Quanta libertà dobbiamo lasciare ai nostri figli? - Lucy sulla cultura
articolo

Benedetta Fallucchi

Quanta libertà dobbiamo lasciare ai nostri figli?

L’autonomia dei bambini si scontra con città poco accoglienti e genitori sempre più presenti. Ma cosa perdiamo, tenendoli al sicuro? E soprattutto, cosa perdono loro?

Ho consegnato a mio figlio E., alla soglia dei suoi 11 anni, l’unico segreto che conosco per non farsi arrotare dagli sconsiderati automobilisti romani: la nozione di contatto visivo. Lo ha fatto suo: addirittura a volte allo sguardo aggiunge l’imposizione delle mani cercando di fermare il flusso delle auto. Dall’inizio della prima media, quindi, E. percorre da solo il tratto di strada da casa a scuola, e viceversa: circa 1,5 km, alle sette e mezzo del mattino e alle due del pomeriggio. Il tragitto in autonomia è diventato la sua routine. Ne ha subito acquisito una certa fierezza. Camminando, si guardava intorno: c’era l’uomo di mezza età seduto ogni mattina allo stesso tavolino del bar in compagnia solo delle sue sigarette, la vecchia signora dalla capigliatura stupefacente, l’edicolante assonnato. E. mi raccontava le complicate storie che inventava a partire da questi personaggi, ed era contento se qualche volta facevamo la strada insieme, così poteva mostrarmeli e insieme potevamo ampliare le loro biografie immaginarie. 

Altri genitori dei suoi compagni di classe, pur abitando alla medesima distanza dalla scuola, reputavano ancora prematuro mandare i figli da soli, e i ragazzi spesso accettavano in cambio della mezz’ora in più di sonno garantita dal passaggio in auto. Noi ci sentivamo minoranza, ma contenti. 

L’autonomia di movimento di un minorenne è un tema che contiene in sé altri temi: la sicurezza delle strade e della città, l’approccio educativo, l’organizzazione scolastica. Da valutare c’è anche l’aspetto legale. Quando per noi è diventato normale salutare al mattino E. per lasciarlo alle sue piccole avventure, mi è capitato – potere dell’algoritmo! – di incappare in alcuni video allarmistici in cui degli avvocati prestati al ruolo di influencer, o viceversa, mettevano in guardia i genitori dal lasciare andare per strada, o anche lasciare in casa, i propri figli al di sotto dei 14 anni. 

Per avere conforto sulla mia condotta e per risposte più certe, ho chiesto a Francesca Bartolini, professoressa di Diritto privato presso l’Università degli Studi Link di Roma. 

Mi chiarisce subito che in Italia “la legge non dice cosa il minore può fare e nemmeno cosa non può fare” – e forse da qui nasce la confusione. “La legge però dice chi risponde, o chi deve pagare, se qualcosa va storto”, continua Bartolini. Dal punto di vista penale, un minore di 14 anni non potrebbe essere lasciato da solo, quindi se le cose si mettono male, sono i genitori a dover rispondere del reato di abbandono di minore, o a dover risarcire eventuali danni sofferti dalla vittima del reato commesso dal minore. Tuttavia, esiste una prassi abbastanza consolidata nel tempo per cui anche ai minori di 14 anni è lasciato un certo margine di autodeterminazione (un ragazzino può certamente comprare la merenda o le figurine, per dire). Questa nozione di relativa autonomia del minore, secondo Bartolini, è frutto di un’evoluzione del diritto di famiglia: “si è passati dalla patria potestà, che poneva l’accento sul potere e in cui era dichiarato lo squilibrio tra i coniugi, alla riforma del 1975 in cui la potestà è genitoriale e in cui i coniugi sono sullo stesso piano per la legge. Poi ci sono state le ultime modifiche, nel 2012 e 2013, che hanno riformato la disciplina della filiazione in Italia, introducendo il principio della parità di trattamento tra tutti i figli (nati dentro e fuori al matrimonio) e hanno sostituito alla potestà la responsabilità genitoriale, spostando dunque l’accento sulla responsabilità condivisa, e non sul potere”.

Dunque se sono pochi i ragazzi liberi di esplorare, non dico la città, ma almeno il quartiere in cui abitano, non è (o almeno non solo) per un limite imposto in modo inequivocabile dal nostro ordinamento giuridico. Certo, le norme tradiscono sempre il contesto da cui sono state generate: se in Italia il codice penale italiano prevede il reato di abbandono di minore, per la Svezia questo crimine si configura solo per i bambini fino ai 5 anni. 

