Quand’è che gli scrittori hanno smesso di fidarsi dei lettori? - Lucy
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Loredana Lipperini

Quand’è che gli scrittori hanno smesso di fidarsi dei lettori?

Sempre più spesso capita di sentire parlare gli scrittori di letteratura in termini di mercato − spesso per lamentarsi del pubblico che apprezza “brutti libri”. Ma se questa tendenza denota una mancanza di rispetto nei confronti dei lettori, sono anche poche le iniziative tese a coinvolgerli.

Era il 1988, il mondo era molto diverso da oggi, e Josif Brodskij inaugurava la prima edizione del Salone del Libro di Torino invitando i lettori a costruirsi una bussola interiore per orientarsi nel mare della letteratura. Ed era importante che lo facessero, diceva, perché la letteratura, per Brodskij, era “l’unica forma di assicurazione morale di cui una società può disporre” e “l’antidoto permanente alla legge della giungla”.

Da un bel po’ di tempo leggo articoli e sento parlare di letteratura quasi esclusivamente in termini di mercato e di competizione: se si entra nella finale di un premio o meno, quanto si vende, quanto sui giornali si parla dei propri libri, se il nuovo titolo è stato citato o meno insieme alle uscite del mese e così via. Mi piacerebbe molto che, nonostante gli anni passati, qualcuno afferrasse un microfono, o poggiasse le dita sulla tastiera, per ripetere parole simili a quelle di Brodskij, e qualche volta, a esser giuste, avviene. Ma nella maggior parte dei casi gli scrittori e le scrittrici e coloro che di letteratura si occupano preferiscono lamentarsi della propria sorte, e molto spesso dei lettori e delle lettrici che comprano libri brutti.

Ora, è vero che le vette delle classifiche sono molto spesso occupate non da libri brutti, ma da libri in gran parte non letterari: libri, ovvero, che sono scritti e pubblicati per partecipare a un altro campionato, per essere puro svago più che riflessione e interrogazione sul mondo. Il che non impedisce a chi legge di leggere altro: tutti noi conteniamo più lettori, che a volte combattono con Musil e Bernhard e a volte si abbandonano a un romantasy. Uno dei problemi della crisi editoriale in cui annaspiamo è che, come in tutte le crisi, si perdono di vista le questioni più importanti, e che non sempre si riesce a fare come gli astronauti di Orbital di Samantha Harvey e guardare la Terra da lontano, amandola. I lettori, e più ancora le lettrici, spesso apertamente disprezzate in quanto non abbastanza competenti e pronte a spingere ai piani alti delle vendite libri non meritevoli, vengono visti più come un problema che come una comunità a cui si appartiene. Né, insomma, si riconosce chi legge come interlocutore, a meno di non doverlo blandire per vendere.

In una sua splendida lezione sulla scrittura contenuta in Paranoia, tradotto da Silvia Pareschi per Adelphi, Shirley Jackson parlava ironicamente del lettore come nemico: “Il lettore, dopotutto, è una specie di partner silenzioso in questa faccenda della scrittura, e un’opera di narrativa, se non viene mai letta, è sicuramente incompleta. Il lettore, in realtà, è l’unico vero, implacabile nemico dello scrittore. Ha tutto dalla sua parte: in definitiva non deve far altro che chiudere gli occhi, e l’opera perderà ogni significato. Inoltre, rispetto a uno scrittore principiante, il lettore ha il vantaggio di non esserlo mai; prima di cominciare a leggere un racconto magari ha già letto tutto quello che va da Shakespeare a Jack Kerouac. Non importa se legge un manoscritto per fare un grande favore personale allo scrittore, se apre una rivista oppure – la cosa più generosa di tutte – va in libreria e sborsa una bella sommetta per un libro: il lettore è comunque un nemico da sconfiggere con ogni trucco sleale che lo scrittore riesca a escogitare”. In quella lezione, Jackson si poneva però il problema di conquistare “l’inqualificabile buzzurro sull’amaca” e di tenere sveglia la sua curiosità senza per questo cambiare voce: “Il compito dello scrittore è proprio avvincere il lettore: se il lettore non sopporta le storie d’amore, il compito dello scrittore sarà, né più né meno, quello di fargli leggere una storia d’amore e fargliela piacere. Usando ogni espediente possibile, lo scrittore deve catturare l’attenzione del lettore e trattenerla”.

