"Non voglio essere chiamato solo perché ho una storia tragica". Intervista al pianista Aeham Ahmad - Lucy
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Leonardo Delfanti

“Non voglio essere chiamato solo perché ho una storia tragica”. Intervista al pianista Aeham Ahmad

Divenuto celebre come il "pianista di Yarmouk" grazie alle immagini che lo ritraggono mentre suona il pianoforte tra le macerie siriane, oggi Ahmad si scontra con una realtà occidentale ipocrita e cieca. Tra i colpevoli, anche Sanremo, dove è stato chiamato per interpretare il ruolo del disgraziato e non del musicista.

Quasi dieci anni fa, quando la parola Siria faceva rima con ISIS – e mentre patrimoni culturali dal valore inestimabile venivano distrutti senza che noi europei potessimo fermare o anche solo arginare una catastrofe umanitaria ben presto dimenticata -, un giovane rifugiato palestinese si trovava nel campo profughi di Yarmouk, in Siria.

Il suo nome è Aeham Ahmad ed è nato nel 1988. Dotato di un talento per la musica, ha iniziato a suonare il pianoforte all’età di cinque anni proseguendo poi gli studi presso il Conservatorio di Damasco. Allo scoppio della guerra civile siriana nel 2013, anche Yarmouk, la sua casa, è diventata un teatro di battaglia, e la popolazione è passata velocemente da 150.000 a 16.000 abitanti.

Quando poi i combattenti dello Stato Islamico hanno assediato anche il suo campo, Aeham ha trasportato il pianoforte su un rimorchio per suonare nelle strade, circondato dalle macerie, sotto lo sguardo dei cecchini. Sui social network, i video delle sue esibizioni sono diventati presto virali e la sua storia personale ha ottenuto un’attenzione mediatica internazionale insperata.

“Quando i combattenti dello Stato Islamico hanno assediato il suo campo, Aeham ha trasportato il pianoforte su un rimorchio per suonare nelle strade, circondato dalle macerie, sotto lo sguardo dei cecchini”.

Alla fine, i miliziani dell’ISIS distruggono il suo pianoforte e “il pianista di Yarmouk” decide di lasciare casa. Nel settembre del 2015 riesce a raggiungere la Germania attraverso un viaggio che lo porta a Izmir, Lesbo e lungo tutta la rotta balcanica. Da allora Aeham non ha mai smesso di dare concerti in Europa per parlare di Siria e Palestina.

Lo abbiamo incontrato a Rovigo in occasione della ventesima edizione del festival Opera Prima che da oltre trent’anni esplora i nuovi linguaggi del teatro contemporaneo.

In Italia, il grande pubblico ti conosce per la tua esibizione con Elodie al festival di Sanremo del 2020. Com’è stata quell’esperienza per te?

Sai, per te è Sanremo. Per me era tutto nuovo. Oggi, sapendo cosa vuol dire, non ci andrei. Ho ascoltato la melodia di Elodie ma non riuscivo a capire una parola in italiano. Ho capito che non potevo improvvisare jazz in quel contesto ed è stato davvero folle. Ho dovuto fare i conti con tre persone che decidevano quale canzone avrei dovuto suonare. Nonostante fossi arrivato da solo, l’organizzazione voleva tirar fuori qualcosa di grande dal nulla. La canzone non mi era chiara e la situazione sembrava confusa. Mi avevano inviato il brano, ma ero così preso dai 25 concerti appena fatti che ero stremato. Ho detto loro, “Eccomi qui, se avete bisogno di me, improvviserò. Se non volete la mia presenza, va bene lo stesso.” Dopo aver combattuto per sei ore, ho ribadito il mio punto: “Non suonerò mai in questo modo.” Alla fine, hanno silenziato il mio pianoforte. In questo festival dove tutti dicono che è un classico per la musica dal vivo.

Quindi ti hanno mutato.

