"Non ci salverà nessuno": intervista a Colson Whitehead - Lucy
articolo

Nicola Lagioia

“Non ci salverà nessuno”: intervista a Colson Whitehead

29 Agosto 2023

Gangster, truffatori, e una coppia di amici irresistibile: all’apparenza, la Harlem degli anni Settanta sembra molto diversa da quella odierna. È davvero così? Una conversazione con Colson Whitehead su New York, sugli Stati Uniti e sul nostro futuro a partire dal suo "Manifesto Criminale" (Mondadori, 2023).

Crook Manifesto (in italiano Manifesto criminale, edito da Mondadori) è il secondo capitolo della trilogia di Harlem attraverso cui Colson Whitehead mette in scena una sorta di controstoria di New York. Siamo abituati a conoscere questa città attraverso storie ambientate a Manhattan, oppure a Brooklyn. I personaggi di Colson Whitehead si muovono tra le strade di Harlem, lungo la linea di confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è. Come nel precedente Harlem Shuffle, al centro di Crook Manifesto c’è Ray Carney, titolare di un negozio di mobili sulla 125th Street con un passato criminale che ogni tanto torna a bussare alla sua porta. Se Harlem Shuffle era ambientato per lo più negli anni Sessanta, qui va in scena il decennio successivo. È l’epoca dei vestiti sgargianti, dei Jackson 5 all’apice del successo, della corruzione dilagante in una città sull’orlo della bancarotta. È il momento della blaxploitation ma anche della spaccatura tra Black Panthers e Black Liberation Army su come favorire il cambiamento in un paese ancora tremendamente razzista: riformismo o rivoluzione? Come nel romanzo precedente, ritroviamo Elizabeth, la moglie di Carney, ma soprattutto Pepper, ex compare di Ray nelle avventure criminali del passato ma sempre pronto a tornare al suo fianco in caso di necessità. La traduzione italiana del romanzo è di Silvia Pareschi, che ha tradotto anche questa intervista e che Lucy ringrazia.

Il ritmo di Harlem è ambientato in un’epoca precedente alla tua nascita. Manifesto criminale si svolge negli anni Settanta, il periodo della tua infanzia. Com’è stato immergersi di nuovo in quelle atmosfere?

In quegli anni ero molto giovane, perciò ricordo più che altro la sporcizia, ma l’atmosfera l’ho ricreata soprattutto attraverso le mie ricerche. La città non cambia mai drasticamente, e questo aiuta. Potrà essere un po’ più sporca o un po’ più pulita, ma è sempre la stessa città. Il tono della narrazione lo avevo già definito in Il ritmo di Harlem, così per Manifesto Criminale ho concentrato le mie ricerche intorno a particolari episodi della storia della città – l’indagine della Commissione Knapp sulla corruzione della polizia avvenuta nel 1971, per esempio, e i festeggiamenti per il Bicentenario del 1976.

Il libro descrive un gran numero di attività criminose. Truffe, furti, ricettazione, spaccio di droga, tutto con dovizia di particolari. Ho trovato illuminante l’episodio in cui Big Mike, il padre di Carney, sottolinea la necessità di un buon pasto prima di una rapina. È la stessa cosa che ho sentito dire molti anni fa da un mio anziano concittadino che aveva frequentato il mondo della malavita. Come hai svolto le ricerche? Come è nato il tuo interesse per quel mondo?

Per descrivere la cultura criminale mi sono basato in parte sulle autobiografie di gangster e truffatori, ma soprattutto ho lavorato d’immaginazione. Mi piace inventare il folklore delle sottoculture, che si tratti delle consuetudini degli ispettori degli ascensori, dei ricettatori o di una squadra di rimozione degli zombie. Chi non vorrebbe un buon pasto prima di un colpo grosso? Non mi definirei particolarmente interessato al crimine, ma i protagonisti di questi libri svolgono un mestiere peculiare, perciò devo immedesimarmi nei personaggi per renderli in modo realistico.

Ray Carney e Pepper sono una perfetta coppia di amici. Difficile non affezionarsi a loro. Immagino che li ritroveremo nel terzo episodio della trilogia, che se non sbaglio sarà ambientato negli anni Ottanta. Passi molto tempo con questi personaggi. Cosa provi per loro?

