Quando guardavamo a Oriente: "Paprika" di Satoshi Kon - Lucy
articolo

Tommaso Pincio

Quando guardavamo a Oriente: “Paprika” di Satoshi Kon

18 Febbraio 2025

In questi giorni torna in sala Paprika di Kon, un film che ha raccontato i sogni, il buio e il cinema come nessun altro, e che oggi ci permette anche di osservare un tempo in cui artisti orientali e occidentali sapevano ispirarsi, spiarsi e ammirarsi a vicenda.

Rivedere oggi Paprika vuol dire, tra le tante cose possibili, tornare a misurarsi con una vecchia questione, il fascino indiscutibile e pervasivo esercitato dall’immaginario giapponese – e per certi versi orientale in genere – su quello occidentale. Le somiglianze con Inception non sono infatti una novità. Si è anzi talmente indagato e speculato che ha ormai poco senso dividersi ancora. Per alcuni l’ispirazione è così palese, quasi ai limiti del plagio, che lo stesso Christopher Nolan avrebbe dovuto ammettere di essere un grande ammiratore di Kon Satoshi. Altri rilevano che non esistono tracce di simili dichiarazioni e ricordano invece come l’idea di quel film risalga a quando il regista inglese era appena sedicenne, ovvero al 1986, molto prima che Paprika venisse concepito. La verità può ovviamente stare nel mezzo, con Nolan che davvero comincia a fantasticarci da adolescente per poi carpire soluzioni visive dall’opera di Kon. Cosa fantasticasse con esattezza non è dato sapere. Sembra tuttavia che una prima bozza, un trattamento di un’ottantina di pagine su una banda di ladri di sogni, sia stata scritta già nel 2002. Il regista ha inoltre detto che nella lunga fase di gestazione hanno  esercitato una certa importanza alcune pellicole girate sul finire dello scorso millennio centrate sulla possibilità di vivere in un mondo che in effetti non è reale. Le prime che vengono alla mente sono Matrix, in cui la solidità illusoria dello spazio fisico è soggetta al liquefarsi e Strange Days, che per ragioni imperscrutabili è oggi quasi dimenticato malgrado sia la vera scaturigine di quanto si è visto nel cinema di fantascienza almeno fino al 2006, anno in cui Paprika arriva nelle sale e cambia le regole del gioco. Qualunque opinione si abbia circa i debiti più o meno presunti di Nolan e i meriti di Inception, un punto appare infatti difficilmente contestabile: il suo film sposta poco l’immaginario dei mondi sospesi in cui la realtà si sfalda senza mai davvero ricomporsi o lo sposta molto meno rispetto a quanto abbia fatto Kon già nel 1997, con Perfect Blue. Prendiamo, per esempio, un dettaglio solo in apparenza accidentale. Da Following a Inception, passando per Memento, Insomnia, The Prestige e la trilogia del Cavaliere oscuro, i protagonisti di Nolan sono invariabilmente uomini, l’opposto di quello che avviene nel mondo di Kon, che trovava insensato centrare un racconto su un personaggio maschile perché le donne gli sembravano di gran lunga più interessanti. Tale è la complessità femminile in Paprika che la protagonista si scinde in due personaggi; da un parte, nel mondo reale, abbiamo Atsuko Chiba che si cala nei sogni dei suoi pazienti grazie a un dispositivo messo a punto proprio a tale scopo, e dall’altra Paprika, l’alter ego dietro cui la giovane dottoressa si nasconde nelle sue incursioni oniriche. La diversa natura dei protagonisti si riflette nelle architetture narrative delle opere dei registi: labirintiche ma di fatto sempre imperniate su uno zoccolo ben definito quelle di Nolan; più sfuggenti e fluide quelle di Kon anche se in apparenza semplici e lineari. Un interessante marcatore è come la trama di Inception venga riassunta sempre negli stessi termini, malgrado la sua complessità. Recensioni e sinossi parlano invariabilmente di un criminale dello spionaggio industriale, esperto nell’illecita arte di estrarre segreti alle persone mentre sognano, e di come costui accetti una sfida opposta, impiantare un’idea in una mente altrui anziché carpirne una. Con Paprika, la ricerca di una sintesi prende strade molteplici. Al centro vi è sì il furto di una macchina che consente di interagire con il mondo onirico di un’altra persona, ma il recupero del dispositivo, i rischi di un suo uso improprio da parte di terroristi, l’effettiva consistenza del reale, l’antica suggestione per cui la vita non sia nient’altro che un sogno e gli altri temi in linea se non sovrapponibili a quelli di Inception, finiscono quasi in secondo piano non appena ci si rende conto che l’avvento di macchine avveniristiche non è affatto necessario per confrontarsi con l’ipotesi di Nolan. Nel mondo di Paprika non esiste una vera separazione tra sogno e realtà né una vera irruzione dell’onirico nel reale e questo non per l’ipotesi tipicamente occidentale per cui la consistenza del reale può essere messa in discussione in ogni momento, ma perché il mondo che abbiamo creato svuota di senso entrambe le dimensioni, tanto il sogno che la realtà.