Sì, perché non approvavano la mia improvvisazione. Poi, quando sono andato dietro le quinte, ho visto Ronaldo e tutto quel circo che fa foto e che a me sembrava irreale. Io non devo dirti che sono una persona autentica. Tutto ciò che ho dentro, lo dico in faccia ed è così che affronto le situazioni. Poi, improvvisamente, arriva sul palco Elettra Lamborghini e io inizio a pensare, “Ma cosa diavolo succede?”, io sono qui per fare musica, non per diventare famoso.

E tu perché fai musica?

Faccio musica perché devo provvedere ai miei figli, evitare di dipendere dal governo tedesco. Sono un musicista classico. Ho dedicato 25 anni della mia vita agli studi musicali e cerco di interagire con le persone in modo autentico, cercando di trasmettere un messaggio. Ma a Sanremo non sono riuscito a farlo. Tutti dicevano “Oh, abbiamo il pianista di Yarmouk”, sembrava che ci fosse dell’interesse ma poi erano le stesse persone che lasciavano la mia gente morire in mare.

In Siria suonavo il pianoforte per strada, per la mia comunità. E ora, sai, mi sento vuoto, senza nessuno. Oggi, rispetto le regole del gioco e questo mi aiuta a ottenere altre opportunità per dare concerti e poter così mantenere la mia famiglia. Capisco che, quando non sei in TV, quando non vieni menzionato in un articolo, anche se sei come Beethoven, finisce che non trovi lavoro.

Capisco il gioco e non mi interessa più.

“Non voglio essere chiamato solo perché ho una storia tragica”. Intervista al pianista Aeham Ahmad -

Come ti senti riguardo al fatto di essere considerato una star?

Lo vivo con un senso di disagio perché porta molta attenzione su di me, un’attenzione spesso negativa. È frustrante, perché ora vivo in Germania ed è sorprendente come i dettagli della stessa opera d’arte vengano interpretati in modi così diversi dalla mia gente. Ecco perché, quando arrivi alla celebrità dovresti cercare di esprimerti con una voce che rispecchi tutti. Io, purtroppo, fatico a raggiungere questo obiettivo e questo mi crea una grande stanchezza. Mi rattrista enormemente il fatto che la mia stessa comunità non partecipi mai ai miei concerti. È impossibile per un rifugiato siriano venire alla Scala e pagare il biglietto 200 euro; io chiedo sempre gli accrediti, ma non li ottengo quasi mai.

Vado sul palco per essere celebrato, come nel caso del premio Yorum, assegnatomi da Amnesty International in collaborazione con il Club Tenco, sulla cui targhetta hanno storpiato il mio nome.  Questo mi fa riflettere. Se non ci si impegna nemmeno a di scrivere correttamente il mio nome, allora il premio è soltanto per poter fare una foto con il mio volto?

Tutto si è sgretolato. Sì, ero lì e ho guadagnato 1500 euro destinati a portare un po’ di sostentamento alla mia famiglia ma alla fine mi ritrovo con un trofeo in cui il mio nome è scritto sbagliato. Un’assurdità.

Una volta hai detto che tu fai “la guerra con la musica”. È ancora così?

Ogni volta che suono, oggi, provo a mantenere alta l’attenzione sulla questione Palestina-Israele. Questo contrasto diventa sempre più evidente, poiché le persone realmente in difficoltà, che tentano di sopravvivere trovano scarse opportunità e affrontano difficoltà insormontabili. Purtroppo, le persone spogliano le cose della loro bellezza intrinseca.

Avevo un messaggio di fondamentale importanza. Ma dopo aver tenuto più di 1200 concerti in Germania, quel pianoforte al centro della strada è vuoto. Dall’altro ieri ad oggi, continuo a esibirmi senza sosta. Ripeto le stesse parole e mi rendo conto di quanto il messaggio che sto trasmettendo sia ormai privo di sostanza: sono distante dalla Siria da ormai otto anni. La situazione nel mio Paese è sempre spaventosa e le condizioni sono disperate. La gente lavora un mese intero per portare a tavola cibo sufficiente per soli due o tre giorni al mese. Le famiglie non sono in grado di nutrire adeguatamente i propri bambini e il futuro appare incerto.

