Più piacere cerchi, più diventi infelice - Lucy
articolo

Samuele Maccolini

Più piacere cerchi, più diventi infelice

28 Giugno 2024

Smartphone, notifiche, social, email; e poi fast food, alcol, sigarette, pornografia... In una società dove il piacere è tutto, l’unica vera rivoluzione è sfuggire dalle tentazioni della dopamina?

C’è stato un momento della mia vita adulta in cui ogni domenica andavo a messa. Non ero tornato sul sentiero della fede verso cui i miei genitori avevano provato a indirizzarmi da bambino. Si trattava invece di visite interessate: verso i 24 anni sono tornato a messa perché volevo ritagliarmi un’ora alla settimana in cui spegnere lo smartphone. Cercavo una scusa per liberarmi dagli impulsi che costantemente mi spingevano a scrollare i social network in attesa di una notifica. Mi sedevo, sentivo il prete parlare, e intanto la mia mente vagava, libera da stimoli artificiali. Mi sentivo in pace.

Fuori di lì la mia vita era come quella di tutti: perennemente connessa, su social e piattaforme, in balia di notifiche che non potevo ignorare perché, in larga parte, riguardano la mia sfera professionale. A fine giornata mi sentivo esausto, come se avessi passato molte ore sulle montagne russe, rincorrendo sugli schermi – sullo smartphone e sul computer – stimoli, doveri e nuovi impulsi da soddisfare.

Oggi sappiamo che le modalità con cui il nostro cervello reagisce a una routine di questo tipo sono simili a quelle che caratterizzano una dipendenza da sostanze stupefacenti come la cocaina e l’eroina. E le ricadute sul nostro umore sono causate da alterazioni chimiche simili a quelle che provocano le crisi di astinenza nelle persone tossicodipendenti.

“Verso i 24 anni sono tornato a messa perché volevo ritagliarmi un’ora alla settimana in cui spegnere lo smartphone”.

Godiamo attraverso il sistema di ricompensa, formato dalle strutture cerebrali che determinano i nostri comportamenti con l’obiettivo di ottenere risultati vantaggiosi per soddisfare i nostri bisogni. A guidare questo processo è la dopamina, un neurotrasmettitore di origini ancestrali presente in natura, nelle piante e negli animali. La dopamina viene rilasciata quando ci dedichiamo ad attività piacevoli, come per esempio fare sesso o attività fisica, bere acqua o mangiare. Molte di queste attività sono fondamentali per la nostra sopravvivenza: il cervello le percepisce come ricompense naturali che ci fanno stare bene e quindi ci spinge a ricercarle per godere ancora; un processo che ha permesso alla nostra specie di prosperare adattandosi di volta in volta alle risorse disponibili.

I primi studi significativi sulla funzione della dopamina risalgono agli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1957 Arvid Carlsson e colleghi per la prima volta hanno dimostrato che la dopamina è a tutti gli effetti un neurotrasmettitore – una sostanza chimica liberata dalle terminazioni nervose in risposta a un impulso nervoso. In un periodo in cui la scienza stava indagando i rapporti tra i neurotrasmettitori e il sistema della ricompensa del cervello, questa scoperta ha indirizzato i ricercatori ad approfondire l’ipotesi di un legame tra la dopamina e il piacere. Gli studi sono infine confluiti nell’ipotesi dell’anedonia dell’azione neurolettica, secondo la quale i livelli di dopamina nel cervello giocano un ruolo centrale nella percezione del piacere, che funge da ricompensa a determinati stimoli.

Ricerche successive hanno poi migliorato la comprensione del suo ruolo nel sistema nervoso, indagando anche il tipo di legame che questo neurormone ha con la dipendenza. Le dipendenze vengono innescate perché la dopamina interagisce con il sistema limbico del cervello, l’insieme di strutture cerebrali e di circuiti neuronali implicato nella regolazione delle emozioni e nella formazione della memoria.

Claudio Agnorelli, neuroscienziato e ricercatore presso l’Università di Siena, mi spiega che quando produciamo dopamina “il sistema limbico registra la ricompensa all’interno della nostra memoria. Partendo dal ricordo, questa parte del cervello ci spinge a individuare nell’ambiente quali sono gli stimoli di natura edonica che, attraverso la mediazione della dopamina, vengono rinforzati. In questo modo si formano comportamenti e abitudini che ci guidano nel raggiungimento di un obiettivo”.

