò i nazisti avevano anche come una tendenza all’accumulo, un’ossessione catalogatrice: piani, progetti, scartoffie di ogni tipo, il tutto prodotto in grandi quantità.
Ad Auschwitz esistevano addirittura due laboratori fotografici. Dunque, erano terrorizzati dalle immagini, ma ne erano anche attratti. L’unica testimonianza visiva della soluzione finale sono quattro foto scattate dentro il campo di Auschwitz da un anonimo membro dei Sonderkommando. Sono giunte fino a noi dentro a un tubetto di dentifricio, come il diamante di cui si parla nel film.
Alle foto, il filosofo Georges Didi-Hubermann ha dedicato un libro, Immagini malgrado tutto (Carocci) – che una ventina di anni fa ha scatenato un violento dibattito sul ruolo e il valore delle immagini in campo storiografico – e un brevissimo saggio, Scorze, recentemente ripubblicato da nottetempo – le scorze del titolo sono, ancora, quelle della corteccia delle betulle.
Due delle quattro foto mostrano delle donne, svestite, che si apprestano a entrare nelle camere a gas. Il fotografo anonimo ha scattato senza guardare, nascondendo in qualche modo la macchina fotografica che gli era stata consegnata grazie all’aiuto della resistenza polacca. Le foto sono sghembe, fuori asse. In una si vedono praticamente solo le cime delle betulle che circondano il campo.
“Vorremmo sbirciare oltre il muro che delimita il campo, stare con le vittime, solidarizzare con loro, ricordare la loro sofferenza, restituire loro dignità, ma anche semplicemente guardarle”.
Oggi, le quattro foto sono riprodotte su pannelli all’aperto, là dove sono state scattate, tra gli alberi di Auschwitz. Sul finale del film, Glazer ci mostra il campo diventato museo. La camera inquadra le donne e gli uomini che ci lavorano, i lunghi corridoi, le teche espositive. Sembra un inserto documentaristico, un po’ Austerlitz di Sergei Loznitsa. Finalmente siamo all’interno del campo di sterminio, ma il nostro voyeurismo non è soddisfatto.
E se fosse giusto così? Se Glazer avesse ragione a non fidarsi delle immagini? Proprio oggi che è più semplice assecondare immediatamente i nostri istinti, il nostro desiderio morboso di immagini, ci tocca invece fare un passo indietro, stare fuori dalle mura del campo: per scelta incontestabile di Glazer, dobbiamo convivere con i nazisti, abitare il loro giardino dove crescono mediocri desideri da borghesia di provincia.
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