Perché non riusciamo a descrivere gli odori? - Lucy
articolo

Federica Sgorbissa

Perché non riusciamo a descrivere gli odori?

11 Settembre 2024

Parliamo degli altri sensi con precisione e flessibilità, ma quando si tratta di olfatto i nostri orizzonti verbali sono limitati. Come mai? La risposta è nelle poche lingue che fanno eccezione.

Vi lancio una sfida: avete trenta secondi per provare a descrivere un odore senza ricorrere a parole che facciano riferimento a frutta, fiori, animali, sostanze varie (non potete dire quindi “di banana”, “di rosa”, “di cane bagnato”, “di petrolio”, e via dicendo) o che si basino su un altro dei cinque sensi. Non potete cioè dire cose come pungente (qualità tattile), fresco (termocezione), dolce (gusto), ecc. Dovete usare aggettivi esclusivamente legati all’olfatto, che definiscono l’odore senza riferirsi a nient’altro. Trenta secondi: 

Quanti aggettivi avete trovato? Lasciatemi indovinare: nessuno. Se ne avete trovato anche uno solo, vi prego di farmelo sapere – scrivete, menzionate sui social, chiamate – perché sono davvero curiosa. In Italiano, come nella maggior parte delle lingue parlate al mondo, pare infatti che non esistano quelli che in gergo vengono chiamati “descrittori olfattivi primari”, ovvero aggettivi che descrivono gli odori in maniera genuinamente olfattiva

Pensate agli altri sensi: li descriviamo con precisione e flessibilità, senza dover chiedere per forza “in prestito” nulla. I colori, per esempio: “giallo” è una parola che capiamo quasi tutti senza grandi ambiguità. Stessa cosa per il gusto: “salato”, “dolce”, “amaro”, ecc. sono tutti descrittori genuinamente gustativi, come freddo e caldo sono termocettivi, e via dicendo. Questo non vuol dire che gli altri sensi non chiedano mai prestiti da altri campi (un colore può essere caldo o freddo, per esempio), ma per l’olfatto questa modalità – il prestito – sembra l’unica via possibile. L’olfatto sembra non avere un proprio vocabolario. 

In ambito neuroscientifico si ipotizza, come spiegheremo, che questo fenomeno linguistico sia legato all’architettura fisica e funzionale del sistema nervoso centrale. Eppure l’esistenza di alcune eccezioni, ovvero lingue rare che però sono molto ricche nel gergo per gli odori e soprattutto hanno descrittori olfattivi primari usati frequentemente nella vita quotidiana, contraddirebbe questa spiegazione biologica: se gli esseri umani hanno tutti lo stesso sistema olfattivo, non dovremmo osservare ovunque la stessa anomalia linguistica?

Un senso complicato

L’olfatto è il senso che ci permette di identificare e riconoscere le molecole leggere disperse nell’aria. La prima stazione di analisi sono i recettori all’interno del nostro naso, l’interfaccia tra il mondo esterno e il sistema nervoso centrale. Capire in che modo questi recettori identifichino la molecola e ne segnalino le caratteristiche alle stazioni di analisi successive è però una cosa molto complicata. 

“È già difficile definire lo stimolo”, spiega Michele Dibattista, neurobiologo dell’olfatto e professore di fisiologia all’Università di Bari. “Definiamo ‘odoranti’ tutte quelle molecole dissolte nell’aria che hanno un peso molecolare basso e sono volatili”. Anche se sappiamo che queste entrano in contatto con l’epitelio olfattivo del naso, non comprendiamo però ancora quali caratteristiche della molecola vengano “lette” dalle cellule nervose olfattive. 

Per capire meglio questa difficoltà si può fare un paragone con quello che sappiamo su altri sensi: se la vista rileva lunghezze d’onda e intensità della luce, e l’udito frequenza e ampiezza dell’onda sonora, quale grandezza fisica processa l’olfatto? “Rileva quanto è grande la molecola chimica? Se c’è un anello di benzene o un gruppo ossigeno? È un rilevatore chimico, cioè svela la natura chimica della molecola?”, si chiede lo stesso Dibattista, che subito aggiunge: “purtroppo, questa risposta non ce l’abbiamo ancora”.

Anche se con alcune limitazioni, la ricerca scientifica nell’ultimo secolo ha tuttavia svelato molti passaggi di questo complesso processo sensoriale. L’epitelio olfattivo è uno strato di cellule nervose che riveste la parete interna del naso. Queste cellule hanno delle estroflessioni, chiamate “cilia”, immerse nel muco che ricopre l’epitelio. Nella membrana cellulare delle cilia sono presenti delle proteine che fungono da recettori, capaci cioè di legarsi selettivamente alle molecole odoranti.