Quando poi si discute della realtà a Gaza o del popolo palestinese, ci si imbatte in una triste verità: molti palestinesi non hanno nemmeno un passaporto. Le persone si trovano in uno stato di disperazione totale, intravedendo solo nella musica una possibile via d’uscita. Credono che se la musica ti porta alla ribalta, anche loro, prendendo spunto da te, potrebbero cimentarsi e sperare di trasformare la propria sorte. A volte mi domando se ciò che faccio abbia ancora un senso o se sia diventato soltanto una questione di denaro.

“Non mi interessa diventare famoso. Lo ribadirò all’infinito: non provo nessun orgoglio per ciò che io e la mia famiglia abbiamo dovuto affrontare”.

Cosa intendi?

La gente vive tra le macerie e cerca un modo per migliorare la propria condizione. Prendiamo ad esempio Ahmad Joudeh. Il ballerino che ha lavorato anche con Roberto Bolle. Lui era a Damasco e guardava le notizie provenienti da Yarmouk, durante l’assedio dell’ISIS al campo profughi in cui mi trovavo nel 2015. Al notiziario si parlava sempre “del pianista di Yarmouk”. Avrà pensato: “Faccio la stessa cosa”. Così ha chiesto a qualcuno dei soldati che pattugliavano la frontiera di farlo entrare. Varca il confine, si esibisce tra le rovine, distante dai cecchini, e ottiene la sua fetta di gloria.

Io non ho cercato la fama. Quando suonavo e qualcuno mi riprendeva, temevo che il video finisse nelle mani della polizia segreta. Ero totalmente contrario a quest’idea. Agli occhi degli europei è la stessa cosa ma lui danzava in una zona sicura, dov’erano i soldati siriani. Ha usato me. Ha usato la mia storia. Ha usato tutte le persone di Yarmouk per diventare famoso. La gente ha interpretato il potere della musica come una chiave per la fama, spingendo anche altri a usare l’arte sperando di migliorare la propria situazione, cercando un riscatto in Germania o altrove. È triste, in un certo senso, rendersi conto di come la musica sia stata sfruttata solo come mezzo per cambiare la propria vita.

Intendi dire che sei diventato la tua stessa storia?

Sì, sono diventato la mia immagine e non è ciò di cui ho bisogno. Non mi interessa diventare famoso. Lo ribadirò all’infinito: non provo nessun orgoglio per ciò che io e la mia famiglia abbiamo dovuto affrontare. Ho perso mio fratello, che da 12 anni è nelle mani della polizia segreta. È stato prelevato e da allora non abbiamo più avuto notizie di lui. Inoltre, il mio amico, l’autore delle foto che mi hanno reso una star, è stato ucciso a causa di quelle immagini. Mi sento come se portassi il peso di un carico enorme sulle spalle, mentre oggi mi ritrovo qui a godermi un caffè e tengo concerti per 2000 euro.

…perché sei un simbolo.

Non voglio essere chiamato solamente perché ho una storia tragica. Voglio essere riconosciuto per la mia musica. Sono fiero del mio lavoro, del mio talento. Tuttavia, sento che in Europa hanno svuotato il mio messaggio. Tutti sappiamo che in Italia ci sono centinaia di pianisti migliori di me e che molti di loro non hanno l’opportunità di esibirsi in grandi eventi. Questa è la ragione per cui mi sento estraneo a tutto ciò. Allo stesso tempo sono anche padre di famiglia con tre figli e una moglie. Ho avuto un’opportunità, e senza di quella sarei come mille altri rifugiati che lottano ogni giorno.

