Donatella Di Pietrantonio
03 Dicembre 2024
Figlia di contadini veneti emigrati in Francia, Inès Cagnati (1937-2007) è stata una sconosciuta per i lettori italiani fino al 2022, quando Adelphi ha tradotto per la prima volta "Génie la matta". Oggi, la pubblicazione de "I pipistrelli" ne conferma il valore.
A partire dal 2022 Adelphi ha pubblicato Génie la matta, Giorno di vacanza e, di recente, I pipistrelli (traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala). Abbiamo ora in italiano tre libri di Inès Cagnati, prima sconosciuta da noi, tre libri popolati da creature gettate nel mondo. Lo sono anche l’autrice e le sorelle, figlie di contadini veneti immigrati nel secolo scorso in una Francia rurale e paludosa. Lei diventerà poi docente al liceo Carnot di Parigi, e scriverà.
Vivono nelle sue pagine queste bambine povere, e dopo ragazze, che nessuno voleva. Sono state concepite per caso, per sbaglio o con violenza. Ne sono consapevoli, risuonano di rigo in rigo le piccole voci dolenti e ferite, ma asciutte. Ecco Galla, in Giorno di vacanza: “Non mi sarebbe piaciuto per niente avermi come figlia. Perciò capisco che nessuno mi volesse, quando sono nata. Io stessa avrei preferito non nascere. È così triste tutta la mia vita, ed essere me”. Il più grave danno del disamore dei suoi genitori è che lei arriva a condividerlo.
Le cure parentali non sono soltanto indispensabili alla sopravvivenza, sono anche necessarie per sviluppare la capacità di amarsi da sé, di apprezzare il proprio valore. Le ragazze di Cagnati si disprezzano da sole. Mai coccolate, mai sulla loro pelle le mani della madre.
Didier Anzieu, psicoanalista francese del ‘900, considera le prime esperienze di contatto del neonato essenziali per lo sviluppo dell’Io-pelle, l’involucro psicocorporeo che ci preserva dalle angosce di frammentazione e svuotamento. In Corpo, umano Vittorio Lingiardi si riferisce alla pelle come al “più psichico dei nostri organi, involucro e confine, luogo del contatto e della separazione”. In Cagnati le bambine, deprivate degli abbracci, sono frante, vuote d’amore. Galla è già adolescente – ma solo per gli anni, in realtà la sua è un’adolescenza negata, come negata le è stata l’infanzia – e intuisce il nesso tra ciò che le è mancato e chi lei è.
“Se mi avessero voluto bene, forse anch’io sarei stata bella”, immagina guardando Fanny, la sua compagna di scuola cresciuta come una principessa. È talmente al di sopra della sua portata che non può nemmeno invidiarla, piuttosto la ammira, sinceramente, tutta circonfusa di luce.
“Sono fatta così”, ripete Galla, è la sua giustificazione. Le coetanee sognano di morire per amore e lei, con una certezza assoluta: “Io non amerò mai nessuno perché nessuno mi amerà mai”.
Marie, invece, è troppo piccola per capire. In Génie la matta segue sua madre nei campi, con le gambe così corte non può raggiungerla. Non starmi tra i piedi, è una delle poche frasi che la madre le rivolge. Sempre quell’imperativo negativo, oppure: torna a casa, lasciami lavorare, continua a dormire. Solo di rado un gesto ispido, il calore delle sue braccia nell’unico letto.
Eppure ogni volta Marie si riavvicina, ostinata, incurante di rifiuti e dinieghi. Il suo amore è straziato, ma inflessibile. Cerca quel corpo che si sottrae ed è l’unico luogo al mondo. Più non lo trova, più lo ricerca. È l’effetto delle madri imprevedibili: infiammano il bisogno.
Di sera la bambina aspetta impaziente, esulta a ogni rientro di Génie nella loro casupola: ancora una volta non l’ha abbandonata. Non del tutto. La madre parla tra sé e sé davanti al camino: non ho mai avuto niente, io. Hai me, prova a dirle Marie. Non riceve risposta.
Non ne avevo ancora trovate di pagine così nitide su questo tema. Inès Cagnati parla di Marie e di Génie da una sorta di equidistanza, non parteggia più di tanto per la bambina che pure è la sua voce narrante. Anche Génie è stata abbandonata quando, a diciassette anni, è rimasta incinta a seguito di uno stupro. La madre l’ha cacciata di casa con il silenzio-assenso di un padre debole, perso nelle sue letture dei re morti, ci racconta Marie. E dall’abbandono non sempre si impara, a volte piuttosto lo si ripete.