Nell’essere umano esistono circa 400 tipi di recettori olfattivi, ognuno specializzato nel riconoscere diverse molecole. Quando un odorante si lega a un recettore, la cellula nervosa invia un segnale elettrico verso le aree di analisi più interne del cervello, dove il segnale si trasforma in percezione, ossia nell’esperienza dell’odore. 

Spesso tendiamo a sottostimare le nostre capacità olfattive, forse perché l’evoluzione ci ha portato a privilegiare la vista. È vero che per affidarsi in maniera preponderante al naso, come fanno i ratti, servirebbero molti più ricettori, fino a 1400, ma anche noi, con un numero inferiore, riusciamo a identificare moltissimi odori, ben più di qualche centinaio. Questo avviene anche grazie a un codice combinatorio che sfrutta i segnali nervosi di più recettori attivi in un dato momento.

Dibattista mi spiega che, al contrario del luogo comune, siamo piuttosto bravi nell’identificazione degli gli odori. “Quello in cui siamo più carenti di molti altri animali è la categorizzazione”, precisa lo scienziato. Per “identificazione” intendiamo la capacità di rilevare un odore e averne un’esperienza sensoriale, mentre con “categorizzazione” si indica il fatto di sapere esattamente di cosa si tratta. Anche se non sanno parlare e quindi nominare gli odori, i cani mostrano con il loro comportamento di riconoscere a che cosa corrisponde un particolare odore, una capacità importante per la sopravvivenza in un ambiente naturale. Noi umani, invece, siamo molto più imprecisi, e forse anche questo è uno degli ingredienti che rende i nostri linguaggi così poveri sul piano olfattivo.

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Parlare di odori

Come avrete capito dal gioco che vi ho proposto all’inizio, noi italiani possediamo un vocabolario olfattivo primario piuttosto ristretto, se non proprio inesistente. Quando dobbiamo descrivere un odore risolviamo questa carenza facendo riferimento a cose che puzzano o profumano – di fragola, di pesce, di fogna… – o attribuendo all’odore una qualità che arriva da altri sensi. Se dico che un profumo è fresco, cosa vi viene in mente? L’odore dell’aria dopo un acquazzone, della menta, della brezza marina? Se invece definisco un odore pungente, vi verrà magari in mente la canfora, che letteralmente fa pizzicare il naso.

L’italiano non è un’eccezione: le lingue senza o con pochissimi descrittori olfattivi primari sembrano essere la maggioranza. Fanno parte di questo nutrito gruppo praticamente tutte le lingue indoeuropee, per esempio. Esistono però alcune lingue, in genere parlate da comunità non molto estese, che possiedono un ricco e articolato repertorio di descrittori olfattivi primari. Fra queste ci sono il Maniq in Thailandia e le lingue asliane (un gruppo che fa parte del ceppo austroasiatico) parlate nella penisola della Malacca. Ma potrebbero essere molte di più: “In realtà, ci sono più lingue in diverse parti del mondo, non solo nel sud-est asiatico”, mi racconta Ewelina Wnuk. Wnuk è un’antropologa del linguaggio che ha studiato e vissuto con alcune delle popolazioni che parlano queste lingue eccezionali, studiando proprio le parole per gli odori. “Ci sono studi sul cantonese in cui esistono termini di questo tipo, sebbene siano usati principalmente dalla generazione più anziana. E ci sono anche parecchie nuove descrizioni provenienti da società su piccola scala, minoranze nella loro nazione”. 

Uno dei primi studi specifici sulle parole olfattive è stato condotto dagli antropologi Asifa Majid e Niclas Burenhult – con cui Wnuk ha spesso collaborato – sulla popolazione Jahai, che parla una lingua asliana. “Majid e Burenhult hanno chiesto alle persone Jahai di annusare delle sostanze e successivamente di nominare gli odori,” racconta Wnuk. “Hanno fatto la stessa cosa con madrelingua inglesi. Hanno poi osservato quanto le risposte nei due gruppi concordassero, scoprendo che gli Jahai erano significativamente più coerenti fra loro rispetto agli inglesi”. Secondo gli autori, e anche secondo Wnuk, questo significa che i parlanti Jahai sono in grado di mettere in parole gli odori in misura maggiore rispetto ai parlanti inglesi.