“Rivedere oggi Paprika vuol dire, tra le tante cose possibili, tornare a misurarsi con una vecchia questione, il fascino indiscutibile e pervasivo esercitato dall’immaginario giapponese – e per certi versi orientale in genere – su quello occidentale”.

A ben guardare infatti, quella di Kon, prima ancora che futuristica o filosofica, è un’opera al contempo nostalgica e ammonitrice. La sua effettiva ambiguità non è di ordine ontologico, come ci aspetterebbe da un racconto di questo tipo, bensì morale. Mentre in Inception ogni distinzione tra bene e male diventa irrilevante di fronte alla potenziale irrealtà del mondo, Paprika pone invece un grosso problema in tal senso. Fino a che punto il nemico che i vari eroi del film si trovano ad affrontare, il Presidente della stessa compagnia in cui è stata creata la DC Mini, la macchina dei sogni, può essere definito un cattivo? In una delle scene finali, egli assume le sembianze di un’entità oscura presa da folli mire di onniscienza. Va senz’altro annientato come infatti faranno Paprika e Chiba, e tuttavia è mosso da intenti in fin dei conti non malvagi e comunque degni di considerazione. Il Presidente ritiene che i sogni siano un luogo sacro, l’ultimo tratto autenticamente umano di una civiltà dove tutto è ormai artificiale, e non vuole pertanto che vengano violati. Anche in Paprika, come nel film di Nolan, resta incerto se il reale riacquisterà un predominio sulle nostre esistenze, ma in questo caso l’assenza di una soluzione non genera comunque chissà quale inquietudine, anzi forse è perfino fonte di speranza. Qui entra in gioco Kurokawa. Il poliziotto che accompagna Paprika e Chiba nelle loro avventure oniriche ha un passato di cinefilo e proprio così l’anime si chiude: con l’acquisto di un biglietto per una sala cinematografica, come a ricordarci che una macchina dei sogni esiste già. Le nostre esistenze sono immerse, per non dire travolte da un flusso continuo di immagini e realtà artificiali talmente pervasive da rendere superflua, se non patetica, qualsiasi speculazione filosofica. Non per niente in Paprika, il cinema sembra fare il paio con la costante presenza di luna park abbandonati. I film non sono forse giostre per adulti? Il cinema non è forse il luogo in cui ritroviamo le promesse tradite dell’infanzia? Il buio delle sale non è quanto di più prossimo al sonno, il buco nero in cui precipitiamo ogni notte generando sogni che spesso là sotto restano, in un abisso di immanente oblio senza affiorare in superficie, in quella realtà apparente chiamata stato di veglia, diventando ricordo? Forse, prima ancora che porci dubbi sull’effettiva consistenza del mondo, dovremmo chiederci se ciò che non ricordiamo non sia più vero e presente di ciò che sembra essersi impresso in maniera indelebile nella nostra mente. Ci aggrappiamo con certezza assoluta al valore della memoria, come se fosse quella l’unica ancora di salvezza, il fondamento di ogni civiltà, quando invece non c’è niente di più ingannevole, controverso e non di rado falso dei ricordi e della rappresentazione del mondo che da essi discendono, il racconto. 