Cagnati non ci spiega niente, capiamo poco alla volta, per piccoli tocchi. La sua economia di parole somiglia alla bocca quasi sempre chiusa di Génie, disprezzata dalla comunità che la usa come serva nei lavori più umili, più sporchi – ammazzare i conigli malati, i troppi gattini. La protesta di Génie verso sua madre, verso i contadini del posto è: restare zitta. Anche con la bambina. Provvede al suo sostentamento, ma non la cura, non la protegge. Scorre nelle pagine un sentimento discontinuo e scontroso, pieno di nodi, ambivalente. Ogni tanto si manifesta in una scelta, per esempio quella di far studiare Marie. Poi subito arretra, non starmi tra i piedi. Marie è nata da lei, è il suo unico bene al mondo, ma è anche la figlia del suo stupratore. È stata l’inizio della rovina, l’ha precipitata in fondo alla scala sociale.
“Cagnati non ci spiega niente, capiamo poco alla volta, per piccoli tocchi. La sua economia di parole somiglia alla bocca quasi sempre chiusa di Génie”.
Non so se qui vale ancora lo stereotipo dell’amore materno che tutto può. Cosa può se ogni sguardo sulla bambina restituisce qualche tratto del suo padre biologico? Forse il disegno della bocca, una fossetta sul mento, un modo particolare di muovere la testa. Un singolo dettaglio che guasta il viso della creatura e la gioia della madre che lo contempla e vi si rispecchia. Marie è uno specchio rotto a metà e in una delle due rivive per sempre la faccia dell’uomo che ha aspettato Génie sui sentieri e l’ha violata.
Mi sono chiesta perché in questa bambina che insegue e resta indietro non c’è mai una rivolta. Guarda la madre tutta chiusa in sé e sembra dirle: sono solo tua. Vede il dolore dell’altra e non riesce ad attaccarla. Marie ha pietà di sua madre. La protegge, a ruoli invertiti. La pietà è più forte della rabbia, la neutralizza. In questo mi ha ricordato Théo, protagonista di Le fedeltà invisibili di Delphine De Vigan. Théo e Marie non potrebbero essere più distanti, per vita e ambiente, ma sono fedeli nello stesso modo alla disgrazia di un genitore, lì il padre, qui la madre.
Nessuno come Cagnati sa raccontare l’infanzia infelice, trascurata. I genitori delle sue protagoniste sono irresponsabili, impulsivi, a volte brutali. Li vediamo all’opera ne La tacchinella, il primo racconto de I pipistrelli. Mollano ceffoni per il ritardo di una bambina che cercava fragole per fare una torta, invece di pensare alle mucche. In quella casa la torta è inconcepibile. Anche a parole usano una franchezza violenta: la figlia è stupida e fannullona, asina a scuola. Lei trova più accogliente il maiale, che almeno grugnisce di gioia quando gli porta il pastone.
Questi genitori non sono dei mostri. Il vero mostro è la povertà. Non è detto che ci si tolga volentieri il pane di bocca per darlo ai figli. Nello stato di necessità sacrificarsi per loro non è scontato. Anche questo è uno stereotipo, cattolico e rassicurante. Cagnati lo distrugge, i fratelli Grimm l’avevano anticipata: i genitori di Hänsel e Gretel li abbandonano nel bosco, per sopravvivere loro. Da parte degli adulti è una difesa estrema, ma possibile. Dei suoi Galla dice: “Gli è del tutto indifferente quello che faccio, dove sono eccetera. Su di me, del resto, non si chiedono mai nulla”. Quanta distanza con Il posto di Annie Ernaux, di cui Cagnati era, in vita, quasi coetanea. Sempre di provincia francese si tratta, ma Ernaux ha già tradito la sua radice, l’ha vivisezionata. Le contrade di Cagnati sono più remote e arretrate, a tratti disumane. Galla c’è ancora dentro, non può elaborare più di tanto. Conosce la fame.
“Ho sempre fame. Non importa quanto mangio, ho sempre fame. Credo sia per abitudine. Per quattordici anni sono stata abituata ad avere fame. Ora continuo, anche se non è vero”.
Sembra tutto così lontano da noi. E invece l’ultimo rapporto di “Save the Children” fotografa un’Italia con 200000 minori di età compresa tra 0 e 5 anni in condizioni di povertà alimentare, a cui le famiglie non riescono a garantire almeno un pasto proteico ogni due giorni. Il 10% nella fascia tra 0 e 5 anni vive in povertà assoluta. In Italia, oggi, molti bambini hanno fame.
