Emiliano Ceresi
03 Gennaio 2025
L’incontro a Parigi con Kundera e il rapporto con Alberto Arbasino, la lettura notturna di Gadda e la recente acquisizione di Philip Roth nel catalogo Adelphi: un ritratto di una delle più influenti figure dell’editoria italiana.
Mentre percorro con lo sguardo gli scaffali della libreria Adelphi sulla via che fa angolo al portone della casa editrice omonima penso a quanto, al netto dell’identità comune, siano tra loro diversissimi i libri che ne popolano il catalogo. Mi trovo qui perché sono arrivato con anticipo all’appuntamento, e provo a ingannare l’attesa insieme al gelo milanese che da fuori punge. E del resto quando Bobi Bazlen, assieme ad Alberto Zevi e Luciano Foà, ha deciso di fondare Adelphi il desiderio che li animava era quello di pubblicare “libri unici” – dunque libri che non per forza si assomigliano.
La presa di coscienza, che mi occhieggia nitida dalle mensole, si palesa anche nell’incontro con chi quei libri li cura. Sto per conoscere Giorgio Pinotti, editor in chief di Adelphi, che ha tradotto numerosi autori francesi, curato alcuni tra gli scrittori italiani più importanti del Novecento, e sua è anche la voce di Kundera, come pure il coordinamento della riedizione dell’intera opera di Gadda, autore che ininterrottamente legge sin dagli anni all’università.
Quasi un anno fa ho intervistato nella sua casa a Narni Ottavio Fatica, che di Adelphi è uno dei traduttori più apprezzati – sua quella dell’ultimo e sulfureo inedito di Céline, Guerra. Sarà quindi per me spontaneo raffrontare la sua indole così schietta e assertiva, a quella di Pinotti.
Mi addentro finalmente oltre il portone. Dopo due piani di scale riconosco la soglia da una targhetta dorata che riluce nel buio. Pinotti mi accoglie in uno studio sorprendentemente spoglio e ordinato – l’amato Gadda è “alto su di noi” sulla parete alle spalle, e nei libri assiepati sulla scrivania. Sul termosifone è adagiata la sagoma del collerico capitano Haddock di Tintin. Se fino a ora avevo conosciuto solo la sprezzatura ritirata e sicura così tipica di questa casa editrice, Pinotti mi appare invece come un’altra anima a quella complementare: milanese e rigorosa, filologica ed elegantissima.
Il modo in cui parla di libri li fa sembrare pietanze da delibare; traspare il gusto che ne ricava, pare quasi riassaporarli, a volte. L’aggettivo più ricorrente durante le ore che trascorriamo assieme è “delizioso”, che Pinotti invariabilmente adopera per le pagine adorate o per elogiare il carattere di moltissimi autori.
Il suo eloquio, tutt’uno con la sua penna, è trapuntato di francesismi (Kundera è untenable; Gadda una boîte surprise; la lingua diviene la langue). Solo a casa, quando siedo e riascolto il nostro dialogo, mi accorgo che tutti gli scrittori di cui Pinotti si occupa o si è occupato (Kundera, Gadda, Arbasino, Malaparte, Simenon ed Echenoz) sono indissolubilmente intrecciati a Parigi. Non mi pare un caso allora che, a un tratto del nostro discorso, Pinotti abbia assimilato i libri di Adelphi proprio alle pietre di cui è fatta la capitale francese.
Così mi è parso Pinotti: un coltissimo lombardo che ama la sua città come la letteratura e che attraverso di essa sogna la Francia, proprio come il suo Gadda.
Tutto per lei ha inizio a Pavia, alla cattedra di Dante Isella. Nei libri di Arbasino si trova un’immagine sempre plumbea di questa città, in Fratelli d’Italia lo scrittore ironizzava sui collegi che ancora la affollano: come fu per lei?
Anche io fui collegiale e devo dire che sono stati anni bellissimi. A cavallo tra i Settanta e Ottanta a Pavia non insegnava solo il mio maestro, Dante Isella, ma pure altri intellettuali del rango di Cesare Segre e Maria Corti, che era sempre accompagnata da un brillante allievo, Angelo Stella.
Pavia mi ha irrimediabilmente segnato con l’impronta filologico-linguistica della sua scuola e poi già allora iniziava a diffondersi la semiotica, una disciplina aurorale che sarebbe poi imperversata a Bologna con Eco.
Pavia in effetti era nebbiosa, avvolta dalla foschia, per molti versi ostile: di fatto una minuta città della provincia lombarda; ciò nonostante, in quegli anni, la sua università mi appariva come sorta di nuova Atene.
È forse difficile immaginarlo oggi, eppure allora i professori ci assegnavano tesi su argomenti impervi ma veramente di grande respiro e totalmente incuranti di quella che si sarebbe rivelata la reale durata del lavoro. Ricordo con struggente tenerezza una mia compagna di università che da 7 anni lavorava all’edizione critica delle Rime del Tansillo incrociando decine di manoscritti – nessuno però si preoccupava davvero del fatto che dovesse concludere. Ogni lavoro di tesi era una ricerca dalla durata imperscrutabile.
Certo, già allora si poteva tagliar corto, ma questo ti relegava immediatamente nella categoria più temuta: quella degli studenti abietti.
Il naturale prosieguo di un simile percorso sarebbe stato all’università: fu un’ inversione di rotta quella verso una casa editrice?
I nostri maestri di allora ci avevano educato per tempo al fatto che la carriera accademica era una specie di chimera, ovvero una possibilità non vaticinabile.
Ricordo che il loro esempio più ritornante era Carlo Dionisotti: ci esortavano a leggerlo per poi aggiungere: “Badate che le persone davvero brave sono fuori dall’accademia”. E nessuno avrebbe in effetti potuto mettere in dubbio il genio di un simile critico.