Wnuk ha lavorato con le popolazioni Maniq, che parlano una lingua – della varietà Kensiu, un sottogruppo dell’asliano settentrionale – ricca di termini olfattivi: “I Maniq, con cui lavoro dal 2009, considerano l’olfatto importante e ne parlano molto. È legato al cibo ma anche ai rituali o a questioni di sicurezza e pericolo”. 

Wnuk spiega che nella foresta in cui vivono i Maniq ci sono cose che hanno odori “pericolosi” o, al contrario, odori che possono essere usati per protezione. Uno dei pericoli più grandi per i membri di questa popolazione, almeno quando si recano nella foresta, sono i temporali tropicali molto violenti. “I Maniq hanno una pianta di cui scavano la radice, la seccano e, durante i temporali, la bruciano e ne parlano. Parlano dell’odore di quella pianta come di un odore buono. È parte del modo in cui credono di potersi proteggere dal temporale, per disperdere le nuvole e farle calmare”. 

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L’olfatto per i Maniq è presente in maniera massiccia nella conversazione quotidiana, spiega Wnuk.

Nei lavori sulla popolazione Jahai sono stati identificati circa 12 termini (anche se potrebbero essercene di più) utilizzati per esprimere specifici tipi di odori in modo diretto e univoco. Questi termini permettono agli Jahai di descrivere gli odori con la stessa facilità con cui si nominano i colori. In un articolo del 2014 sulla lingua dei Maniq, Wnuk e Majid hanno invece descritto 14 termini olfattivi primari che non fanno riferimento diretto alla fonte dell’odore ma si concentrano sulla qualità astratta dell’odore stesso. 

Maniq e Jahai dunque sanno parlare genuinamente di odori. Perché noi no? 

Nature or nurture?

Alcuni lavori in ambito neuroscientifico hanno provato a spiegare le difficoltà linguistiche con gli odori su base biologica, anzi anatomica. “In termini di collegamenti anatomici, il sistema nervoso olfattivo è un po’ lontano da quelli che sono i centri del linguaggio”, spiega Dibattista. “Questa lontananza anatomica si traduce anche in una lontananza funzionale. Le connessioni che il sistema olfattivo ha con i centri del linguaggio sono molto semplici, si tratta di pochi circuiti, a differenza invece della vista, per esempio, che ha molti microcircuiti che la mantengono collegata in maniera distribuita”. 

Effettivamente, una delle vie più importanti per il transito dell’informazione visiva nel cervello, chiamata “via ventrale” – quella che si occupa del riconoscimento delle cose – lungo il suo tragitto comunica con molte aree attraverso connessioni nervose. Questo garantisce un “arricchimento” dell’informazione visiva, anche per quanto riguarda il linguaggio, man mano che procede verso i centri più avanzati di processamento. Nel sistema olfattivo le connessioni sono poche e l’informazione resta molto più confinata all’interno del dominio olfattivo. Il sistema è molto più chiuso, e anche questo isolamento potrebbe contribuire a rendere la nostra capacità di parlare degli odori molto più povera rispetto ad altri sensi.

Tuttavia, mi spiega ancora Dibattista, “la biologia può essere controbilanciata dalla cultura,” e questo spiegherebbe l’esistenza di lingue che, come quelle studiate da Wnuk, rappresentano più l’eccezione che la regola. L’importanza che l’olfatto ha nella cultura di queste popolazioni, come raccontato da Wnuk, avrebbe un’influenza non solo sulla ricchezza dei termini olfattivi nella lingua, ma arriverebbe a influenzare, almeno in parte, le competenze percettive.

Che la cultura possa influire sul modo in cui percepiamo le cose non è un fatto che deve sorprenderci. Studi sulla percezione e categorizzazione dei colori, per esempio, hanno infatti mostrato che popolazioni che parlano lingue diverse hanno prestazioni diverse in compiti percettivi sui colori: se una lingua, per esempio, non distingue fra verde e blu, coloro che la parlano faranno più difficoltà a distinguere questi colori in test sperimentali. Non cambia nulla nella biologia di questi individui, la retina e tutto il sistema visivo sono esattamente gli stessi in tutti nella nostra specie, e per questo si pensa che le differenze dipendano da fattori linguistico/culturali. 

Esistono studi che ci suggeriscono che una cosa simile accada anche con gli odori. Ci sono categorie di persone olfattivamente molto allenate, come per esempio i sommelier, spiega Dibattista “che pur non avendo un maggior numero di recettori olfattivi o un’intelligenza olfattiva migliore degli altri, hanno tuttavia migliori capacità nell’identificare alcuni odori”. 