La capacità dell’uomo di prefigurare il piacere gioca quindi un ruolo fondamentale. Infatti, i livelli di dopamina più alti vengono registrati al momento dell’anticipazione della ricompensa, quando – ad esempio – riprendiamo in mano il telefono dopo alcune ore di pausa. Proprio come capita ai fumatori che bevono il caffè la mattina e subito sentono la necessità di accendersi una sigaretta. La stessa dinamica vale per una persona che, in un determinato contesto, sente il bisogno di farsi una striscia di coca, oppure di tentare la fortuna con le slot machine. “A livello neurobiologico sono coinvolti gli stessi circuiti del cervello, il principio è sempre quello”, mi conferma Agnorelli. “Parliamo sempre di stimoli che possono dare una gratificazione immediata e condizionano il comportamento. Con l’abitudine questi stimoli diventano riflessi e quindi non sono più controllati dall’io razionale. Di fatto ne diventiamo dipendenti”.

Tutto ciò influisce sulla nostra salute mentale, perché a differenza delle ricompense naturali come cibo e acqua, gli stimoli legati alle dipendenze prevedono un rilascio di dopamina più alto. “Questa sovrapproduzione fa sì che il sistema della ricompensa debba riadattarsi”, mi racconta ancora Agnorelli. “I recettori a cui si lega la dopamina vengono ridotti e si sviluppa la cosiddetta tolleranza; se prima per avere uno stato di ebbrezza serviva un bicchiere di vino ora ne servono tre, perché ci sono meno recettori disponibili”. In questo modo servono quantità più ingenti di una determinata sostanza o attività per avere lo stesso effetto: “per gestire il volume sempre più alto della sostanza il sistema nervoso si concentra nell’appagamento di quello stimolo, rispondendo in maniera più lieve a tutti gli altri impulsi che possono farci stare bene – una carezza, un piatto appetitoso. A poco a poco, insomma, smettiamo di provare piacere per qualsiasi cosa che non sia lo stimolo oggetto della dipendenza”.

Ovviamente l’impatto delle dipendenze su corpo e salute mentale varia a seconda del tipo di sostanze e attività, dalle quantità e dalla frequenza di assunzione. Ma anche se non consumiamo droghe pesanti e non beviamo troppo alcol, ciò non significa che siamo impermeabili a dinamiche di dipendenza. Anzi. Se per centinaia di migliaia di anni l’uomo è sopravvissuto facendosi guidare anche dal naturale rilascio di dopamina, nell’ultimo secolo la società dei consumi ha invece sfruttato il sistema della ricompensa per manipolare i nostri bisogni e la conseguente ricerca del piacere. 

Lo storico David T. Courtwright usa il termine “capitalismo limbico” per descrivere le aziende che, sfruttando i nostri istinti per fare profitto, trattano le persone esclusivamente come automi il cui unico fine è perseguire il piacere. Così, a causa degli sforzi delle multinazionali per modellare le nostre abitudini e desideri, le dipendenze sono diventate il tratto caratterizzante della nostra epoca. Se mezzo secolo fa si parlava di industrie problematiche per riferirsi a quelle di alcol, tabacco e altre sostanze psicotrope, negli ultimi 25 anni ilconcetto di dipendenza si è allargato andando a coinvolgere il cibo e soprattutto – con l’arrivo di internet – la pornografia, i videogame, i social media e lo shopping. Le modalità tramite cui le aziende ci rendono schiavi dei consumi sono innumerevoli.

Dai ristoranti fast food che aggiungono zucchero, caffeina e sale ai prodotti per stimolare maggiormente il sistema di ricompensa, fino allo shopping personalizzato e basato sulla gamification per coinvolgere gli utenti: tutte le grandi aziende assumono neuroscienziati che sfruttano la dopamina per spingerci a consumare sempre di più. “Il punto del capitalismo limbico è che non si può generare profitto se le persone fanno queste cose solo occasionalmente”, spiega Courtwright. “La logica del sistema è quindi quella di spingere i consumatori verso un consumo massiccio, che diventa compulsivo e dannoso”.

“A causa degli sforzi delle multinazionali per modellare le nostre abitudini e desideri, le dipendenze sono diventate il tratto caratterizzante della nostra epoca”.