Per Cagnati non solo la povertà, anche l’ignoranza ha un peso. Insieme, le due, non lasciano scampo. E, di nuovo, nessuno sa raccontarle come lei, con la voce delle bambine. I genitori sono immigrati, poco più che analfabeti, parlano un dialetto del Paese di origine. La protagonista de La tacchinella non capisce gli astrusi problemi di vasche da bagno con rubinetti rotti, assegnati dalla maestra che peraltro le conferma: non capisci niente. A casa la bambina si dispera, nessuno sa aiutarla. I suoi non hanno accesso a una dimensione simbolica: il padre pensa addirittura di risolvere il problema andando a riparare il vero rubinetto della maestra, la madre di mandarle una tacchinella per ingraziarsela. Lo farà e sarà la bambina a doverla portare, con esito disastroso.
Mi sono ricordata l’angoscia di certi pomeriggi con la stessa matematica, quei maledetti litri d’acqua da calcolare nella vasca che perdeva, e nessuno vicino, nemmeno a consolarmi. La certezza di essere derisa il giorno dopo e rimandata nella mia casa senza bagno, senza riscaldamento che non fosse il fuoco del camino. Piangevo su tutto quel mondo bello, di là, da cui sarei stata sicuramente respinta, rifiutata, che non mi avrebbe mai lasciata entrare se non avessi trovato in quanto tempo esatto la vasca che perdeva, ma che io non avevo, si sarebbe riempita. Tanta solitudine nella nevrosi della mia infanzia.
Le bambine sono disperse tra adulti incomprensibili, sono spaventate. A loro resta solo la possibilità di sognare, per Marie “le isole profumate di frangipani, gli uccelli rossi attorno ai fiori rossi, le grotte in cui il mare sprofonda e si perde”, per Galla un’altra famiglia: “I miei veri genitori mi hanno persa. Mi cercano ovunque e sono disperati”. Un giorno la troveranno e la porteranno via, in una casa che “splende e canta”. Sono i momenti in cui la lingua di Cagnati, sempre scarna ed essenziale, si apre ai colori, alle piante esotiche, si trasforma in una poesia calda e avvolgente.
Con la sua testimonianza l’autrice ha voluto rendere meno assurde queste vite fatte solo di miseria, così ha dichiarato. La ragazzina in azzurro, ne I pipistrelli: “Non voglio più andare a scuola. Non capisco che cosa dicono, non capisco che cosa vogliono, non capisco niente”. Il francese per lei è una lingua straniera, così come la Francia rimane sempre per Inès Cagnati un Paese straniero. In una rara intervista alla televisione svizzera parla poco, è diretta, mai compiacente, come la sua scrittura. Corregge il giornalista che la definisce francese: naturalizzata francese, rettifica. E la naturalizzazione è stata “una tragedia”: “chiaramente non ero francese, e poi non fui più nemmeno italiana. Così, non ero più nulla”. Suo figlio, lui sì è francese, aggiunge.
“Questi genitori non sono dei mostri. Il vero mostro è la povertà. Non è detto che ci si tolga volentieri il pane di bocca per darlo ai figli. Nello stato di necessità sacrificarsi per loro non è scontato”.
Tra autrici e autori preferiti Cagnati nomina Camus, e l’eco dell’assurdo si sente. Non cita Ágota Kristóf ma io sento delle affinità, anche se forse non si sono mai lette. Nelle loro pagine un paesaggio umano desolato, i bambini tramortiti dalle diverse forme dell’abbandono. Solo che quelli di Kristóf possono diventare cattivi oltre ogni limite. In comune anche la lingua, estranea ma inevitabile anche per Kristóf, ungherese di nascita.
Curiosamente le due scrittrici si somigliano, i tratti un po’ duri, scolpiti, senza sorriso, la frangetta corta sulla fronte. Le trovo sorelle in un doloroso esilio esistenziale. In entrambe quel dolore ha prodotto pochi libri, necessari per loro, per noi. Li ho messi nello stesso scaffale, vicini, tra i libri della mia vita.
Donatella Di Pietrantonio
Donatella Di Pietrantonio è scrittrice e sceneggiatrice. Con il suo ultimo libro, L’età fragile (Einaudi, 2024), ha vinto il Premio Strega.
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