Valentina Pigmei
04 Settembre 2025
Una volta erano gli sfoghi e le lamentele degli amici e delle amiche; ora c’è il “Trauma Dumping”, che è molto peggio e sfinisce chi lo subisce.
A Lucy Van Pelt dei Peanuts va tutta la mia ammirazione quando offre consulenze psichiatriche – non richieste – ai suoi amici. A Schroeder, il bambino pianista, disperato perché Beethoven non è mai riuscito ad ascoltare la sua Nona sinfonia, dice: “Cerca di non pensarci… sono 5 cents”. Vorrei anch’io, come lei, essere in grado di dare risposte tanto insensate quanto puntuali, per poi chiedere un contributo economico agli amici che si sfogano incessantemente con me. Negli ultimi tempi mi sono accorta che trascorro ore e ore ad ascoltare chi mi racconta di drammi sentimentali, traumi, questioni irrisolte; chi mi rende partecipe di dubbi, confidenze private, segreti reconditi. Non solo con gli amici: mi ritrovo ad accogliere racconti intimi di sconosciuti, facendomi cassa di risonanza di drammi antichi: eccomi seduta al tavolino di un bar, ad ascoltare un uomo in lacrime per la fine del suo matrimonio o sulla panchina di un parco davanti a una conoscente che mi ammorba con i dettagli della relazione con sua madre senza chiedermi nemmeno come sto. Ma è possibile stare quaranta minuti al telefono con un amico che ripete senza sosta la stessa identica litania enumerando i motivi per cui quella storia d’amore è insoddisfacente o la tipa che ha conosciuto si è comportata in un certo modo? Dopo aver sviscerato insieme la sua dipendenza affettiva, da cui comunque non ha intenzione di uscire, e dopo che io gli ho consigliato invano la terapia o lo yoga o le costellazioni famigliari o un viaggio, insomma qualunque cosa pur di non starlo più a sentire, siamo al punto di partenza.
Dunque: perché proprio a me? La verità è che, sotto sotto, ho sempre pensato di essere un po’ speciale: “Tu sai ascoltare, non giudichi”. “A te so di poter dire tutto”. “Si sente che hai sofferto anche tu”. Sarà perché sono una persona curiosa, giusta, empatica, generosa, non moralista, che mi capitano in sorte tutte queste confessioni, pensavo.
Poi c’è il mio lavoro a complicare le cose: come tanti giornalisti sono abituata a fare domande e talvolta mi rendo conto di assumere troppo spesso la postura dell’intervistatrice, specialmente se l’interlocutore suscita in qualche modo la mia curiosità. Ma il confine tra interesse umano, o magari anche sentimentale, è pericolosamente sottile in questi casi.
Nei due anni in cui ho fatto terapia – e ora so che dovevano essere molti di più – la psicologa mi disse di imparare a sottrarmi alle persone troppo richiedenti, specialmente se si trattava, come in quel caso, di un (da poco) ex compagno impegnativo che io non sapevo né potevo gestire, avendo già il mio dolore da elaborare. Disse che dovevo inventarmi delle scuse: “Perdonami ma ho il sugo sul fuoco”. Misi in pratica questo consiglio con lui e mi sentii finalmente libera. Non avevo capito, tuttavia, che questa mia disponibilità ad ascoltare i problemi altrui è patologica e – temo a questo punto – malsana. Ho scoperto che quando una persona ti riversa addosso tutta la sua ansia, stress, dolore in maniera univoca e un po’ violenta, sta facendo una cosa che le nuove generazioni chiamano “trauma dumping”, cosa ben diversa dal semplice sfogo. Oggi so riconoscere “uno scarico emotivo tossico” dall’innocuo sbrocco di un’amica. Ne sono certa perché anche io sono una scaricatrice di traumi, anche io ho abusato del tempo, della pazienza e della disponibilità di amiche e certi periodi della mia vita.
Per “trauma dumping” s’intende “scaricare in modo non regolato esperienze traumatiche o dolorose su qualcun altro, senza capire il contesto, senza chiedere il permesso e senza tener presente i limiti emotivi dell’ascoltatore”. Tutti gli sfoghi sono dettati dal bisogno, e quindi per loro natura sono un po’ univoci, ma c’è differenza tra il “dumping” e il “venting” ovvero uno sfogo emotivo più equilibrato, in cui c’è uno scambio reciproco e un rispetto della conversazione.