Quando mi è capitato di discutere con altri genitori a proposito delle modalità di indipendenza concesse ai figli, molti hanno sollevato la questione sicurezza, in primis il traffico e i rischi sulla strada. Tra quelli che mandano i figli da soli c’è chi si tranquillizza per via del cellulare dato al figlio ma più che altro il telefono serve a placare le ansie degli adulti: i ragazzi vengono assillati in ogni momento per sapere dove si trovano o addirittura sorvegliati attraverso la geolocalizzazione. 

L’organizzazione Clean Cities, una rete di associazioni transnazionali che da tempo si occupa di mobilità attiva e sostenibile, nel maggio del 2025 ha stilato una classifica delle città europee e dei progressi compiuti proprio in relazione alla circolazione di bambini e ragazzi. La classifica tiene in considerazione tre elementi: sicurezza dell’infrastruttura ciclabile, limiti di velocità e presenza di strade scolastiche in cui la circolazione dei mezzi viene ridimensionata per favorire gli spostamenti degli studenti. La prima città italiana delle 36 censite è Bologna con una buona sedicesima posizione mentre troviamo Milano al 23° posto e Roma al 32°. L’analisi sottolinea come a fare la differenza siano le decisioni a livello di politica locale, più che a livello nazionale. Anna Becchi, coordinatrice europea della campagna “Streets for kids” di Clean Cities e da molti anni attivista per la mobilità sostenibile, mi dice che “ci sono città che ultimamente hanno portato avanti un ripensamento radicale degli spazi urbani: è il caso di grandi metropoli come Parigi o Barcellona, non solo le classiche Copenaghen o Amsterdam sempre citate”.

E l’Italia? In generale siamo indietro, forse persino regrediti sul tema della mobilità indipendente dei bambini, ma “qualcosa di buono invece si è fatto per quanto riguarda le strade scolastiche, ovvero gli spazi immediatamente adiacenti alle scuole che vengono messi in sicurezza per i pedoni, sperabilmente per tutto il giorno, quanto meno negli orari di ingresso e uscita da scuola. Le strade scolastiche sono il primo passo per rendere le nostre città vivibili, prima di tutto per i bambini. Sono spazi car free, che permettono ai bambini e ragazzi, così come ai loro genitori, di muoversi liberamente; sono facili da realizzare, basta qualche fioriera e il gioco è fatto, ma si vede subito la differenza, e ce lo dicono i bambini stessi, così come gli insegnanti e i genitori”. Secondo Becchi non ci si deve concentrare solo sulla sicurezza stradale – talvolta un alibi per genitori iperprotettivi. Piuttosto, è necessario un cambio radicale di paradigma: “Bisogna trasformare le città in luoghi in cui la priorità è data alle persone: anche dividerci in categorie come pedoni, automobilisti, ciclisti non ha molto senso: sono categorie effimere, che cambiano di continuo. Le città devono essere per le persone, bisogna spostare il focus su questo, cambiare l’idea stessa delle strade che non devono solo essere le arterie di scorrimento dei mezzi di trasporto”. In effetti, le strade italiane sembrano progettate primariamente per i veicoli, e le regole modellate di conseguenza. Talvolta con esiti grotteschi. È di pochi giorni fa la vicenda accaduta a Lainate: il padre di un bambino di 8 anni si è visto recapitare una multa per il “mancato controllo del velocipede” del figlio – il quale era caduto dopo essersi scontrato con un camioncino che in parte ostruiva un passaggio pedonale, quindi in divieto di sosta.

“Ho consegnato a mio figlio E., alla soglia dei suoi 11 anni, l’unico segreto che conosco per non farsi arrotare dagli sconsiderati automobilisti romani: la nozione di contatto visivo”.

A livello scientifico, la possibilità per i bambini di muoversi nel percorso casa-scuola senza la supervisione degli adulti viene indicata con l’acronimo CIM, che sta per “Children independent mobility”: il primo a occuparsene è stato il sociologo Mayer Hillman che in uno studio del 1990 illustrò la sua tesi circa la diminuzione di autonomia per i bambini tra gli anni Settanta e Novanta. Nel solco di quell’analisi ma più di recente, l’ultimo report del Policy Studies Institute dell’Università di Westminster sulla CIM analizza sedici realtà nazionali. L’Italia si colloca al penultimo posto, tra i paesi con il livello di mobilità indipendente dei minori più basso, insieme al Portogallo e al Sud Africa. All’estremo opposto il Giappone e i paesi del Nord Europa.