Rivedere Paprika a distanza da anni – col senno di un tempo che ha trovato nei social un ulteriore e ancora più potente fantasma del reale, fantasma che peraltro Kos Satoshi sembrava già presagire con Perfect Blue, quando internet era agli inizi e si comunicava ancora via fax – vuol dire, tra le  tante cose possibili, chiedersi anche se nell’oblio, anzi in ciò che non è mai giunto alla memoria consapevole, non vi sia più verità che nel ricordo. Torna in mente Tanizaki quando nel suo Libro d’ombra riconosce negli orientali una maggiore capacità di accettare i limiti dell’esistenza e di conviverci, a cominciare dall’oscurità. Il suo bersaglio era l’illuminazione elettrica e il modo in cui si scagliava contro questa invenzione di un Occidente alla ricerca di una luce che non cessa mai ricorda proprio il Presidente della compagnia in Paprika e il suo sgomento di fronte una macchina in grado di  fare ai sogni quello che una lampadina fa al buio. Nemmeno Tanizaki era tuttavia alieno da eccessi. Nella sua determinazione a contrapporre un’anima all’altra arrivava a dire che soltanto gli orientali hanno una forte tendenza a cercare la bellezza nel buio e che, per contro, non conosceva un solo occidentale che avesse una propensione a deliziarsi nell’ombra. Ciò è chiaramente falso. Anche l’Occidente ha un suo cuore di tenebra peraltro niente affatto marginale, sebbene possa non sempre esprimersi nei termini in cui lo pensava Tanizaki e che vanno comunque relativizzati, ovvero letti con la lente di un contesto dove occidente valeva quale sinonimo di modernizzazione. È inoltre evidente che le nozioni di luce e ombra presentano sfumature diverse nei due mondi, dovute a ragioni naturali, prima ancora che religiose e filosofiche. Chi conosce l’Estremo Oriente e dispone di un occhio sensibile sa bene come la luce di quei luoghi è molto diversa, più bianca e diafana della luce europea. Più ci si allontana dall’equatore più il fenomeno diventa apprezzabile. Lo si deve probabilmente al fatto che laggiù la luce sorge dalla immensa distesa dell’oceano e viene dunque amplificata e al contempo sfumata dalla rifrazione, mentre da noi arriva più opaca e compatta, appesantita, perché una buona parte di essa è stata inghiottita da miglia e miglia di terra, e soltanto nel momento dell’occaso viene esaltata dallo specchio dell’Atlantico. È anche questa una generalizzazione, sia chiaro, perché ogni luogo, ogni singolo paese, ha una sua luce determinata da una miriade di fattori che vanno dal colore delle pietre alla vegetazione più o meno fitta, all’umidità presente nell’aria e altro, ma guardando alla pittura che Oriente e Occidente hanno prodotto nei secoli, al diverso modo di concepire lo spazio, ci si rende conto di quanto la qualità della luce influisca sulla definizione di una cultura. Senza contare che, al di là delle differenze, la luce è sempre luce, ovunque illumini. Il che ci riporta infine alla questione di partenza, l’influenza dell’immaginario giapponese su quello occidentale. Tra i tanti interrogativi presenti su Quora ve n’è uno che fa al caso nostro. Perché gli esperti occidentali in materia di Oriente sono molto più numerosi di quelli orientali in materia di Occidente? chiede un utente di quella piattaforma senza mettere in dubbio che la sua non è che una percezione. L’aspetto interessante non è che la domanda sia insensata o almeno mal posta, ma che alle orecchie di molti non suoni assurda, tanto che in molti si sono adoperati a fornire la loro spiegazione di uno squilibrio del tutto immaginario. Del resto, Paprika in Occidente viene spesso letto alla stessa maniera: come l’opera su cui Christopher Nolan, Darren Aronofsky, David Fincher e chissà quanti ancora hanno costruito il proprio linguaggio. Sembra quasi che senza Kon Satoshi un certo cinema contemporaneo non avrebbe mai preso forma, dimenticando che il cinema – fino a prova contraria – è un’invenzione dell’Occidente, frutto anche di quella nostra ossessione per la luce che Tanizaki preferiva tenere a distanza; dimenticando soprattutto quante citazioni siano presenti in Paprika, da Vacanze romane a Dalla Russia con amore, per non parlare dell’enorme debito nei confronti Alfred Hitchcock. E qui si apre un altro fronte. Sappiamo bene quanto il maestro inglese di Hollywood guardasse alla pittura e in particolare al surrealismo; per una famosa sequenza onirica di Io ti salverò – che non avrebbe sfigurato né in Paprika né in Inception – venne perfino coinvolto Salvador Dalì. Pensiamo dunque alle parole con cui si apriva il Manifesto del surrealismo: “Tanto credito prestiamo alla vita – a ciò che essa ha di più precario: la vita reale, naturalmente – che quel credito finisce per perdersi. L’uomo, questo sognatore definitivo, di giorno in giorno più scontento della sua sorte, fa a stento il giro degli oggetti di cui è stato portato a fare uso, e che gli sono stati consegnati dalla sua incuria.” Qualcuno ha osservato che l’estetica di Inception si ispira chiaramente al surrealismo, mentre Paprika è surrealista nell’anima ovvero una fantasmagoria che Breton avrebbe guardato con lacrime di gioia, dopo averne versate di orrore alla vista dei film di Nolan. Simili speculazioni lasciano il tempo che trovano, non si discute su questo, e tuttavia tra l’estetizzazione di un problema – che sia la consistenza del reale o altro poco importa – e il calarcisi con tutte le scarpe corre un bel tratto.