Per ragioni personali avevo bisogno di lavorare ed ero pronto ad accettare il fatto che la ricerca non sarebbe stata il mio lavoro dopo l’università. Nel periodo in cui mi laureai, poi, da diversi anni non si bandivano i concorsi per la scuola. Isella, che era un uomo piuttosto fattivo, animato com’era da un’etica lombarda, era singolarmente sensibile all’editoria. Coltivava relazioni con editori prestigiosi come Mondadori e Scheiwiller e, quindi, prendere la via della casa editrice per me era tutto sommato un po’ come restare sotto l’egida del maestro.
Di modelli eccellenti fuori dall’accademia, in effetti, non ne mancavano. Penso a Cesare Garboli, l’allievo prediletto del grande Natalino Sapegno, che all’università aveva faticato (troppo vicina al cimitero Verano, la diceva per discolparsi), e che ha curato libri eruditissimi per Adelphi.
Certo. Naturalmente in Italia, almeno, il fatto di avere due percorsi (uno editoriale e uno che, forse un po’ pomposamente, direi di taglio scientifico) suona sempre bizzarro, ma è una tara culturale tutta nostra.
Ricordo che un illustre italianista, tra i più grandi che il nostro Novecento abbia conosciuto, una volta, sgomentandomi, mi disse: “Scusa perché studi queste cose proprio tu che neppure hai i concorsi!?”
Il che è sconcertante: non era contemplata in lui l’idea di fare delle cose diverse perché semplicemente appassionano, di là dagli sbocchi realizzativi.
Devo ammettere che in Francia è diverso, sono meno snob, mentre da noi la divaricazione resta netta. Questi due ambiti per troppi anni per me sono stati non comunicanti.
L’inizio col suo “primo mestiere”?
Ho cominciato in quella che una volta si sarebbe chiamata una university press, Franco Angeli, occupandomi, si figuri, delle collane di urbanistica.
Poi mi sono spostato da Garzanti, dove ho lavorato per larghissimo tempo alle grandi opere, soprattutto all’aggiornamento dell’Enciclopedia europea: un’impresa poderosa di cui si vedeva la testa, mai la coda. Solo molto in seguito, per ragioni, devo dire, abbastanza miracolose, le mie passioni reali di editor e filologo si sono ricongiunte.
Io per me continuavo intanto a studiare, soprattutto la notte. Nel 1995 ero già in Adelphi e ho curato i Disegni Milanesi con Isella e la sua allieva Paola Italia: ricordo che trascorsi un’estate torrida a schedare le varianti: questo è ciò che mi piace fare, pensavo dentro di me, mentre delibavo quelle parole uniche circondato dall’aria afosa.
Mi prova a dire il piacere che si ricava dallo studio delle varianti?
Un piacere unico, silenzioso, fatto di indugi, attenzione, educazione alla lentezza, al dubbio. Da quando sono arrivato in Adelphi, poi, ho iniziato a tradurre e ho intuito, con la certezza di una rivelazione, che non sono attività così dissimili. Anche la traduzione è una forma di close reading, un’immersione verticale nella lingua.
Quando tu ricevi un romanzo o lo proponi in casa editrice in prima battuta, dopo una prima lettura di puro piacere, è perché istintivamente quel libro ti piace. Ma solo quando inizi a tradurlo ti rendi conto davvero di come è fatto, ti si rivela la sua orchestrazione: e il piacere si raddoppia! Ti si palesa così tutto lo spessore stilistico, gli scarti rispetto alla langue, i giochi sulla sintassi: è una sorta di epifania.
Il suo racconto della variantistica mi ha ricordato quello che della filologia scrisse Nietzsche, e più di recente, Michele Mari, che in proposito ha parlato di lettura stereofonica.
Ha citato la traduzione che, del resto, appartiene al suo corredo genetico.
Certe cose ci appartengono, sono dentro di noi in potenza e però non sempre ne possediamo una coscienza piena. Io ho una formazione in italianistica, non mi sono mai occupato di traduzione. Conoscevo il francese per via di mio padre e di mia nonna, che era originaria di Nizza, ma non sospettavo che l’avrei mai applicato al di fuori delle nostre affettuose conversazioni.
Quando sono arrivato in Adelphi nel ʼ92 mi sono ritrovato in questa specie di elegante fucina dove le traduzioni ricoprivano un peso essenziale. E d’altronde Adelphi si è fatta il suo nome, almeno fino alla metà degli anni Ottanta, sulla letteratura straniera. Diciamolo pure: Adelphi è stata fondata sulla traduzione di Nietzsche. Quella resta la prima pietra. E da subito mi dissi che era un’esperienza che volevo assolutamente fare, senza troppe cautele. Dall’ʼ85 avevamo acquisito Simenon e solo a partire dagli anni Novanta avevamo cominciato a pubblicare le inchieste da Maigret: pensai che avrei potuto cominciare da lì.
“Pavia in effetti era nebbiosa, avvolta dalla foschia, per molti versi ostile: di fatto una minuta città della provincia lombarda; ciò nonostante, in quegli anni, la sua università mi appariva come sorta di nuova Atene”.
Poi in realtà di Simenon ne ho tradotti altri tre (con somma gioia) e dalle Alpi sono sopraggiunti anche Genet, Echenoz: e ho pure iniziato, intanto, a occuparmi di revisioni di traduzioni per altri. Di colpo il fatto che il francese appartenesse al mio lessico famigliare si era tramutato, e senza che ci fosse un progetto, in una apprezzata competenza professionale.
Adesso ci sono le scuole: quelle di editoria, i master, e gli universitari pensano prestissimo: “Io voglio fare l’editor della letteratura straniera”. Mi sorprendo sempre quando lo sento dire: è un riflesso automatico, non è certo colpa della loro giovane avventatezza, anzi. Ma un tempo, all’epoca dell’editoria degli anni Settanta-Ottanta, nelle case editrici approdavano persone che non avevano fatto nessuna scuola, e che non erano minimamente attrezzate. Tutto si apprendeva sul campo: tradurre, fare editing, rivedere i testi.
Ricordo che in Einaudi, per dire, avevo dei colleghi come Paolo Collo e Roberto Cazzola. Cazzola era uno storico, mentre Collo non ho neppure mai saputo in cosa fosse laureato, ed entrambi si erano trovati a lavorare sulla letteratura straniera: il primo come germanista, il secondo come esperto di letteratura ispanofona. Si sono formati una competenza da autodidatti di cui nessuno poteva dubitare, però.