La pubblicità – attività strettamente legata alla competizione nel libero mercato – gioca con l’abilità dell’uomo di prefigurare il piacere. Prendiamo l’esempio della sigaretta, che è diventata un prodotto di consumo di massa grazie a tecniche di marketing via via sempre più sofisticate. Per decenni abbiamo associato il fumo a posizioni di potere e di successo; a fumare erano gli attori e le attrici di Hollywood, i cantanti famosi, gli intellettuali. Desiderando di essere come loro abbiamo iniziato a fumare come loro, e oggi non riusciamo più a smettere. Nel suo È facile ricominciare a fumare. Se sai come farlo, Giacomo Papi ha scritto che “la storia del tabacco e dell’occidente è proprio la storia della modernità, segnata dall’ambivalenza tra condanna e capitalismo. Si è capito subito che quello era un grande affare e che ci si poteva investire. Il tabacco si sposa perfettamente con la modernità e il capitalismo, un po’ per i ritmi: questo continuo bisogno di pause e di stimoli che abbiamo un po’ perché è una droga e quindi un consumo in serie, continuamente reiterato”.

Se la sigaretta è stato il prodotto emblematico del Novecento, i social sono le sigarette del nuovo millennio. Innumerevoli studi – e molti lavori divulgativi, come il documentario The Social Dilemma – hanno mostrato come i social media possano causare una vera dipendenza, con episodi di craving – l’istinto incontrollabile a consumare avidamente il prodotto a cui ci sentiamo vincolati, tipico delle tossicodipendenze. I social utilizzano varie tecniche per tenerci incollati agli schermi, spesso collegate alle scoperte nel campo del comportamentismo negli anni Trenta – con la differenza che al posto dei topi degli esperimenti le cavie siamo noi utenti, come scrisse Bill Davidow sull’«Atlantic» già dieci anni fa.

Ad esempio, le app di dating come Tinder si basano sulla teoria del condizionamento operante di Skinner: quando facciamo un match, riceviamo una scarica di dopamina, che ci motiva a continuare a scrollare nella ricerca di nuove compatibilità. Il carattere casuale del match agisce come uno stimolo a proseguire nella ricerca, o, come direbbe Skinner, assume il ruolo di “rinforzo positivo”. Nulla di nuovo, anche qui: sono le stesse strategie che hanno fatto la fortuna di casinò e slot machine.

“Le piattaforme hanno poi una componente sociale che viene gestita dal cervello non solo sul piano della ricompensa, ma anche valutando gli aspetti affettivi e cognitivi”, mi spiega Agnorelli. Instagram e Facebook giocano quindi sul nostro bisogno di conferme sociali, spingendoci a compararci con gli altri; da qui l’irresistibile bisogno di essere aggiornati sulle performance della nostra vita online – nella speranza di nuovi like, nuovi commenti e nuovi follower – e su quelle di amici, conoscenti, influencer e così via. Per questo può essere complesso abbandonare i social: perché a differenze del tabacco e delle droghe, non possiamo fare a meno della nostra componente sociale; è una parte fondamentale dell’esperienza umana, come bere e mangiare.

Oggi non vado più in chiesa, ma in palestra. Ho iniziato a fare attività fisica due anni fa, inizialmente spinto dalla volontà di perdere peso, poi col passare dei mesi scoprendo il piacere di allenarmi e sfogare le ansie della giornata sul corpo. Lo sforzo fisico è diventato una catarsi. Ho inserito la palestra nell’elenco delle attività che mi aiutano a controbilanciare le pulsioni del capitalismo limbico. Insieme all’attività fisica, c’è la lettura di libri e giornali; gli spostamenti in bicicletta; le sessioni di ascolto musicale; fare la spesa; pulire i piatti; preparare la cena; telefonare ai miei genitori; andare al cinema; andare a letto presto lasciando il cellulare nell’altra stanza, senza perdere due ore sotto le coperte a scrollare Instagram e TikTok.

Una vita che cerca in ogni modo di contrapporsi agli stimoli dopaminergici della contemporaneità. In quanti, oggi, sognano di fuggire dai ritmi frenetici delle grandi città, del lavoro, delle notifiche? Siamo in tanti. Il sentimento è così diffuso che il sistema stesso sta cercando di riassorbire il disagio che ha creato.

Nel giro di quindici anni, in occidente lo yoga è passato dall’essere una disciplina di nicchia a diventare oggetto di programmi di coaching nelle aziende. Decine di articoli, ricerche e content creator promuovono le pratiche di mindfulness per sconfiggere l’ansia e lo stress, che sono un terreno fertile per le dipendenze. E c’è anche chi propone manifesti per una “slow life”, in opposizione alla “frenesia imposta dal Ventunesimo secolo”. I social hanno romanticizzato l’esperienza della vita lenta facendo leva sulla nostra necessità di riposo e contemplazione della natura.