“Nel mondo di Paprika non esiste una vera separazione tra sogno e realtà né una vera irruzione dell’onirico nel reale e questo non per l’ipotesi tipicamente occidentale per cui la consistenza del reale può essere messa in discussione in ogni momento, ma perché il mondo che abbiamo creato svuota di senso entrambe le dimensioni, tanto il sogno che la realtà”.

Quando parliamo di influenze, rimandi, suggestioni tendiamo spesso a sottovalutare quanto certi riferimenti o richiami svolgano una funzione decorativa, posticcia, strumentale e comunque lontana da quella che presentano nel contesto di origine. L’immaginario giapponese che oggi arriva in Occidente non è più quello di un tempo. Sembra parlare soltanto di anime in pace con sé stesse, l’ambiente e il destino; di un’armonia di cui non siamo più capaci, semmai lo siamo stati, come se tutti i giapponesi vivessero nella composta e semplice beatitudine dell’addetto alla pulizia dei bagni di Perfect Days, che è peraltro il film di Wim Wenders più vicino a Paris, Texas. Eppure c’è stato un tempo in cui noi occidentali prestavamo attenzione a segnali di ben altro tenore, generatori di inquietudini che venivano non di rado considerate insane e perverse. L’elenco è lungo. Può andare dal grottesco ibrido di carne e acciaio di Tetsuo ad Audition, il cui regista, Takashi Miike, si vide aggredito proprio in Occidente durante la proiezione del film da una donna che gli gridò “Lei è malvagio!” Per non parlare di Ecco l’impero dei sensi di Ōshima Nagisa o dei conflitti di cui è preda l’attore di Confessioni di una maschera di Mishima Yukio. Forse un punto di unione tra questi due estremi, per noi occidentali, è l’opera di Murakami Haruki, dove luce e ombra sembrano convivere senza che nessuno dei due elementi prevalga o debba prevalere sull’altro. Ma ancora una volta non sono che nostre impressioni. Se, come scriveva Rimbaud, Je suis un autre, figurarsi cosa è davvero l’altro. 

Paprika è in sala fino al 19 febbraio.

Tommaso Pincio

Tommaso Pincio è scrittore, traduttore, pittore. Il suo ultimo libro, rientrato nella cinquina del Premio Campiello, si intitola Diario di un’estate marziana (Giulio Perrone Editore, 2023).

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