La Finlandia risulta la più virtuosa: i bambini finlandesi iniziano a fare commissioni e piccoli giri in autonomia già dai 7 anni. Seguono Norvegia, Svezia, Danimarca, Germania. Il Giappone, per alcuni versi è un caso a sé: lì esiste dagli anni Novanta un format televisivo dal titolo emblematico, “Old enough”, che ha avuto un certo successo anche fuori dai confini nazionali. Il programma mostra bambinetti di 2-3 anni che si avventurano fuori casa, seguiti dalle telecamere e in sicurezza, per sbrigare la loro prima commissione, magari anche attraversando strade a più corsie – roba da far venire i tremori a qualunque genitore italiano. Al di là dell’evidente quota di finzione televisiva, è vero, dati alla mano, che in Giappone i minori beneficiano da sempre di una certa autonomia, di solito si muovono da soli fin dalle scuole elementari, sostenuti anche dall’aisatsu, la tradizione del saluto, e dal senso di protezione del vicinato.

Eppure, per quanto possano esserci sfumature diverse, il declino della mobilità indipendente dei minorenni è un fenomeno generalizzato: un tempo era normale incontrare per strada al mattino bambini che, zaino in spalla, facevano il tragitto casa-scuola, o ragazzini che di pomeriggio giravano liberamente in bicicletta; oggi non è più così – persino nei paesi scandinavi o negli Stati Uniti, dove le scorribande in bici costituivano quasi un topos cinematografico.

L’indagine Eumetra, realizzata nel mese di maggio 2025 per conto di Save the Children e «Sole 24 ore», conferma che in Italia sono ancora relativamente pochi i ragazzi delle medie che vanno a scuola da soli: meno della metà (44,5%), e solo il 33% usa i mezzi pubblici in autonomia, così come il 44% non svolge da solo i compiti scolastici. I genitori inoltre, nella stragrande maggioranza dei casi, accompagnano i figli anche alle attività sportive. Sono dati significativi e che non si discostano troppo da una precedente ricerca Istat: lì, addirittura se si prende il dato relativo ai comuni con più di 50.000 abitanti, solo un risicato 32% degli 11-14enni non viene accompagnato a scuola da un adulto. Eppure, per questa stessa categoria di ragazzi, a una ridotta indipendenza nella vita off line corrisponde una notevole libertà on line.

“Esiste una corrente di pensiero internazionale che indaga come a spazi di autonomia molto forti in ambito digitale non corrispondano altrettanti spazi di autonomia nel mondo materiale e nel tempo libero dei giovani”, mi dice Antonella Inverno, capo dipartimento Ricerca e analisi di Save the Children. “Nella fascia di età 11-13 anni, il 76,6% usa lo smartphone in autonomia, una percentuale che cresce all’aumentare dell’età”, e un genitore su cinque non mette in campo nessuna strategia di monitoraggio delle attività on line dei figli. “In generale, la ricerca racconta ciò che già ci racconta la demografia: in Italia ci sono sempre più figli unici e genitori sempre più anziani e ciò si traduce in un atteggiamento iperprotettivo e in un innalzamento dell’età dell’autonomia per i ragazzi”, dice Inverno.

Insomma, portiamo i ragazzi in auto a scuola ma poi non li accompagniamo sui social. Non senza conseguenze: “Lo sviluppo dei bambini e dei ragazzi passa per l’esperienza, per il gioco, per la sperimentazione: tentare, sbagliare e riprovarci: si tratta di un processo fondamentale per il cervello, per la crescita. Ridurre questo tempo danneggia la costruzione dell’identità, così come ridurre la vita fuori casa aumenta il tempo tra le mura domestiche e quindi la disponibilità di fruire contenuti on line”, conclude Inverno.

Ma è la città a essere diventata un luogo inospitale per i bambini o siamo noi a non lasciare più i nostri figli liberi di mettersi alla prova, sperimentarsi, muoversi in autonomia? C’è un’esperienza italiana assai longeva (è nata nel 1991 da un’idea del pedagogista Francesco Tonucci), che cerca di proporre delle soluzioni a partire da questi interrogativi.

