Telmo Pievani
I maschi sono aggressivi “di natura”, ce l'hanno scritto nel DNA. Quante volte lo abbiamo sentito dire? Eppure frasi del genere contengono una enorme quantità di errori scientifici e culturali. Proprio la storia naturale può aiutarci a smontare gli stereotipi di genere. Dobbiamo solo imparare a leggerla correttamente.
I maschi sono aggressivi “di natura”. Ce l’hanno “scritto nel DNA”. Quante volte lo abbiamo sentito? Certo, i maschi umani sono inzuppati di testosterone, un po’ più robusti delle femmine, fanno la voce grossa, vengono educati sin da piccoli a fare gli uomini veri che non devono chiedere mai. Se queste affermazioni di spiccio senso comune vi hanno già dato un sentore di banalità (e un retrogusto di appagante de-responsabilizzazione) siete sulla strada giusta. Del resto, se ce l’abbiamo scritto nel DNA, non è poi del tutto colpa nostra: possiamo chiedere le attenuanti genetiche.
In queste affermazioni è contenuta una molteplicità di errori. Vediamone alcuni. Mettiamo per assurdo che i maschi siano davvero violenti per natura. Dobbiamo per questo pensare che sia necessario e inevitabile il comportamento da macho e che il suo contrario, un maschio gentile e affettuoso, sia contro-natura? No di certo, perché la natura non è un’autorità morale. Ciò che deriva dall’evoluzione, dalla biologia, non necessariamente è “buono”, “giusto” e “normale”. Per un semplice motivo: negli ecosistemi esistono comportamenti meravigliosi e terribili; la natura è colma di violenza, discriminazioni, morte, ma anche solidarietà, cooperazione, altruismo. Se la usassimo come criterio etico, allora dovremmo rassegnarci alla “naturalità” anche dello stupro e dell’infanticidio. La biodiversità sperimenta le soluzioni adattative più disparate: non è il posto dove andare a cercare norme e devianze. Come aveva già spiegato con grande lucidità David Hume nel Settecento, è assai pericoloso far discendere il dover-essere dall’essere.
Il secondo errore è pensare che il DNA sia un oracolo, al quale chiedere vaticini sul nostro destino. Per quelli che dicono che la violenza maschile (o la guerra) è scritta nel DNA, è consigliabile una visita in un dipartimento di biologia, per vedere che cos’è davvero il DNA: un batuffolo nanometrico di acido desossiribonucleico contenuto nel nucleo delle cellule eucariotiche, arrotolato a spirale a formare un’affascinante doppia elica con le basi nucleotidiche appaiate, che in ogni millisecondo viene letto, trascritto e tradotto per sintetizzare le proteine, dialogando con tutto il resto dell’armamentario complessissimo che costituisce una cellula, e lasciandosi regolare da delicate influenze esterne. La logica del DNA è la probabilità, non il fato. In gran parte non sappiamo nemmeno a cosa serve, è ridondante, pieno di sequenze ripetute e di rottami del passato. Soprattutto, su quella lunga molecola non c’è “scritto” proprio niente.
Il terzo errore è spacciare per “naturale” ciò che a noi sta a cuore per ragioni culturali. Le ideologie lo fanno da sempre: vi impongono un ordine delle cose dicendovi che è un ordine naturale. Prendiamo le famiglie cosiddette naturali. Se esistessero e fossero tali – cioè il prodotto della nostra evoluzione – dovremmo trovarne traccia nei nostri antenati e nei parenti più prossimi. Ebbene, appena al di fuori della specie umana, nel piccolo intorno filogenetico dei nostri cugini ominidi, già si sperimentano le soluzioni più differenti e fantasiose. In fatto di famiglie, i nostri parenti più stretti combinano un bel pasticcio. Vediamo.
“I maschi sono aggressivi ‘di natura’. Ce l’hanno ‘scritto nel DNA’. Quante volte lo abbiamo sentito? Certo, i maschi umani sono inzuppati di testosterone, un po’ più robusti delle femmine, fanno la voce grossa, vengono educati sin da piccoli a fare gli uomini veri”.