Se gli sfoghi sono ricorrenti e incontrollati, da ascoltatrice ti senti in trappola, svuotata, o pervasa da un senso di colpa che ti impedisce di troncare la conversazione. La persona che ti ha chiamato o che hai incontrato dal vivo, magari dopo un secolo che non la sentivi, d’un tratto ti sta raccontando del suo abuso di alcol o della sua dipendenza dai tradimenti seriali. Quella persona spesso non rispetta i tuoi limiti, nonostante le tue difese (”Guarda oggi sono stanca e non ho energia per ascoltare”). “Il trauma dumping”, mi spiega la psicanalista Laura Pigozzi, “è lo scarico di qualcosa che non si è voluto o potuto elaborare. Nello “scarico” l’interpretazione è assente. Non c’è logica né ritmo, non ci sono i tempi e soprattutto non c’è una narrazione. È un atto pulsionale. Una bocca che sta rigurgitando che ha bisogno di un lavandino. Dal punto di vista psicanalitico c’è una sola richiesta: contienimi. Come per la dipendenza da sostanze c’è una reiterazione, è il meccanismo cerebrale della ricompensa, come nella ruota del criceto. Non c’è volontà di risolvere”.
Sarà capitato anche a voi di ricevere nel giro di poche ore chiamate o messaggi a orari inconcepibili dalla stessa persona. A questi agguati telefonici reagisco sempre con una certa angoscia e mi figuro situazioni di emergenza. Che succede? “Volevo solo sfogarmi con te”. “Avevo bisogno di parlarti, ma non rispondi”. Quella parte di me che è in ansia o preoccupata per quella persona è combattuta con un’altra parte di me che è sbigottita da quell’improvviso (e opprimente) bisogno. Anche perché, nella maggior parte dei casi, si tratta di amici di genere maschile e di orientamento eterosessuale. “La tua voce è l’unica cosa che mi fa sentire sereno”. Ah, come no.
C’è anche un’altra cosa da dire: la mia vita sentimentale al momento è inesistente. Non ho una relazione da molto tempo e non ho nulla da raccontare in merito. Per la prima volta in vita mia a 51 anni, non ho tormenti amorosi in agenda, non ho il cuore spezzato, non verso lacrime per nessun uomo, non ho nessuna malinconia o nostalgia. Sarà per questo che sono in perenne ascolto delle vite degli altri?
“Nei due anni in cui ho fatto terapia – e ora so che dovevano essere molti di più – la psicologa mi disse di imparare a sottrarmi alle persone troppo richiedenti, specialmente se si trattava, come in quel caso, di un (da poco) ex compagno impegnativo che io non sapevo né potevo gestire, avendo già il mio dolore da elaborare”.
Un passo indietro. O in avanti. L’espressione trauma dumping o trauma dump, meno comune, viene niente meno che da TikTok e in particolare da video relativamente lunghi, dove abili creator ma anche utenti comuni raccontano le esperienze traumatiche, a volte anche incredibilmente intime. Il tutto magari subito dopo o subito prima di un video demenziale. Nel TraumaTok il dolore diventa intrattenimento, mentre l’algoritmo spinge su questo bisogno di connessione emotiva – evidentemente – diffuso. Nel 2024 l’hashtag #traumadump aveva 62,3 milioni e #traumadumping 19,2 milioni. La novità è che TikTok ha trasformato la vulnerabilità in un format e che, almeno per la Gen Z, normale sfogarsi davanti a un pubblico vasto e anonimo.
In Euphoria, la serie tv più amata dai teenager (e più temuta dai genitori), Rue (Zendaya) è una incasinatissima diciassettenne che riversa tutto il dolore su Jules (Hunter Schafer). Rue è emotivamente dipendente da Jules quanto lo è dalle droghe e appena può le racconta del suo desiderio di morire, del vuoto, della sua dipendenza, lo fa compulsivamente e sempre in momenti di intimità amorosa. “You’re the reason I stayed clean. But now if you leave me, I’ll have nothing.” Rue lega la propria sopravvivenza alla presenza della sua ragazza: una forma di manipolazione inconscia che mette l’altra in una posizione impossibile. Zendaya è eccezionalmente convincente nel recitare il suo scarico emotivo totalizzante.
Se le serie tv sono un compendio delle nevrosi contemporanee, come ad esempio la fortunata The Bear, quello che accade nella nuova serie di Lena Dunham Too Much, sembra quasi una summa della deriva #TraumaTok. Qui la protagonista Jessica (Megan Stalter) è una giovane donna che lavora in tv e si è appena trasferita a Londra da New York, reduce da una relazione finita malissimo. Jessica è un flusso inarrestabile di sfoghi e trasforma quasi ogni attimo della sua relazione con Felix in uno sfogo terapeutico. Ma non è tutto: Jess registra dei video sfoghi violenti e masochisti indirizzati all’ex fidanzato che poi non pubblica, salvo poi farsi sentire, mentre li registra chiusa in bagno, da Felix. Quasi dieci anni dopo Girls, la serie tv che ha segnato un’epoca, Dunham racconta relazioni che si fanno più claustrofobiche e sembrano avvitarsi su se stesse: è come se il mondo fuori, le sue tensioni, i suoi cambiamenti, non interessassero più a nessuno. Ognuno nella sua bolla, sempre più nevrotica.