Quello che cambia in questi soggetti è l’esperienza con gli odori: “Un sommelier presta attenzione, impara e categorizza,” continua Dibattista. “Ciò lo porterà naturalmente ad avere una memoria olfattiva o delle categorie olfattive più pronte rispetto a persone come me che, diciamo, riescono a malapena a distinguere l’odore di banana da quello di melone”. 

“La questione centrale è proprio l’interesse culturale per l’olfatto. Penso che sia la chiave per leggere queste differenze linguistiche,” ribadisce anche Wnuk. 

Il declino dell’olfatto e i problemi che introduce

Esistono davvero notevoli differenze culturali per quel che riguarda gli odori fra le popolazioni come quelle osservate da Wnuk e la nostra, per esempio, differenze che sono state studiate a fondo. “Gli studi antropologici hanno discusso l’importanza dell’olfatto in altre culture, in queste società su piccola scala, e anche il declino dell’olfatto nella nostra”, spiega Wnuk. Dibattista conferma come l’era delle grandi scoperte scientifiche, ma anche figure fondamentali della cultura occidentale moderna quali Charles Darwin e Sigmund Freud, abbiano contribuito all’oblio dell’olfatto nella nostra società. Gli odori, secondo l’approccio illuminista, appartenevano infatti a un passato ignorante, superstizioso e animalesco che andava necessariamente superato. “Pensiamo a come oggi abbiamo eliminato gli odori corporei, o li abbiamo coperti con profumi standardizzati, per non distinguerci gli uni dagli altri,” dice Dibattista. 

I Maniq o gli Jahai avrebbero dunque mitigato la predisposizione biologica umana con una forte motivazione culturale a mantenere l’olfatto nella loro vita quotidiana, mentre al contrario la cultura occidentale avrebbe finito per amplificare quello che la selezione naturale aveva già iniziato a fare nella nostra specie centinaia di migliaia di anni fa mettendo l’olfatto in secondo piano rispetto ad altri sensi come la vista.

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Il trend occidentale, che ha segnato la nostra epoca a livello globale, è un potenziale problema per chi studia l’olfatto: la maggior parte della ricerca fino ad oggi è stata condotta su popolazioni che parlano lingue indoeuropee “olfattivamente povere” immerse in una cultura che favorisce una forma mentis “non olfattiva,” e questo potrebbe aver rallentato se non addirittura falsato il progresso delle conoscenze scientifiche nell’ambito. “Il modo in cui vengono denominati degli odori nella lingua Jahai mostra i pericoli di estrapolare le conclusioni dagli anglofoni al resto dell’umanità”, scrivono Majid e Burenhult nel loro lavoro del 2014. 

Non è solo un problema di campione sperimentale, però.

Gli scienziati e le scienziate che si occupano di studiare l’olfatto, nella stragrande maggioranza dei casi, sono bianchi, occidentali e parlano lingue dal “vocabolario olfattivo” limitato. Il loro punto di vista sull’oggetto di studio, fortemente influenzato – come detto– dalla cultura, potrebbe avere come conseguenza una profonda distorsione strutturale della letteratura scientifica. 

Un esempio che arriva da un altro ambito di ricerca può chiarire questo punto: ci sono oggi molti progetti per lo sviluppo di tecnologie per l’inclusione delle persone non udenti, ma, come si legge per esempio in un recente studio pubblicato su «Journal of Science Communication», la comunità dei sordi denuncia il fatto che questi progetti non coinvolgano i diretti interessati in fase di ideazione, progettazione e ricerca, limitandosi a usarli come campione sperimentale. Questo avrebbe come conseguenza risultati spesso fallimentari e un grande dispendio di risorse, semplicemente perché i ricercatori normoudenti non sono in grado di capire appieno il mondo percettivo e le necessità di una persona non udente.

Per un motivo simile, studiare l’olfatto senza prendere in considerazione il punto di vista di popolazioni con lingue più ricche e un bagaglio esperienziale diverso da quello della maggior parte degli occidentali potrebbe portare, nella migliore delle ipotesi, a risultati parziali. Introdurre maggior diversità culturale all’interno della comunità scientifica, dunque, non sembra essere soltanto l’unica scelta eticamente accettabile, ma anche uno strumento necessario per migliorare la qualità della ricerca.

Federica Sgorbissa

Federica Sgorbissa è una giornalista scientifica. Collabora con «Mind», «Le Scienze» e «Il Tascabile». Ha diretto la rivista online «OggiScienza».

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