Gli scimpanzé maggiori sono monogami ma con molta promiscuità: i maschi fanno i gradassi, ma poi alla fine sono le matriarche a tenere insieme il gruppo. I bonobo non hanno una famiglia duale, ma i cuccioli vengono accuditi da tutto il gruppo, il sesso è un eccellente modulatore sociale dell’aggressività e lo fanno in tutte le maniere, incluse omosessualità e bisessualità. Per fare pace dopo momenti di tensione organizzano orge di foresta in cui tutti si accoppiano con tutti. Tra i gorilla invece il maschio dominante si accoppia con più femmine. Gli oranghi sono monogami, ma nessuno ci metterebbe la mano sul fuoco (persino in animali che si credevano perfettamente monogami, come i cigni, quando i ricercatori impiccioni fanno il test genetico delle uova si scoprono altarini).
Questo arcobaleno di soluzioni naturali è ovvio, perché ciascuna soluzione ha i suoi pro e i suoi contro in base all’ambiente sociale e fisico in cui la specie è immersa. Con la monogamia si presidiano meglio i pochi preziosi cuccioli e i maschi sono responsabilizzati a prender parte alle cure parentali. Ma la monogamia ha il difetto di limitare la variabilità genetica e dunque viene compensata da iniezioni di tradimenti. Dunque, noi a chi vogliamo assomigliare di più, agli scimpanzé, ai bonobo o ai gorilla? Quasi tutti votano bonobo, ma è una domanda priva di senso.
La natura non è soltanto contraddittoria, è anche radicalmente ambivalente. I nostri parenti più stretti sono gli scimpanzè maggiori. Il compianto etologo Frans de Waal mostrava sempre ai suoi studenti due video appaiati: a sinistra questi primati si spulciano e giocano amabilmente in un clima di armonia equatoriale; a destra, una fila di maschi con il pelo rizzato esce dal territorio, come se obbedissero a un segnale le belve inferocite attaccano un gruppo rivale, strappano dalle braccia della madre un cucciolo, lo sbranano, lo fanno a pezzi e gli mangiano i visceri. Di quale delle due scene volete essere i parenti stretti? Il problema è che ciascuno di noi porta in sé entrambi quei retaggi. Dunque la potenzialità di comportarsi come nella scena a sinistra o come in quella a destra è inscritta nella nostra natura, ma poi la scelta effettiva tra l’una e l’altra è una decisione che viene dettata non dalla natura, ma da fattori culturali, sociali, morali e individuali.
Noi maschi umani, poi, in fatto di naturalità dovremmo fischiettare facendo finta di niente. In tutti gli animali, noi siamo quelli che producono le cellule sessuali di minore valore: ne generiamo a milioni e le spargiamo a caso per il mondo durante tutta la vita. Nemmeno una su mille ce la fa, a entrare in quella cellula uovo. Le femmine al contrario producono poche cellule sessuali, in numero limitato, energetiche e preziose. Ne discende che sono loro a scegliere, di norma, con chi accoppiarsi. I maschi, per farsi notare, ne combinano di tutti i colori: petto in fuori lottano fra loro a cornate e musate, oppure si sfidano in una panoplia di ornamenti sfarzosi, colori sgargianti, danze seduttive, canti melodiosi e ogni altra trovata nella rubrica “spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te”.
E infatti le femmine a volte decidono di fare tutto da sole: si auto-fecondano e si clonano, generando solo femmine. Si chiama partenogenesi. Altri optano per l’ermafroditismo e recano con sé sia le cellule maschili sia quelle femminili, per tutta la vita o in sequenza, cioè cambiando sesso all’occorrenza. Il destino più paradigmatico del maschio in natura è però quello della rana pescatrice (che non è un anfibio, ma un pesce di profondità, ed è buono da mangiare). Nelle immensità abissali e oscure in cui vivono, riuscire a beccarsi per riprodursi è un’impresa ad alta improbabilità. Quando succede, meglio rimanere attaccati a vita. Le grosse femmine hanno preso molto sul serio la strategia e viaggiano con una dozzina di piccoli maschi incollati sulla pelle: i poveretti si sono avvicinati e sono rimasti invischiati. Poiché con il tempo la femmina giustamente considera inutile portarsi dietro proprio tutto il maschio, gli prosciuga dall’interno tutti gli organi, lasciandogli solo quelli che le servono: le gonadi. In pratica, il maschio si è evoluto in un testicolo ambulante. Tecnicamente, si chiamano “maschi nani parassiti” (e la categoria forse non riguarda solo la rana pescatrice).