Ecco, questa è un’altra considerazione che mi piacerebbe leggere e che leggo raramente: l’interrogarsi su sé stessi invece di accusare il mondo circostante, e in particolare i lettori. Che, certo, sono cambiati, e a volte suscitano l’altrui ilarità: c’è stato un tempo in cui si ironizzava sui commenti di chi, sui siti dedicati alla lettura, bocciava La fattoria degli animali o La montagna magica, e va bene, Internet è anche questo. Ma non andrebbe considerato solo l’aspetto ingenuo della faccenda: diversi anni fa la rivista online Finzioni realizzò un Libretto rosa dicendo che lettura e scrittura erano due fasi, spesso sovrapposte, dello stesso processo creativo, e auspicava non solo una maggiore apertura di chi scrive ai lettori, ma l’affinarsi del mestiere di leggere. Per apertura, suppongo, non si intendeva la falsa familiarità che si instaura sui social, dove si è tutti fratelli e sorelle almeno finché non ci si sbrana a vicenda, ma quell’atteggiamento di rispetto di cui parlò, sempre a Torino, lo scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas, quando diceva che il lettore attivo “non si limita a consumare il libro ma lo completa”.

“Da un bel po’ di tempo leggo articoli e sento parlare di letteratura quasi esclusivamente in termini di mercato e di competizione: se si entra nella finale di un premio o meno, quanto si vende, quanto sui giornali si parla dei propri libri, se il nuovo titolo è stato citato o meno insieme alle uscite del mese e così via”.

Ed ecco il terzo punto: mi sembra che gli scrittori parlino meno di lettura. Penso a quello che scriveva Susan Sontag, a proposito dell’arte del leggere, quando confessava la stessa sensazione, ovvero che gli scrittori leggessero meno: “Leggere, l’amore per la lettura, è quello che ti fa sognare di diventare scrittore. E dopo che lo sei diventato, leggere libri scritti da altri e rileggere i tuoi libri preferiti, rappresenta un’irresistibile distrazione dallo scrivere. Distrazione. Consolazione. Tormento. E, sì, ispirazione. Naturalmente non tutti gli scrittori lo ammetteranno. Ricordo che una volta parlando con V.S. Naipaul ho fatto accenno ad un romanzo inglese del diciannovesimo secolo che adoravo, e che pensavo lui ammirasse altrettanto, come tutti gli appassionati di letteratura che conoscevo. Invece no, mi disse che non lo aveva letto, e notando un’ombra di meraviglia sul mio volto aggiunse severo: ‘Sono uno scrittore, Susan, non un lettore.” Molti scrittori ormai non più giovani sostengono di leggere poco, per svariate ragioni, e di considerare in realtà lettura e scrittura in qualche modo incompatibili. Forse per alcuni è davvero così, non sta a me giudicare. Se dipende dal timore di essere influenzati, mi sembra una preoccupazione inutile, superficiale. Se è per mancanza di tempo – le ore sono quelle e se le passi a leggere, ovviamente non puoi scrivere – allora è un ascetismo cui non aspiro'”.

Passo avanti: è vero, molti lettori e lettrici sono oggi a loro volta scrittori. Un mese fa, Giulio Mozzi ha pubblicato alcuni dati forniti da AIE sul numero dei libri pubblicati in Italia: l’editore più prolifico non è un editore, ma la piattaforma che permette di autopubblicarsi, ovvero Youcanprint, con 4374 titoli (per la cronaca al quarto posto c’è una delle più note ed esose case editrici a pagamento, Albatros Il filo, e in assoluto gli autopubblicati sorpassano nella classifica -Mondadori a parte- gli editori propriamente detti).

Qui si apre però un discorso difficilissimo, con la premessa che non c’è niente di male nella trasformazione del lettore attivo in scrittore. Anzi. Il problema è che è difficilissimo leggere quei testi, e la rete non è d’aiuto come si può pensare e a volte si sostiene, a dispetto delle centinaia di manuali e di supporti. La questione, almeno al momento, è banalissima e irrisolta: come si arriva al lettore fra migliaia e migliaia di titoli? Vale anche per l’editoria tradizionale, ovviamente. Dovrebbe esserci, intanto, un filtro che è il lettore stesso a porre in atto: conta, indubbiamente, la casa editrice, per cui chi è affezionato ai titoli di, poniamo, L’Orma, tenderà a fidarsi delle nuove scelte, a volte con ragione, altre no. Conta il titolo, conta l’autore, se già è conosciuto, conta il poter sfogliare il libro, e dunque andare in libreria. Ma a quel punto conta anche la collocazione di quel libro nella libreria medesima, e le notizie che arrivano da ultimo non sono buone: molti piccoli editori lamentano infatti che una grande catena di librerie ha portato lo sconto del 42% al 48 più una percentuale del 3% utilizzabile per acquistare spazi espositivi. “Il 51% totale solo per guardare le cedole novità”, lamentava un editore.