Nel tuo libro “Il pianista di Yarmouk” parli della anche della tua esperienza da rifugiato siriano in Germania.

Ho dovuto lottare e imparare l’inglese e il tedesco. Forse mi sarebbe andata comunque bene, ma chi lo sa. Nel libro racconto tutto questo, senza filtri. La casa editrice non ha potuto cambiare nulla se non il titolo che in originale è “Und die Vögel werden singen” (Gli uccelli canteranno). In Italia lo hanno intitolato “Il pianista di Yarmouk” perché sapevano che altrimenti non avrebbe avuto successo. Non ho scritto un libro per i soldi, ma ho bisogno dei soldi per scriverlo. Sai, non posso passare 400 ore del mio tempo lontano dalla famiglia senza guadagnare.

Comprensibile.

Sono orgoglioso del titolo originale, perché racconta la mia storia, la storia vera. Parla della mia gente, di tutti i prigionieri a cui pensavo ogni volta che vedevo gli uccelli volare. E alla fine, questa è la mia storia. La gente può ascoltare la mia musica senza dover per forza conoscere “la storia” del pianista.

Alla luce di quanto detto fino ad ora, che ruolo ha la musica per te oggi?

Siamo in tempi diversi ora. Nessuno parla più della Siria. Ma anche così sento la responsabilità di continuare a raccontare la verità. A volte mi chiedo se tutto questo abbia davvero un senso. In Siria, la musica non ha cambiato le cose. Tuttavia, penso che la musica possa facilitare la comunicazione e ridurre l’odio tra i rifugiati e i tedeschi. Magari questo è il mio nuovo scopo, l’integrazione.

“Non voglio essere chiamato solo perché ho una storia tragica”. Intervista al pianista Aeham Ahmad -

L’integrazione?

Sì, forse non era il mio messaggio principale, ma adesso vedo che serve anche a questo. Sai, abbiamo bisogno di esempi positivi per ridurre il pregiudizio e l’odio. In Germania, se il mio amico Mustafa dice solamente “i palestinesi hanno diritto di lottare”, lo licenziano. Hanno paura di toccare certi argomenti. Gli stessi diritti umani devono valere per tutti, ma spesso non è così.

E questo è quello che mi fa arrabbiare. Non possiamo difendere i diritti umani solo quando fa comodo. Vedi, l’America dice di aver vinto contro l’ISIS, ma a che prezzo? Hanno distrutto Raqqa e ucciso 200.000 civili. Dobbiamo trovare un equilibrio, non usare le persone come trofei. Dobbiamo dire la verità e offrire soluzioni reali, non solo simboliche. Rifletto sempre su come posso contribuire veramente e non solo essere una faccia famosa.

Come hai detto, non si può solo prendere senza dare nulla in cambio.

Esatto. Servono soluzioni pratiche. Non ho tutte le risposte, ma la Germania ha bisogno di lavoratori, anche se non lo vuole ammettere. I tedeschi hanno paura di perdere la loro identità e bisogna trovare il giusto equilibrio per lavorare insieme come una persona normale, non come una star. Io sono Aeham, la star, e Aeham vuole essere trattato ogni volta come un essere umano. Ma quando non ho questo titolo, sono relegato nell’oscurità.

Hai paura che un giorno accadrà? Che la tua stella svanirà?

Sì, certo. Dentro di me, mi sto già preparando. Mi sto preparando perché so che succederà prima o poi. Ecco perché sto lavorando per diventare accordatore di strumenti musicali. Ho iniziato da un anno, e ora so accordare un pianoforte. Mi mancano ancora due anni per diventare un accordatore certificato. Adoro questo lavoro perché so molto più di chiunque altro.

Perché hai l’esperienza da musicista.