Va anche detto che quelli erano anche anni in cui si traduceva molto diversamente. C’era un sentimento della resa forse troppo corrivo: fondamentale, più di tutto, era che le traduzioni “suonassero” bene.
Cosa che Milan Kundera, che lei ha tradotto, aborriva.
Non era ancora arrivato, sarebbe accaduto solo alla fine degli anni Novanta, un traduttologo come Lawrence Venuti, per me fondamentale, che ha cominciato a stigmatizzare il fenomeno che nei suoi saggi chiama easy readability.
Il traduttore, e questo è ancora oggi un problema quando mi capita di rivedere le traduzioni altrui, pensa di essere giudicato sul livello di scorrevolezza della sua lingua. E perciò ha il timore che qualunque attrito possa essere ritenuto un errore da chi legge. Tende così a sprofondare nel più nefasto tra i peccati: livellare.
Adesso siamo forse più attenti alle specificità dell’originale e, soprattutto, più audaci nella resa. Allora occorreva solo che le traduzioni si leggessero bene: se poi negli originali c’erano degli spasmi linguistici ignorati, per riprendere una parola di Gadda, pazienza.
Lei ha iniziato da Simenon che è un autore solo all’apparenza semplice. In un’intervista a Bill Weaver di Raffaele La Capria, ora contenuta in Ai dolci amici addio, il traduttore americano, che pure ha lavorato su autori come Gadda, confessa forse inopinatamente che lo scrittore con cui ha trovato più difficoltà è Italo Calvino, in particolare in quei passaggi di Se una notte d’inverno un viaggiatore in cui mima la prosa di Simenon.
È un’osservazione molto acuta. Perché rendere Simenon in italiano, badi non è difficile come tradurre Céline, ma ha un livello di complessità che a prima vista appare insospettabile. Non va sottovalutato. Innanzitutto perché l’italiano è una lingua ostica che ha raggiunto tardivamente, come lei ben sa, l’unificazione e che ci consente grandi scarti i quali sono però immediatamente percepiti come tali dal lettore. Mentre invece il francese è piuttosto assimilabile a un nastro, dove anche una parola di argot magari è entrata nell’uso comune e non spicca poi così tanto. E, allora, va da sé, come rendere questa semplicità non è impresa facile.
Poi Simenon non ha soltanto una lingua tersa, ma è dotato di un ritmo unico. La sua prosa procede con un passo tutto suo, fatto di cadenze, pause e improvvise accelerazioni, che bisogna saper assecondare: è come un ballo.
Ne Il giocatore invisibile Giuseppe Pontiggia, che è stato editor proprio in questa casa editrice, lascia un splendido autoritratto di sé (e del suo mestiere) che vorrei citarle: “Manoscritti di ogni dimensione, alcuni minuscoli, altri giganteschi, racchiusi in raccoglitori cubici come vocabolari, gli venivano lasciati in portineria da commessi frettolosi […] Quando arrivava il loro turno, si sdraiava sul divano di finta pelle e cominciava a leggerli. La speranza di scoprire anche lui uno scrittore nuovo in uno sconosciuto non lo abbandonava mai, ma non si realizzò molto frequentemente nel corso degli anni. Le rare volte era stata una strana, intensa effimera felicità, un partecipare silenzioso e decisivo alla gioia di un altro”. Ecco: quanto spesso le capita di partecipare alla “gioia di un altro”?
Trovo sia una pagina bellissima. In Adelphi c’è sempre stato un unico criterio di ripartizione dei lavori: la libertà. Con Calasso abbiamo sempre letto collettivamente: non c’è mai stata quella suddivisione che forse vige altrove. Certo Calasso è sempre stato il direttore, e questo era certo chiaro a tutti noi, ma, attorno a lui, un cerchio ristretto ha preso parte a tutte le scelte.
Ciò ha comportato un lavoro secondo me meno solitario, più di gruppo, e sempre arricchente. Ricordo come fosse ieri un fine settimana in cui io e la persona che allora si occupava di letteratura angloamericana, Giulia Arborio Mella, abbiamo letto Follia di McGrath e ci siamo telefonati per dirci: “Ma questa è una bomba!” – e infatti 300.000 copie quel libro le ha vendute.
E gli “scrittori nuovi”?
Di sicuro alcuni autori, soprattutto certi francesi, sono stati per me uno scoppio di gioia dovuta all’altro. Forse quello a cui mi sono più affezionato col senno di poi è Jean Echenoz. Nel 2006 ho acquisito Ravel e a quel libro pensavo con una tale ossessività che l’ho pure tradotto, e tutt’ora continuo a leggerlo. Sto lavorando al suo ultimo che uscirà a gennaio-febbraio…
Si è chiesto perché proprio lui?
Perché il suo gioco, il suo lavoro sul francese, ma direi tutto il suo stile, mi comunica come una specie di euforia. Anzi, direi che è uno dei rarissimi casi di francese euforizzante.
Nonostante la depressione del protagonista, le parabole curvate dei personaggi.
Esatto, perché il suo è sempre uno sguardo esterno, un’osservazione planare e rigorosamente antipsicologica: tutto è affidato al gioco superficiale del significante, dello humor.
Anche delle superfici di certi vestiti o stoffe…
O degli oggetti! Questi copiosi accumuli di arredi, chincaglierie e passamanerie che Echenoz ti mostra quasi attraverso dei travelling grazie ai quali li vedi improvvisamente ingrandirsi sulla pagina.
Vero, è un tratto francese se penso a Francis Ponge e le poesie con cui fa letteralmente esplodere una mollica di pane o una conchiglia. Di Ravel ricordo l’indimenticabile vasca da bagno su cui il libro si apre. In questo ha contato l’amicizia con l’autore che trapela dai vostri incontri?
Quella è rara. Ci sono tantissimi scrittori e scrittrici che ho accompagnato, ma con cui non è sorta alcuna complicità. Echenoz è veramente una persona deliziosa, così come amo profondamente Pierre Michon, che è un uomo assolutamente irresistibile.