Cosa conta, allora. La promozione? Sì e no, dipende. È difficile promuovere, e qui si ritorna alla sovrapproduzione, una massa di titoli che escono contemporaneamente per la stessa casa editrice. Certo, ci sono articoli che ti sollecitano a cercare titoli e persone di cui ti fidi che ti assicurano che quel libro è un gran libro. C’è la critica, naturalmente: a cui si rimprovera, da ultimo, di non stroncare abbastanza: ma la stroncatura orienta il lettore? Davvero?

Da qualche tempo, mi sto facendo un’idea, forse sbagliata, su come si raggiungono i lettori. In verità non è solo su questo, l’idea riguarda in assoluto le forme di resistenza. Che secondo me devono essere plurali, si devono muovere su tanti piani, e ci vuole quello fisico, certo, ma che sia territoriale, secondo me: più che piazze, secondo il mio piccolo parere, servono presidi, servono “nidi di vespe”, per parafrasare la magnifica resistenza del Quadraro durante la Seconda guerra mondiale. Insomma, ci vogliono i luoghi dove ci si incontra.

A fine febbraio ho visitato la prima edizione di Oblivion, fiera del libro, del fumetto e dell’irrazionale, e dunque dedicata alla narrativa fantastica, che si è svolta a Roma alla Città dell’Altra Economia. Si deve a un gruppo di amici e piccoli editori, Emmanuele Jonathan Pilia, Edoardo M. Rizzoli, Ettore Bellavia e tanti altri. È costata circa 14.500 euro. 45 case editrici presenti.  Ha raccolto quasi cinquemila visitatori in un weekend. Ingresso gratuito. Punti di ristoro. Bagni puliti. Nasce, ha scritto Pillia, come progetto politico per dimostrare che sì, si può realizzare “un prodotto culturale di qualità eccezionale ed economicamente sostenibile, con un business plan credibile e la partecipazione attiva di ogni persona che ha attraversato l’organizzazione o l’evento stesso … per dirla con Pëtr Kropotkin: dimostrando che “to cooperate works better than to compete”.

È un piccolo esempio, ma è evidente che i lettori si raggiungono anche (soprattutto?) così. E la questione dell’ingresso gratuito non è secondaria. Il Salone “Testo” a Firenze, per questa edizione ha aumentato il prezzo del biglietto giornaliero del 100% (da 5 a 10 euro). Tre euro in meno di Più Libri Più Liberi a Roma, che ha registrato, nell’edizione 2024, non poche proteste da parte degli editori presenti, che hanno venduto molto, molto poco. E che infatti, nelle riunioni che si stanno susseguendo, hanno chiesto di abbassare il costo, e magari di far pagare di più per chi vuole ascoltare gli autori e le autrici più celebri non pubblicati da piccoli e medi editori, ma presenti, per dire, all’Arena Robinson. Chissà se alcune delle richieste verranno accolte: ma le fiere, anche piccole, sono un’occasione per incontrare i lettori, e, come direbbe Shirley Jackson, magari per avvincerli.

“Ora, è vero che le vette delle classifiche sono molto spesso occupate non da libri brutti, ma da libri in gran parte non letterari: libri, ovvero, che sono scritti e pubblicati per partecipare a un altro campionato, per essere puro svago più che riflessione e interrogazione sul mondo”.

Perché lettrici e lettori, a dispetto dei pochi soldi e del poco tempo, vogliono essere avvinti, e lo dimostra il proliferare in ogni città, piccola e grande, dei gruppi di lettura. C’è una questione strutturale, dunque. E c’è una questione di fiducia.

Nel 2019 Margaret Atwood tenne una straordinaria lezione ad Alba per il conferimento del Premio Lattes Grinzane, raccontando di essere stata madrina di una bellissima iniziativa, La biblioteca del futuro, in Norvegia, dove autori e autrici regalavano un inedito destinato ad essere riportato alla luce dopo cento anni. La concluse così: “A volte mi chiedono cosa si prova ad aver scritto qualcosa che nessuno leggerà prima che io sia morta. Ogni tanto li intimorisco rispondendo: ‘Come fate a sapere che sarò morta?’. Più spesso dico: ‘È la stessa cosa che succede adesso, tranne che lo scarto temporale è maggiore’. Non si può mai sapere chi potrà leggere il tuo libro, o dove, o quando. Non si può mai sapere chi sarà il Caro lettore”.

Ma che ci sarà, quel lettore, è un fatto anche se non provabile. Meglio, è una speranza. Forse, non siamo in grado di pensare in prospettiva neanche in questo caso: ma bisogna, eccome.

Loredana Lipperini

Loredana Lipperini è scrittrice, saggista, blogger, attivista culturale e docente. Il suo ultimo libro è Il Segno del Comando (Rai libri, 2024).

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