Mi diverto a scrivere di loro, ed è per questo che dopo il primo libro ne ho scritto un altro, e ora sto scrivendo il terzo. Continuavano a venirmi in mente nuove storie e avventure in cui coinvolgerli, nuove situazioni difficili da cui costringerli a districarsi. Le loro personalità profondamente diverse, il loro atteggiamento nei confronti della vita, della famiglia e del crimine mi permettono di esplorare il nostro mondo in modi differenti. Il lungo arco temporale della storia – trent’anni della loro vita, trent’anni della vita di una città – mi lascia molto spazio di movimento, e questo per me è entusiasmante.

“Non ci salverà nessuno”: intervista a Colson Whitehead - Colson Whitehead fotografato da Claudio Sforza (c).

Colson Whitehead fotografato da Claudio Sforza (c).

Al centro della tua storia c’è New York, vista attraverso Harlem. Nel tuo racconto la città attraversa varie crisi, in certi momenti sembra sull’orlo del collasso, ma poi riemerge più forte e più nuova. La New York di Manifesto Criminale è una città corrotta, violenta, sporca e cattiva, che però è dotata di un’enorme vitalità culturale e non esclude la possibilità di conflitti di classe e cambiamenti sociali. Rispetto alla New York che descrivi, com’è la New York di oggi?

Come dicevo, New York può essere più pulita o più sporca da un anno all’altro, ma è sempre la stessa città. Oggi chi cammina in 125th Street non trova più la 125th Street di Ray Carney, ma una via popolata dagli stessi McDonald’s, Starbucks e Gap che si trovano in tutte le grandi città del mondo. Ma due isolati più a nord le nuove generazioni di grandi lavoratori vivono negli stessi palazzi di arenaria dove centocinquant’anni fa vivevano i primi abitanti di Harlem, gli irlandesi, gli italiani e gli ebrei immigrati dall’Europa. Quegli immigrati sono entrati nella classe media e hanno lasciato Harlem, e adesso i loro pronipoti si trasferiscono a Harlem per cominciare la loro avventura. La città cambia continuamente e rimane sempre la stessa.

Nella prima parte del libro, Carney si mette nei guai per procurare alla figlia un biglietto per il concerto dei Jackson Five al Madison Square Garden. In quel momento (siamo nel 1971), Michael Jackson ha tredici anni. Durante il concerto, Michael dice dal palco: “Stasera vorrei parlarvi della malinconia”. Un’affermazione apparentemente assurda da parte di un bambino, eppure credibile da parte di quel bambino. Michael Jackson è stato una figura controversa, ma ha influenzato tantissimo il nostro immaginario. Pochi giorni fa, a Roma, ho visto un ragazzo vestito da Michael Jackson, a dire il vero piuttosto bravo: cantava Billie Jean e faceva il moonwalk davanti a un centinaio di ragazzini estasiati. Cosa ne pensi di Michael Jackson e di ciò che ha rappresentato e rappresenta?

Quel che penso di Michael Jackson, cantante di talento e molestatore di bambini, non è rilevante. Dovevo scegliere dei dettagli che si adattavano alla storia, e Michael Jackson faceva al caso mio, come dettaglio storicamente accurato e come personaggio che rientra nel tema della corruzione che attraversa tutto il libro. In questi romanzi le persone e le istituzioni hanno una faccia che mostrano al mondo e un’altra che tengono nascosta. Questo vale per Ray Carney, per i poliziotti corrotti, per gli uomini politici e anche per Michael Jackson. Nel 1971 il mondo vedeva un bambino prodigio, ma noi oggi sappiamo che aveva un padre violento e che lui stesso, da grande, avrebbe compiuto abusi sui minori. Il rimando a Jackson svolge diverse funzioni all’interno del romanzo.

“La città cambia continuamente e rimane sempre la stessa”.

Nella seconda parte di Manifesto criminale compare Roscoe Pope, un comico irriverente e sardonico (“un nuovo tipo di nero”, riflette Pepper, rappresentante della vecchia guardia). A un certo punto, durante il suo spettacolo, Roscoe Pope prende di mira Via col vento per fare una riflessione più ampia. “Questi film ce li becchiamo perché non ci insegnano com’è andata davvero. A scuola? C’è un sacco di roba che non ci dicono. George Washington attraversa il fiume Delaware. Un momento famoso della storia americana. Non ti dicono che stava attraversando il fiume perché aveva saputo che c’era una svendita di schiavi”.

Siamo rimasti tutti sconcertati per le recenti dichiarazioni di Ron DeSantis, che vuole insegnare il lato positivo della schiavitù agli afroamericani nelle scuole della Florida. Perciò ti chiedo: gli Stati Uniti sono consapevoli del loro passato? Un passato che non riguarda solo la storia degli afroamericani ma anche, per esempio, quella dei nativi americani. Perché un Paese così potente fa tanta fatica ad affrontare i lati oscuri della propria storia?