Due francesi non poco diversi dal punto di vista linguistico, lo si può inferire anche dalla traduzione.
Senz’altro: in Michon c’è la sontuosità sardanapalesca della parola e una lingua che non rinuncia a nulla. È un grandissimo scrittore e, tra l’altro, lui ed Echenoz sono molto amici. Lo dico, se non altro, a testimonianza del fatto che, di là delle differenze, l’arte sa riconoscersi.
“Ricordo che trascorsi un’estate torrida a schedare le varianti: questo è ciò che mi piace fare, pensavo dentro di me, mentre delibavo quelle parole uniche circondato dall’aria afosa”.
Arbasino, al solito con umorismo bruciante, suggeriva che “Adelphi dovrebbe chiamarsi Radeztky” per la mole di autori mitteleuropei che pubblica. Sente di aver aggiunto a questa maggioranza una cospicua quota francese?
Non voglio essere retorico perché credo davvero a ciò che dico: credo di avere soprattutto assorbito.
Non credo sia retorica ma vorrei sapere lei cosa ritiene di aver aggiunto.
Ciò che di sicuro ho offerto ad Adelphi è una certa attenzione alla cura filologica dei testi che prima non era esattamente nelle corde della casa editrice e, che devo anche dire, Calasso mi ha benevolmente concesso pur non sentendola propria (ride). Eppure ha avuto la generosità di lasciarmi fare, soprattutto quando abbiamo acquisito Gadda.
Mi racconta di quel giorno?
È stato il momento esatto in cui tutto ciò che ho amato nella mia vita si è improvvisamente ricongiunto. Prima non era così. Qui in Adelphi forse nessuno era a conoscenza del fatto che io pubblicassi regolarmente articoli filologici o che mi occupassi nottetempo di Gadda. Poi ovviamente tutto è parso assumere i contorni di un disegno coerente, ma questi sono i coup de théâtre della vita!
E davvero Gadda ha scritto sempre macerato dalle promesse che aveva accumulato con i suoi editori storici, ossia Garzanti ed Einaudi: un’angoscia che si avverte nitida nelle lettere a Contini e Parise che lei ha pubblicato. Eppure, se penso ai suoi libri, sembra sia sempre stato un autore Adelphi. Potremmo dire che anche questo è un aspetto della “primavoltità” di cui scrive Bobi Bazlen: la capacità a volte di acquisire capolavori già usciti e di farli sembrare propri da sempre.
È così. Questo perché Adelphi è palesemente una casa di eslegi. È la soglia in cui vengono accolti gli irregolari: e parlo del loro carattere tanto quanto dei loro libri destrutturati o sperimentali.
Non si può negare che Manganelli lo sia, che Savinio lo sia, che Landolfi lo sia. C’è tutta una pleiade che ha trovato in Adelphi, che in fondo vuol dire “affini”, lo spazio a lei più congeniale.
Manganelli continuiamo a pubblicarlo con grande gioia e ogni suo libro è una festa – Concupiscenza libraria è persino andato in classifica. Certo non sono libri d’autore, ma sono stati fatti da Salvatore Silvano Nigro quindi, che dire? è come se in qualche modo fossero dei libri postumi dello scrittore, no?
Certo, e poi Manganelli aveva redatto un indice provvisorio di quel volume col titolo Oggidiani: è un libro postumo a tutti gli effetti. A proposito di quello che diceva, in effetti, Arbasino ammise di aver trovato una casa quando entrò in Adelphi in seguito alle esperienze con Einaudi e Feltrinelli.
Fu così. Ho avuto l’onore di lavorarci sin da subito. Lui ha avuto altre case in precedenza, ma è certo che questa è la sua casa. Quella del trasloco definitivo.
Il suo ricordo di lui?
Arbasino è innanzitutto lo scrittore più gentleman con cui io abbia mai lavorato.
Custodisce anche lei alcune delle sue famigerate cartoline?
Non solo. Pensi che alla sua morte mi ha persino indicato nel suo testamento lasciandomi due quadri della sua collezione privata… È una cosa inaudita! Ho lavorato con lui con grande felicità, e questo gesto dice che tipo persona fosse. Poi Arbasino era un’officina in sé…
Ovvero?
Era un uomo che in fondo aveva pochissimo bisogno del lavoro di un editor, se non in termini di fiancheggiamento. La sua idea della pagina era estremamente precisa. Arbasino ha concepito sempre la sua pagina come un disegno, meglio, come un progetto.
“Ci devono essere quelle virgolette, devono essere gli apici” – e infatti gli apici di Arbasino, che sono una specie di marchio, non rientrano nelle nostre norme editoriali e questo gli arrecava non pochi dispiaceri. È come se ogni pagina si innestasse in una concezione architettonica di spazi e pieni in armonico rapporto tra loro.
Accanto a questa concezione di controllo, poi, c’è la vertigine di conoscenza che si sprigiona dai suoi libri – la sensazione già da Parigi o cara che sia stato l’ultimo ad aver visto e conosciuto tutto.
Basti pensare a Lettere da Londra: alla gioia che trasmettono quelle flânerie perpetue. A me sta poi a cuore il tratto umano. Un uomo all’apparenza simile al Ravel descritto da Echenoz, se ci pensa, un uomo dalla distante élégance, freddo, antipsicologista; ma poi nella pratica capace, quasi come nessuno, di riconoscere il lavoro degli altri. Potevo assisterlo ma lui faceva tutto: si scriveva i risvolti, si faceva l’editing – e poi però il lavoro di supporto lo valorizzava molto più di autori a cui magari avevi prestato ore e poi giorni di lavoro.
Anche in un testo come L’Ingegnere in blu in cui riassembla materiali di tutta una vita sul suo amato maestro e che pubblica ormai da anziano?
Assolutamente sì. Per questo dico che era un’officina come autosufficiente. Arbasino amava anche scrivere le lettere di presentazione per i librai, trasformarle in risvolto, curare le grafiche. Non l’ha fatto in questo caso perché, appunto, sapeva che avevamo questa passione comune per Gadda e mi ha concesso questo dono.