Quello che mi preme maggiormente è la reazione di pubblico davanti a Too Much che si è molto diviso, rispetto soprattutto al plauso unanime suscitato da Girls. La maggior parte delle persone che conosco ha abbandonato la visione, lamentando quanto il personaggio di Jessica sia insopportabile, noioso, irritante. Ma in fondo, Lena Dunham non fa altro che raccontare quel groviglio di solitudine e verbosità che è l’amore contemporaneo.
Per fortuna ci sono le amiche. Non sempre, ma è più facile che nell’amicizia l’ascolto sia reciproco, le cose siano consensuali, simmetriche. Il podcast e poi serie tv Dying for Sex racconta la vera storia di un’amicizia intensa e sbilanciata, in cui Nikki accompagna l’amica Molly, malata terminale di cancro, nel suo viaggio di libertà sessuale, assumendosi il peso emotivo delle sue confessioni fino alla fine, con dedizione totale e amore incondizionato. Non credo di essere stata la sola a pensare o sperare che, dopo la morte dell’amica, Nikki deve aver avuto una bravissima psicologa o a sua volta un’amica molto speciale con cui confidarsi.
Perché alcune persone si prestano a diventare contenitori di infelicità altrui? Può una persona verbalmente incontinente (come me) diventare una donna di mezza età che tende ad accogliere in continuazione le confessioni altrui?
“Spesso chi fa da lavandino per gli altri”, mi spiega ancora Laura Pigozzi, “è già stato invaso. Ha già raccolto confidenze non richieste, ad esempio dai genitori. Ed è vittima di un senso di onnipotenza: chi contiene pensa di poter sopportare tutto. Ma il trauma crea a sua volta un trauma nell’ascoltatore, che si ritrova a tratta con un pezzo crudo dell’altro, non elaborato. È tipico del nostro tempo in cui c’è una spettacolarizzazione del trauma, un’epoca in cui nessuno vuole che si pensi, ma che ci si assuefi. La nostra è una società in cui si abitua a traumi inelaborato, si cerca l’anestetizzazione”.
Ho cercato di capire se a mia volta ho subito dai miei genitori racconti traumatici non richiesti, ma non ne ho memoria. Allora ho pensato che forse il mio trauma più grosso viene dalla letteratura.
Ho chiesto a ChatGPT di indicarmi dei personaggi letterari che siano “incontinenti emotivi”, figure iperverbali, caratteri che tendono a sovraccaricare l’altro. La risposta mi provocato un brivido lungo la schiena perché si tratta di alcuni tra i miei personaggi preferiti di sempre: Molly Bloom dell’Ulisse di Joyce, Franny Glass di Franny e Zooney di J.D. Salinger, April Wheeler di Revolutionary Road. “Ti interessa un tipo di “incontinente emotivo” più tragicomico, disturbante, o tenero?”, mi domanda gentilmente il chatbot.
No, grazie, basta così. Queste tre donne sono delle nevrotiche all’ultimo stadio, delle autolesioniste, e sono anche personaggi letterariamente riuscitissimi, spassosi, adorabili. Le loro voci torrenziali – ahimè – mi risuonano ancora nella testa dopo anni, come fossero delle vecchie amiche: la sensuale, esplosiva Molly Bloom, incontinente anche nella punteggiatura… “Molly fiore di montagna, con la rosa tra i capelli le ragazze andaluse”; Franny Glass, folle, instabile, ipersensibile, Franny che verbalizza tutto compulsivamente e lascia di stucco chi le sta accanto: “Sono stufa di tutti questi ego, ego, ego. Del mio e di quello di tutti gli altri. Sono stufa della gente che vuol arrivare da qualche parte, fare qualcosa di notevole eccetera, essere un tipo interessante”. Anche io alle volte sono un po’ stufa. Dei miei traumi, di quelli degli altri. Dei traumi degli altri che diventano anche miei. Dei corsi e ricorsi dei dolori altrui. Del criceto che gira sulla ruota e torna sempre da dove è venuto. O forse basterebbe una nuova storia, magari con un finale diverso?
Valentina Pigmei
Valentina Pigmei è giornalista e consulente editoriale. Ha fondato l’associazione femminista “La città delle donne” e collabora con diverse testate.
newsletter
Le vite degli altri
Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.
La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.
Contenuti correlati
© Lucy 2025
art direction undesign
web design & development cosmo
sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga
00:00
00:00