Si, posso suonare il pianoforte e dire subito se ha bisogno di essere accordato e come. Il professionista diplomato mi guarda come se fossi un esperto. Di solito, lui arriva con le sue attrezzature… e io ascolto il tono della nota. In Siria, quando un martelletto del pianoforte si rompe, non possiamo ordinarne uno nuovo. Dobbiamo crearcene uno con il peso e il legno perfetti. Qui ordini tutto su Amazon. Ma cosa succederà quando non potremo più fare affidamento sulla grande distribuzione? I pianoforti non funzioneranno più.

Una metafora per le crisi affrontate dal Vecchio Continente?

Penso che l’Europa sia piena di problemi. Per noi, nella lingua araba, Europa è una donna anziana. Ha bisogno di molto aiuto. Oggi il capitalismo cresce e si espande, ma alla fine crollerà.  L’unico modo per uscirne è concedere alle persone di lavorare e integrarsi. Per esempio, serve una struttura burocratica efficace ma non troppo complessa, capace di consentire alle persone che lo vogliano di richiedere il visto per venire a lavorare qui. Credimi, questo sistema riuscirebbe a funzionare senza che i migranti debbano per forza pagare un trafficante.

Parli per esperienza personale?

Non solo, mio cugino dovrà pagarne uno 24.000 euro per arrivare in Europa. Viaggerà dalla Turchia all’Algeria, per entrare in Libia senza documenti e prendere un gommone per arrivare qui. Non solo ha dovuto vendere il suo rene per trovare il denaro ma ha anche il 95% di possibilità di morire durante il viaggio. Questa è la situazione in Siria oggi. Forse non sopravviverà ma farà quello che deve perché ha due bambini. Io sono andato dal governo tedesco e ho detto “Ho un cugino che sa lavorare nell’IT. È molto bravo. Vi garantisco personalmente cinque anni del suo stipendio per farlo entrare legalmente”. Ma non è bastato.

“In Siria, la musica non ha cambiato le cose. Tuttavia, penso che la musica possa facilitare la comunicazione e ridurre l’odio tra i rifugiati e i tedeschi. Magari questo è il mio nuovo scopo, l’integrazione”.

Nemmeno nella tua posizione?

Nemmeno nella mia posizione. Sono tedesco, ho il passaporto tedesco da due anni. Ho potuto garantire per mio padre, mia madre, mia moglie e i miei figli. Ma mi hanno detto che non posso garantire per mio cugino. Se il governo tedesco me lo permettesse, mio cugino non dovrebbe vendere il suo rene alla mafia siriana e a quelli che mandano la gente a morire in mare.

Cosa possono fare i cittadini europei per cambiare la situazione?

Credo che possano unirsi e cercare di cambiare la legge. Gli studenti universitari non devono essere trattati come criminali. Le persone devono avere il diritto di dimostrare liberamente. Altrimenti si crea una dittatura. Anche Assad ha ucciso due milioni di persone in Siria, ma continuiamo a protestare. Non puoi fare tacere le persone per sempre. Quando un ragazzo si sente limitato, si ribellerà.

Per te cosa vuol dire essere in Europa?

Io sono felice di essere in Europa, perché almeno qui posso parlare liberamente. In Siria sarei stato mandato in galera per almeno 20 anni. Tutti i palestinesi oggi sognano di avere un passaporto, la possibilità di viaggiare. Guarda, ho un passaporto tedesco ora. Ho lavorato otto anni per ottenerlo e sono orgoglioso della mia casa in Germania. Ma ho paura per l’Europa, non voglio che diventi come la Siria, con divisioni religiose e odio. Dobbiamo cambiare le politiche, aiutare l’Africa, la Siria e la Palestina, non continuare a farle soffrire per poi lamentarci dei rifugiati.

Leonardo Delfanti

Leonardo Delfanti è un giornalista freelance italiano. Si occupa principalmente di cultura, conflitti e crisi umanitarie. Ha lavorato e pubblicato presso la Federazione europea dei giornalisti, la Youth Newsroom dell’UNESCO e diversi giornali internazionali.

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