L’unico libro che ho davvero co-costruito insieme a lui, si figuri l’onore, è stato Ritratti e immagini. Un libro secondo me folgorante per la diversissima galleria di personaggi che lo percorre. Forse a quell’altezza era già provato dall’età. Di nuovo mi ha lasciato scrivere il risvolto, certo per gratitudine. Però Arbasino dalla misura della pagina al tipo di virgolette, aveva un’idea precisa e tutta sua. Era come se ogni pagina fosse il risultato di un colpo d‘occhio, che dico, di una visione.
Un altro scrittore dalla pagina molto sorvegliata eppure da Arbasino diversissimo che lei ha curato è Curzio Malaparte, che ultimamente sta vivendo una fase di radicale riscoperta anche fuori dall’Italia. In Francia gli è stato dedicato uno dei prestigiosissimi «Cahier de L’Herne»: è singolare se si pensa a quanto sia snobbato qui un testo come i Maledetti toscani, un “must” di ogni mercatino dell’usato.
Maledetti toscani è un libro notevolissimo e più acuto di quanto si creda: è giusto sia così. Di Malaparte cureremo prossimamente Il diario straniero che scrisse a Parigi e pubblicò Vallecchi in un’edizione ormai obsoleta. È uno scrittore dal respiro europeo e credo stia raccogliendo ora quello che da sempre merita.
È innegabile che Kaputt e La pelle, i suoi capolavori, siano romanzi incredibili. Per lui vale ciò che ho detto per Simenon: le case editrici possono ricevere una spinta verso l’alto da un autore, o viceversa, conferirgliela. I libri che vengono pubblicati da più case editrici ogni volta rinascono e non rinascono mai uguali.
Il Carrère che aveva pubblicato Einaudi non è quello che pubblichiamo noi. Echenoz era stato pubblicato malissimo, devo dire, da Einaudi; Je m’en vais, che noi rifaremo, era stato tradotto – devo dire – malissimo da Einaudi.
Certamente il nostro Simenon non è quello di Mondadori. La posizione orizzontale all’interno di un catalogo di un autore modifica sottilmente il suo statuto anche per il rapporto che instaura con gli altri.
Il fatto che Simenon stia accanto a Simon Weil nella “Piccola Biblioteca Adelphi” lo dota innegabilmente di una diversa allure. Questo probabilmente è ciò che è successo anche con Malaparte, scrittore controverso ed estremo se v’è ne uno. Le nuove edizioni mi pare gli stiano aggiustando un po’ le luci: auspico continui così.
D’altronde Aby Warburg sosteneva che nella “biblioteca perfetta”, quando si cerca un certo libro, si finisce per prendere quello che gli sta accanto e che si rivelerà più utile di quello che cercavamo: è la regola del buon vicinato il segreto di Adelphi?
Certo, è come quando noi abbiamo pubblicato La lettera d’amore di Cathleen Schine, lei non era ancora nato, ma io ricordo bene un articolo uscito su «L’Espresso» in cui si gridava con scandalo al “nuovo filoncino rosa di Adelphi”. In realtà, se hai un catalogo di prestigio detieni la forza di innalzare un autore e, soprattutto, la tempra per assorbire sciocchezze simili. Cathleen Schine non è certo Alice Munro, ma la sua bellezza segreta è stata dischiusa anche dai libri che aveva attorno.
“Per questo dico che era un’officina come autosufficiente. Arbasino amava anche scrivere le lettere di presentazione per i librai, trasformarle in risvolto, curare le grafiche”.
Per certi versi è un po’ lo stesso che è accaduto a La versione di Barney.
Assolutamente. Noi negli anni Novanta, soprattutto, abbiamo fatto molta letteratura americana un po’ fresca – non so se si ricorda La storia di un matrimonio, Miriam Toews, Alicia Erian: prosa di buon livello che nel nostro alveo riceveva un’ aura ulteriore. Che non è la dignità di una giusta copertina o di un mero involucro: è la dignità di come, adesso potrebbe sembrarle che stia facendo marketing ma ci credo veramente, gli autori sono trattati. In particolare per le cure cui vengono sottoposti. Una traduzione di Céline come di Richler qui [indica con un gesto circolare di entrambe le mani la stanza attorno a sé] è sottoposta a letture, riletture, riletture delle letture: giri di bozze 1-2-3-4: processi che nessuno segue più, temo – ed è questo che contribuisce al tutto.
Calasso racconta di come Luciano Foà, tra i molti lavori che svolgeva durante l’anno, si ritagliasse un momento tutto suo (“unico e inalienabile”) per rivedere le traduzioni di Joseph Roth. Altrove, sempre Calasso aveva scritto, con divertita provocazione, che grazie ad Adelphi l’Italia è il solo Paese “dove oggi il cognome Roth evochi subito il nome dell’austriaco Joseph e non quello dell’americano Philip”. Ora però li avete entrambi…
Per ragioni legate ad agenti importanti, scadenze e soprattutto tempi, si è data la congiuntura favorevole ad acquisirlo. E posto che Roth è indubitabilmente uno dei più grandi autori di tutti i tempi, il compito di un editore, quando si aprono simili spiragli, è di cogliere le opportunità. Del resto è quello che abbiamo fatto a suo tempo con Nabokov, Borges…
Bolaño, che era uscito in origine per Sellerio e che di Sellerio scrive nei suoi libri…
Vero, ma io penso soprattutto a Borges. Perché Borges più di Nabokov e di altri, è entrato nel solo catalogo nel 1997 con Storia dell’infamia. E poteva sembrare un’acquisizione un po’ tardiva: i grandi libri di Borges li hanno fatti Feltrinelli ed Einaudi. Però vale per Borges quello che lei suggeriva prima: è un po’ come se fosse da sempre appartenuto alla nostra casa – e sono sicuro che questo ambientamento immediato avverrà pure con Roth.
La entusiasma l’idea di fare questo Roth?