Per allontanarci dalle tentazioni fomentate dallo stress abbiamo creato applicazioni per meditare e regolare i ritmi del sonno. Grazie a questi strumenti possiamo sapere se dormiamo bene, quante volte ci siamo girati, se abbiamo russato, e ci invitano a dormire meglio. E il paradosso è che così, invece di scappare dalla macchina, la rendiamo più forte. Come ha scritto Davide Coppo su «Rivista Studio», anche queste applicazioni si basano sulla misura costante della performance: “È una gara. E una gara è una gara, che sia con te stesso o contro altri non importa né cambia la natura della cosa. Il momento del più assoluto riposo, della non-produttività per eccellenza, diventa anche quello dedicato alla competizione”.

Non è una strategia casuale. Negli Stati Uniti spopolano le videolezioni del neuroscienziato Andrew Huberman che indaga il funzionamento del cervello propinando consigli prêt-à-porter su come ottimizzare la nostra vita per renderci più performanti. I consigli di Huberman si concentrano sugli aspetti della nostra quotidianità che sono maggiormente ostaggio di vizi e cattivi stili di vita. Parliamo di “strategie supportate dalla scienza che possono essere personalizzate per ottimizzare la routine del sonno”; oppure di esercizi mentali per aderire con costanza a diete sane e all’esercizio fisico. L’intenzione dichiarata è quella di preservare la nostra salute, e insieme a essa migliorare le prestazioni individuali. Huberman e i suoi ospiti ci invitano così a prenderci cura del nostro aspetto, fare carriera e raggiungere la longevità.

Questi consigli possono essere utili a ognuno di noi se presi a piccole dosi – e non sotto il dettame dei sensi di colpa. Ma cosa succederebbe se fossero tutti applicati alla lettera? L’ossessione per la routine e la forma perfetta ci riporta alla mente reel e tiktok dei guru ultraperformativi che spopolano sui social network, sul modello di Giacomo Freddi. Personaggi che hanno costruito la propria immagine pubblica sul mito dell’uomo forte e vincente, che deve il suo successo all’efficienza fisica e attitudinale costruita estremizzando lo stile di vita che Huberman presenta come standard ideale.

In fondo quale differenza c’è tra i guru della iperproduttività e gli influencer della vita sana e lenta? Alzarsi prima degli altri per lavorare di più non è tanto diverso dal farlo per ritagliarsi una mezzoretta di yoga prima di andare in ufficio. Sono entrambe attività di adattamento al sistema: il primo utilizza la performance per dominarlo, il secondo per limitare l’impatto sul proprio benessere.

“In fondo quale differenza c’è tra i guru della iperproduttività e gli influencer della vita sana e lenta? Alzarsi prima degli altri per lavorare di più non è tanto diverso dal farlo per ritagliarsi una mezzoretta di yoga”.

Per tutelarci dal capitalismo limbico abbiamo prodotto delle nuove narrazioni che ci permettono di sopravvivere a un’esistenza che oscilla tra una tentazione e l’altra. Cerchiamo di mangiare sempre meglio, lavorare in modo più efficiente, avere un fisico più tonico, non fare tardi la sera. Stretti tra questi due poli – il bisogno del vizio da un lato, l’autocontrollo dall’altro – non abbiamo mai messo in discussione il sistema che ha innescato il nostro malessere. Al contrario, continuiamo a fare quello che ci viene più naturale: cercare soluzioni di convivenza senza dare grandi scossoni alle nostre vite.

Questa tendenza, che rivendichiamo come reazione istintiva e personalissima, dopotutto non è altro che uno degli effetti del sistema stesso. Viviamo infatti in un presente eterno: le scariche di dopamina intermittenti ci costringono ad attivare costantemente il sistema limbico al posto della corteccia prefrontale, che si occupa della pianificazione futura e della risoluzione dei problemi. Quando ci troviamo di fronte a delle difficoltà siamo quindi più portati, rispetto al passato, a distrarci per trovare rifugio nel qui e ora, evitando di mettere in discussione le fondamenta del nostro agire sociale. 

Samuele Maccolini

Samuele Maccolini è autore e collaboratore freelance. Ha collaborato con «Il Foglio», «Il Fatto Quotidiano», «Vice Italia» e altre testate. Realizza documentari con la casa di produzione e media digitale VD News.

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