Si tratta di una procedura standard, nei paesi potenti come in quelli meno potenti: se chiedete ai vostri predecessori di rispondere dei loro crimini, qualcuno potrebbe chiedere a voi di rispondere dei vostri.

La seconda parte del romanzo descrive la produzione di un film: Nefertiti T.N.T. Il suo intraprendente regista, Zippo, sta tentando la via della blaxploitation. Quel genere di cinema popolare, al di là di una certa rozzezza (che era piuttosto divertente), aveva una forza innegabile e svolgeva un ruolo politico. Che rapporto hai con quel cinema? Ritieni che oggi il cinema possa ancora svolgere un ruolo simile?

La blaxploitation era molto in voga in quel periodo – il pubblico nero voleva vedersi sul grande schermo – e a volte riusciva a infilare nelle pellicole qualche “contenuto politico”, ma sempre molto semplicistico e poco evoluto. Prima venivano l’elemento horror, l’azione, il sesso e la violenza. Non ci trovo niente di male. Amo il cinema, e naturalmente è lì che ho trovato l’ispirazione per questi libri – per me il genere della rapina è più cinematografico che letterario. Ma chi cerca un discorso politico elevato in Scream Blacula Scream resterà deluso. Oggi la maggior parte dei film americani non si occupa di tali questioni. Forse in Italia è diverso.

Sono rimasto colpito da un’intervista a Alice Walker uscita di recente sul «Corriere della Sera». L’occasione era il decennale di Black Lives Matter. Alice Walker non è stata molto indulgente: “Black Lives Matter” ha detto, “non ha la purezza del movimento per i diritti civili di Martin Luther King. Quel glorioso movimento aveva un fondamento spirituale. Black Lives Matter, a quanto vedo, non ha la stessa portata spirituale. È un’organizzazione molto americana, forse troppo americana, con limiti ben definiti, legata a questioni contingenti”. 

Cosa pensi di queste affermazioni?

Scrittore Americano Nero: (Che bella novità: stiamo parlando del mio lavoro e non mi è stata ancora rivolta una domanda su Black Lives Matter. Di solito a quest’ora un Giornalista Europeo Bianco mi avrebbe già interpellato su Black Lives Matter… perché sono nero e potrei avere qualche pensiero da condividere su un gruppo non strutturato di attivisti che non fa più notizia da quando è stato eletto Biden, due anni e mezzo fa…?)

Giornalista Europeo Bianco: Passiamo a Black Lives Matter…

Nel libro parli anche della scissione tra Black Panthers e Black Liberation Army. Riforma o rivoluzione. Oggi ha ancora senso pensare in questi termini? Per essere più precisi: esiste un aspetto della nostra vita politica e civile per il quale il termine “rivoluzione” abbia una reale necessità, oltre che possibilità?

Uhm, non ci ho mai pensato. La questione “riforma o rivoluzione” risale a un momento specifico nella storia americana di cinquant’anni fa – non mi è mai venuto in mente che si potesse applicare alla nostra attuale temperie politica.

“Non ci salverà nessuno”: intervista a Colson Whitehead - Manifesto criminale, Mondadori 2023.

Manifesto criminale, Mondadori 2023.

Le imprese criminali dei personaggi del romanzo sono molto avvincenti. Ma è altrettanto interessante gironzolare nel negozio di Carney. Il mondo della vendita al dettaglio è già di per sé un’epopea, e tu lo descrivi bene. Le tue osservazioni sui mobili di Carney sono sempre interessanti. Non posso fare a meno di chiederti: qual è il tuo rapporto con poltrone, divani, con l’arredamento in generale, e qual è il tuo stile preferito?

Per il negozio di Carney dovevo scegliere uno stile d’arredamento specifico, e lo stile moderno della metà del Novecento era il più adatto. E il fatto che Carney trovi il tempo di ammirare la forma curvilinea di un tavolino boomerang anche in mezzo a una sparatoria aggiunge un tocco di umorismo. Tuttavia quando ho cominciato a scrivere non mi ero reso conto che per me, cresciuto con la televisione degli anni ’60 e ’70, quello stile rappresentava il mio “arredamento originario”, il mio ideale platonico di arredamento. Ma un romanzo è un viaggio di scoperta, e se questo è ciò che ho scoperto scrivendo la trilogia, non posso fare altro che accettarlo.

Torniamo alle origini. Sono passati più di vent’anni: chi ci salverà, gli intuizionisti o gli empiristi?

Non ci salverà nessuno.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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