Io sono più per il romanzo spagnolo, francese, per le lingue romanze: non sarò io a seguirlo in prima persona. Ho partecipato alle riunioni in cui si è cominciato a parlarne ed era ancora tutto in forse, l’ho riletto tutto d’un fiato – e devo dire che l’idea mi piace da matti!
Come Foà lei appartiene alla categoria dei transfughi da Einaudi: a cosa si deve questo passaggio?
Sembra quasi un momento obbligato nell’arco narrativo degli adelphiani… Dovrei trovare una risposta intelligente, ma a volte la vita è un fatto semplice. Da Einaudi non ero felicissimo: era il 1990 e Torino non era quella di adesso… era una città…
Mortifera?
Madonna! Terribile. Quando Calasso mi ha offerto di raggiungerlo a Milano ho subito pensato: “Ma certo, che ci sto a fare qui?”. Poi io non sono torinese, non ero veramente consustanziale all’Einaudi, ero stato chiamato da Gelli. E Gelli stesso, in fondo, era un po’ un eslege lì.
E se non sbaglio era giusto un grande editore a sottolineare, forse un po’ malignamente, come non fosse casuale che a Torino si fossero tolti la vita Salgari, Pavese e Primo Levi. Come conobbe Gelli?
Gelli era già un mio caro amico, l’avevo incontrato da Garzanti, è stato un bene lasciarla. Con Ernesto Franco, anche se acquistata da Mondadori, Einaudi è tornata agli antichi fasti. Noi due, così milanesi, forse eravamo un po’ spaesati là in Piemonte. Inoltre nel ʼ91 è nata mia figlia e tutto ha congiurato per portarmi via di lì.
In una lettera di risposta allo scrittore Stelio Mattioni, che gli aveva spedito un suo manoscritto, Italo Calvino scrive nel 1965: “Lei scrive, scrive, ma il guaio è che prova più gusto a scrivere che a leggere, mentre scrivere vuol dire partecipare a un lavoro collettivo, avere una propria idea della situazione della letteratura attuale e di una direzione verso la quale si vuole svilupparla. Se no le cose che Lei scrive, belle o brutte che siano, non entrano nel discorso generale, cioè non servono”.
Il testo a cui Calvino fa riferimento sarà poi pubblicato nel volume Palla avvelenata uscito per Adelphi nel 1971. Mi pare che sia uno scambio eloquente per la dicotomia che viene tracciata: Adelphi, a differenza di Einaudi, tutto sommato non si è mai fatta problemi a promuovere testi che non dialogassero con la “letteratura circostante”.
Mi torna, perfettamente. C’entra un po’ il discorso degli irregolari che facevamo prima ma anche quello, ora uso una parola un po’ rischiosa, del dilettantismo nel senso, però, in cui questa parola la intendeva Sciascia. E cioè il divertirsi con l’arte: senza troppo badare al resto. Lo spirito adelphiano è ad anni luce dalle competenze iperaccademiche. Il discorso civile non ci ha mai influenzato, eppure siamo stati sempre molto aperti nei confronti delle proposte o nell’affidare, per esempio, la cura dei libri. Einaudi era una casa editrice nata da una tradizione fatta di università, movimento operaio, accademia illuminata. Ai mercoledì in cui ci riunivamo da Einaudi per presentare i libri ricordo filosofi noiosi, storici dell’arte impegnati: tutto questo era molto poco adelphiano. Calasso aveva ferma l’idea che si potesse fare qualcosa di grande da dilettanti. Non concedeva nessun privilegio alle competenze, ai blasoni accademici, alle intrusioni del discorso pubblico. Mi ricordo uno scrittore tedesco che fu consigliato da un lattaio e che si riconnette al fatto che i libri sono spogli il più possibile: non devono essere inseriti in uno specifico inquadramento storico-critico che sia di innesco al presente. Con Calasso ho potuto abbondare nelle note ai testi perché sono di servizio: non hanno la pretesa di darti una lettura a buon mercato, sono strumenti per comprenderne la genesi e non certo per orientarne la comprensione. Einaudi ha invece sempre avuto una funzione pedagogica, senz’altro in ossequio alle sue idee.
Del resto la leggenda vuole che Busi entrò in Adelphi come garzone di un bar e ne uscì col Seminario sulla gioventù. Di scrittori fuori dall’Italia quali ha conosciuto? Penso al suo Kundera.
Vi è stato un solo episodio, come sa Kundera era una persona segreta e segregata. Un po’ come Landolfi: no foto! [fa il gesto di coprirsi con la mano come nel celebre ritratto scattatogli a Urbino].
Quando nel 2003 ho tradotto L’ignoranza, lui ha espresso il desiderio di conoscermi, e quindi, sono corso a incontrarlo a Parigi: fu un’esperienza indimenticabile.
Lui era uomo di straordinario fascino e molto intimidente. La casa mi colpì per la sua linearità e chiarezza: era come trasparente. Fui da lui a pranzo, sua moglie aveva cucinato, e d’improvviso realizzai che ero sotto esame. La coppia mi aveva invitato per vagliarmi!
Ne uscii piuttosto frastornato. In realtà solo col tempo ho capito quanto, non mi era stato chiaro subito allora, Kundera tenesse alle traduzioni. Ovviamente le traduzioni gli stavano a cuore perché lui viveva in Francia dove scriveva ancora in ceco, ma i suoi libri non uscivano in Cecoslovacchia, dunque era mediato dalla traduzione. Ne era ossessionato, per certi versi.
Ciò che poi ho scoperto è che le cose che diceva già negli anni Ottanta, in anticipo sui traduttologi, erano geniali. Perché per lui era un rovello costante. Con grande intuizione aveva problematizzato la scorrevolezza. Citava spesso l’episodio di Chopin che si adontava quando le signore esclamavano che era piacevolissimo: era una cosa che lo faceva inferocire. E aveva ragione. Le traduzioni che scorrono non preoccupandosi della specificità dell’autore, ma che invece ambiscono solo a essere gradite al pubblico d’arrivo, sono sempre cattive.
E doveva pesare la condizione di minoranza in cui avvertiva il percepito del suo Paese come emerge in Praga, poesia che scompare, il bel saggio che lei ha da poco tradotto.