Ancora convinti che la natura sia un idillio di normalità nel quale cercare conforto? Ora avviciniamoci alle questioni di genere. Il millenario patriarcato, che in alcune culture è ancora dominante e nelle altre resiste sotto mentite spoglie, ha qualcosa di “naturale”? Chiediamolo ai nostri parenti primati. Negli entelli, cercopitecidi dell’India settentrionale, le cure parentali sono interamente appannaggio delle femmine, i maschi passano la loro esistenza impegnati in lotte tra bande, competono con grande stress per scalare la gerarchia sociale e quando diventano i capi ammazzano tutti i cuccioli del maschio sconfitto. Gomorra non ha inventato niente. Ora però pensate ai tamarini sudamericani: le femmine si accoppiano in modo libero e multiplo, allattano ma poi lasciano il resto delle cure parentali ai maschi, che si danno un gran da fare in famiglia e sono molto premurosi, senza peraltro nemmeno la sicurezza di essere i padri. Chi volete essere, entelli o tamarini? Non chiedetelo all’evoluzione.
In un bel libro recente, Il tempo dei padri, l’antropologa Sarah Blaffer ha messo in fila le evidenze che smontano gli stereotipi di genere anche all’interno della storia naturale di Homo sapiens, a cominciare dalla dicotomia fra maschio cacciatore e donna raccoglitrice e levatrice. I ruoli in realtà sono sempre stati molto più fluidi, con una partecipazione femminile sostanziale alle attività di caccia e le cure parentali condivise all’interno del gruppo (nonni inclusi). Ma la riprova più sorprendente è arrivata negli ultimi anni, ovvero quando in alcuni paesi finalmente gli uomini hanno iniziato a prendere i congedi di paternità.
“Noi maschi umani, poi, in fatto di naturalità dovremmo fischiettare facendo finta di niente. In tutti gli animali, noi siamo quelli che producono le cellule sessuali di minore valore: ne generiamo a milioni e le spargiamo a caso per il mondo durante tutta la vita”.
Dai primi studi risulta che questi maschi apparentemente “controcorrente” non solo se la cavano egregiamente (incluse le coppie omogenitoriali), ma manifestano alcuni cambiamenti addirittura fisiologici in seguito all’assunzione delle cure parentali: i livelli ormonali nel sangue diventano del tutto simili a quelli delle madri; gli schemi comportamentali e affettivi si trasformano. Questo significa che il cambiamento di attitudine dei padri accudenti non è affatto contro-natura, ma al contrario ha riattivato competenze biologiche profonde che erano state silenziate da millenni di patriarcato.
Questa ricerca ha due conseguenze di grande rilievo. La prima è di confermare come la genitorialità sia un ruolo più culturale e sociale che biologico (spiegatelo ad alcuni politici). La seconda è che evidentemente il patriarcato, come del resto la schiavitù e la guerra, sono invenzioni recenti rese possibili certo dalla nostra storia evolutiva, ma sostanzialmente culturali e politiche: espedienti di maschi barbuti e violenti che vogliono detenere il potere. La buona notizia è che, essendo invenzioni culturali, possiamo benissimo farne a meno. Del resto, ancora nell’Ottocento c’era chi sosteneva la naturalità della schiavitù. Oggi nemmeno i neonazisti si spingono a tanto, almeno in pubblico. Quella infame istituzione umana adesso è considerata un tabù. Potremmo fare lo stesso con la guerra e con il patriarcato. Se li bandissimo una volta per tutte dalla storia umana, la nostra “natura” non ne risentirebbe affatto.
Telmo Pievani ha partecipato al primo evento di “Pari. Insieme contro la violenza di genere”, un progetto promosso da nove organizzazioni con il coordinamento di Feltrinelli Education.
Telmo Pievani
Telmo Pievani è filosofo, evoluzionista, scrittore. Collabora con il «Corriere della Sera» e altre testate. Il suo ultimo libro è Il giro del mondo nell’Antropocene (Raffaello Cortina Editore, 2022).
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