Vero, ma lasci che sconfini verso aspetti da maniaco della traduzione. A contare c’entra che lui a un certo punto ha deciso di spiccare il grande salto, come altri grandi, penso per esempio a Nabokov, cioè di scrivere in un’altra lingua. Lui ha scelto il francese, ma la sua percezione di quella lingua è sempre stata molto molto singolare. Restava la percezione di uno straniero che, come dire, ha trovato la sua patria in Francia, ma non nella tradizione che a quella lingua fa capo. Di questo ti rendi conto solo se lo traduci. Cioè: riconosci che stai traducendo del francese, ma non uno scrittore francese. Quando leggo Michon avverto alle sue spalle una folla che preme, è la folla della letteratura francese! Dietro Kundera la tradizione che preme è tutt’altra. Il suo francese è un terrain vague, ‘una terra di nessuno’. Lui dice che Stravinskij, quando si è allontanato dalla Russia, ha trovato nella musica la sua patria. Kundera non l’ha trovata nella Francia, ma nel francese. Eppure è più complicato e doloroso di così. Quando tu traduci quel francese sai che sei, rispetto a quella lingua, straniero come lo era Kundera – e questo da lettore-traduttore è abbacinante e disorientante insieme.
Mi colpisce come la sua corona di autori tutto sommato si parli molto. Arbasino e Gadda, certo, che giravano insieme in spider per la Camilluccia confrontandosi sulle rispettive opere, ma anche l’ultimo capitolo de L’incontro, e cioè il saggio sugli autori che più hanno contato per lui, Kundera lo dedica proprio a Malaparte.
Questo però è avvenuto col tempo. Se lei guarda – come avrebbe detto Serianni in diacronia – i suoi saggi, e magari a partire da L’arte del romanzo, nota che lo spettro via via si è ampliato. Prima vengono i suoi maestri dell’Europa centrale: Roth, Kafka, Gombrowicz. Poi ci sono ovviamente i grandi scrittori russi e solo dopo quelli che ha amato e scoperto in Francia, su tutti Rabelais.
Un altro “straniero in patria”, in effetti.
E non è un caso. Rabelais è uno degli scrittori che Kundera ha amato di più e, al contempo, è uno degli scrittori che, sul fronte linguistico, la Francia ha più spudoratamente tradito. Come ben diceva Céline il francese ha cancellato Rabelais per fare largo ai traduttori dei classici del Cinquecento. È uno sconfitto, di fatto. Non è un caso che gli piaccia proprio ciò che è più estraneo alla cultura francese, come non è un caso che anche Gadda in Francia sia tutto sommato un estraneo.
Eppure c’è la traduzione di Jean-Paul Manganaro per Gallimard, che lo ha definito più importante di Proust, e altre che la precedono seguite da Gadda stesso…
D’accordo, ma un conto è la traduzione, altro conto è essere compatibili con il canone di una letteratura.
E dire che Gadda l’avvertiva come la sua patria ideale. Ne I Luigi di Francia si fa beffe di Mazzarino per la sua imperizia “Con il suo francese ‘di timbro siculoromanesco’ il ‘decreto di unione’, l’’arrêt d’union’, nella sua bocca diventava ‘un arresto di cipolle’, ‘arrèt d’oignons’”.
Spassosissimo! Lei sa che la madre aveva costretto i figli a comunicare tra loro e a scrivere in francese. La madre scriveva lunghe lettere in francese e loro, a lungo, hanno scritto alla madre in francese. Questo non significa, mi auguro, che non possa essere amato un giorno. Però di fatto il plurilinguismo non è francese: Rabelais ha perso ed è per ciò, chiudendo infine il cerchio, che Kundera lo ama.
“Rabelais è uno degli scrittori che Kundera ha amato di più e, al contempo, è uno degli scrittori che, sul fronte linguistico, la Francia ha più spudoratamente tradito”.
Lei definisce Gadda una sua “passione notturna”: ha a che fare con il tipo di lettura meditata che richiede?
Non è perché io sia, come direbbe Manganelli “nittalopo”, ma perché fino al 2011 Gadda non faceva parte delle mie giornate di lavoro. Poi nei ritagli di tempo già traducevo, dunque, nei ritagli dei ritagli, mi concedevo a Gadda. Solo dopo finalmente ho iniziato a respirare e a lavorare senza sentirmi braccato.
Ora lo fa assieme a un gruppo a cui Giulio Ferroni, a suo tempo, ha riconosciuto il merito di aver inventato un nuovo genere di edizioni critiche: il racconto filologico. A cosa state lavorando?
Sempre quando posso torno a Gadda ed è molto divertente farlo con altri. Ultimamente mi sto accanendo sul dattiloscritto del secondo Pasticciaccio: cioè dei capitoli nuovi che lui non spediva all’editore. Gadda a Garzanti mandava le pagine autografe: stava in casa editrice una dattilografa che ribatteva, poi gliele rimandava, e lui le ricorreggeva. Ecco, una copia carbone di questo passaggio è sopravvissuta ed è conservata alla Fondazione Maria Corti: non una piccola trouvaille, diciamo. Li sto analizzando e la cosa divertente è che nei così detti capitoli nuovi, cioè quelli aggiunti tra il ʼ55 al ʼ57, ci sono altre note. Gadda ha continuato fino all’ultimo a produrre infinite note a piè di pagina, poi Garzanti gliele ha fatte togliere tutte.
Il sistema delle note era per lui un sistema di pensiero, dunque. Garzanti lei lo ha conosciuto: era davvero un personaggio così ingombrante? Parise, in fondo, scrive Il padrone sagomando il personaggio su di lui…
Senz’altro era così. È stato prodotto da pochissimo un documentario su di lui da Sky Arte dove io ho parlato del suo rapporto con Gadda. Era un uomo molto complicato… [ride sospirando]
Forse Garzanti non è del tutto riuscito a tenere insieme il suo catalogo: Angelica la marchese degli angeli accanto a Praz, per dire.
Gelli, che è stato direttore editoriale da Garzanti per molti anni ed era un uomo di fine acume, ha definito quel catalogo, e non si saprebbe farlo meglio, “sussultorio e accidentato”.
Ma non solo perché poteva tenere insieme tutto: enciclopedie, manuali Montessori, il “saper tutto Garzanti”, i dizionari, ma perché Garzanti si stufava presto. Era veramente anticalassiano, in questo. Guardi Landolfi: ci mancano due libri e poi l’abbiamo ripubblicato tutto. Nabokov? Lo stesso. Ma serve pazienza.
Garzanti, invece, si infiammava e si disamorava con la stessa rapidità. Un uomo intermittente. E lo stesso accadeva con i redattori: c’erano delle signore, mi hanno spiegato quando ho lavorato lì, donne che si vedevano passare per i corridoi della casa editrice a capo chino, chiamate “le vedove di Garzanti”. Redattrici che per un periodo erano state sue beniamine, magari portate in palmo di mano, e poi di colpo abbandonate.
Magari ad accenderlo erano le rivalità: Gadda doveva contenderselo con Einaudi.
Senz’altro tendeva un po’ a spadroneggiare. Però era un uomo molto intelligente: ha scritto delle cose veramente toccanti su Gadda: d’altronde era consapevole di aver pubblicato una delle più grandi opere della letteratura italiana col Pasticciaccio. Forse, in quel caso, ne è stato felice per più di un attimo… Garzanti odiava Einaudi in una maniera, devo dire, quasi patologica. Ma non era soltanto la rivalità con Einaudi, c’era in lui la convinzione che Gadda fosse un grandissimo scrittore, uno di cui essere gelosi.
Legge il Pasticciaccio da quando ha 20 anni, pensavo.
C’entra il fatto come dicono i francesi che è una boîte à surprises: ogni volta che lo apri salta fuori un imprevisto. E poi Gadda hai l’impressione di non averlo mai davvero capito: e questa sfida lo rende eterno. Infine c’è un aspetto decisivo che vale sia per il Pasticciaccio che per l’Adalgisa e, cioè, che io rido ancora a crepapelle.
Per L’Adalgisa credo sia decisivo il fatto che lei sia milanese: occorre avere presente quel tipo di borghesia lombarda.
Ma certo! I dialoghi domestici, la descrizione degli interni, certe battute pettegole: “…. E che ero una qui, e che ero una là; e che cantavo nei teatri di strapazzo, per i militari; che avevo già avuto una cinquantina d’amanti!… ma sì!… cento…. mille…. un milione!”: ogni volta che torno su questo incipit gongolo.
Con la recente ripubblicazione del Castello di Udine ho riletto l’articolo che, in veste di reporter, Gadda scrive a Marino per una sagra del vino, che ancora si tiene, e mi è parsa intatta la capacità di raccontare, in modo unico e divertentissimo, anche un luogo che non è il suo.
Quel finale mirabile che apre uno squarcio così tragico sui commilitoni a cui va il ricordo mentre l’autobus, pressato tra gli avventori della sagra, traballante lo riporta a casa. Anche la crociera sul Mediterraneo è spassosissima e degna della migliore letteratura di viaggio. Però il filo conduttore, come ha ben visto Claudio Vela che l’ha curato, è veramente la guerra con la morte del fratello. Fa capolino anche nei frangenti più impensati.
Lo abbiamo spesso citato finora senza parlarne mai direttamente: mi dice il suo ricordo di Calasso?
Fu lui a chiedermi se volevo lavorare in Adelphi e non me sono mai andato – non c’è quasi nulla che non mi faccia piacere sbrigare quando siedo a questa scrivania e di questo gli sarò sempre grato. Calasso non aveva nessuna vocazione pedagogica però mi ha insegnato moltissimo. Credo che abbia spostato alla radice molte cose dentro di me.
Esiste un gusto adelphiano, come pure c’è un certo modo di scrivere di Adelphi. Calasso ha sempre pensato che qualunque cosa esca da una casa editrice, anche una lettera di rifiuto, deve essere stilisticamente perfetta. Questa secondo me è una scuola straordinaria perché ti fa capire che ogni dettaglio contribuisce al disegno d’insieme. C’è un bellissimo libretto di un autore franco-americano, Julien Green, che è stato uno dei primi scrittori di cui mi sono occupato in Adelphi, che scrivendo di Parigi afferma che è la sola città al mondo in cui si trova anche una sola pietra che ti permette di risalire alla fisionomia della metropoli intera. La guardi e intuisci che è Parigi. Per me così è Adelphi: la copertina, il risvolto, la fascetta: tutto deve ricondurre allo stesso disegno.
È quello che Calasso, giusto in un libro Adelphi, chiama L’impronta dell’editore anche a proposito di quadri misconosciuti che adopera copertine… Ma c’è un autore altrui che brama nel proprio catalogo, non so, Maupassant di cui conosco la sua passione?
Abbiamo il Maupassant di Savinio.
“Calasso ha sempre pensato che qualunque cosa esca da una casa editrice, anche una lettera di rifiuto, deve essere stilisticamente perfetta”.
Certo, già Il Saggiatore, nella collana “Le Silerchie” curata da Giacomo Debenedetti, però…
Nel nostro archivio di schede di lettura ci sono centinaia di opere dormienti che attendo di fare: troppo arduo scegliere [ride].
Va bene. A proposito di Gadda Claudio Vela ha scritto di inediti che “non si sa se esistono”: cosa ci resta da scoprire?
Il manoscritto del Pasticciaccio. Non è un inedito, però è singolare che quello che per sineddoche chiamiamo il “manoscritto del Pasticciaccio” non sia tale. Per uno scrittore poi che, a differenza di Kundera, nemico agguerrito di ogni investigazione filologica, conservava ogni scartafaccio, è troppo strano, oserei dire sospetto, non sia rimasto nulla.
Abbiamo i capitoli autografi di cui le dicevo, ci sono sopravvissuti schemi, appunti, note compositive, ma l’autografo no. Non si è mai saputo dov’è finito. Spero di riuscire un giorno a vederlo.
Le foto in questo articolo sono di Matteo De Giuli.
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