Si chiama La città dei bambini ed è “un progetto politico che, ispirandosi alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, chiede alle amministrazioni di promuovere il protagonismo dei bambini all’interno della città”, mi dice Marica Notte, attuale coordinatrice della rete italiana. L’idea è quella di ripensare gli spazi urbani partendo dall’ottica del bambino. Che non significa “infantilizzare la città” quanto piuttosto ribaltare la logica corrente adulto-centrica, e partire dall’idea che “una città buona per i bambini è una città buona per tutti”

Secondo Notte, è a partire dal secondo dopoguerra, con il boom economico e la crescente industrializzazione, che si modifica la nostra relazione con le città. Si è ricostruito con in mente un preciso destinatario: il maschio adulto lavoratore. “Roma è un chiaro esempio di questo tipo di urbanizzazione con spazi specializzati e in cui la circolazione privilegiata è in automobile. È chiaro che questo ha un impatto sull’autonomia di alcuni soggetti, in primis i bambini. Ma ciò è accaduto – continua – in concomitanza con altri aspetti psico-sociali. Oltre al traffico, è cambiata anche la percezione genitoriale: i genitori di oggi tendono a sottostimare le competenze del bambino e a sovrastimare i rischi dell’ambiente. Una volta un genitore riteneva che fosse suo compito promuovere il più precocemente possibile l’affrancamento dalla tutela parentale. Oggi sembra che il modello si sia capovolto”. Spesso con l’effetto di compromettere lo sviluppo e la salute del bambino.

Tra i progetti della Città dei bambini c’è anche “A scuola ci andiamo da soli”, grazie al quale i bambini della primaria effettuano il percorso tra casa e scuola senza la supervisione degli adulti. La rete internazionale comprende circa 300 città; in Italia, la cittadina di Malnate, in provincia di Varese, è arrivata nel 2024 a oltre 80% dei bambini che vanno a scuola da soli, si è riusciti persino a eliminare il pulmino; fuori dall’Italia, un esempio di cui andare fieri è quello di Pontevedra, in Spagna, dove la continuità di esperienza di governo della città ha fatto sì che l’esperienza di questo comune di circa 80.000 abitanti divenisse un modello di pedonalizzazione e accessibilità.

“Ma è la città a essere diventata un luogo inospitale per i bambini o siamo noi a non lasciare più i nostri figli liberi di mettersi alla prova, sperimentarsi, muoversi in autonomia?”

A volte bisogna superare anche le resistenze e le pastoie delle istituzioni scolastiche, ma il punto su cui insiste Notte è quello relativo alla genitorialità. “Parlare di autonomia nel percorso casa-scuola è un espediente per aprire il discorso più ampio sull’autonomia del bambino: quando un genitore si accorge che un figlio è in grado di fare questo primo passo, allora forse sarà più disposto a lasciarlo uscire da solo anche il pomeriggio per giocare liberamente con gli amici. I bambini sono quasi scomparsi dalle nostre città, non li vediamo più giocare per strada o sui marciapiedi; li troviamo relegati in parchi gioco tutti tra loro identici, e sempre controllati dall’adulto che dall’alto ‘monitora’ – l’ormai celeberrimo ‘genitore elicottero’”.

Insomma, non bisognerebbe creare “ghetti”, per quanto allettanti, per i bambini: la città stessa dovrebbe essere integralmente un campo di gioco, non in quanto spazio costruito appositamente e artificialmente, ma come luogo in cui spontaneamente si attivi il gioco e l’esplorazione.

Una città che vuole riconoscere la cittadinanza dei bambini deve, prima di tutto, dare loro il permesso di uscire di casa”, mi dice ancora Notte, che aggiunge: “I bambini sono degli indicatori di benessere. Sono come le lucciole: quando nelle città non ci sono le lucciole, significa che c’è molto inquinamento; quando nelle città non ci sono bambini per strada, vuol dire che la città è malata”.

Ripensare gli spazi urbani e concedere più autonomia a soggetti che l’hanno progressivamente perduta significa riprogettare la collettività, e questo vale in particolar modo per le metropoli dove il tessuto sociale è più lacerato. Ha una valenza politica.

Qualche giorno fa E. mi ha chiesto di prendere con un’amica un treno locale che lo avrebbe portato più distante, fuori dai soliti confini del quartiere. Io e il padre, tentennando, stavolta gli abbiamo detto di no, aggrappandoci all’idea, vuota e abusata, del “quando sarai più grande”. Ora, mettendo all’angolo la madre ansiosa che abita anche in me, mi rammarico di averglielo impedito.

Benedetta Fallucchi

Benedetta Fallucchi è giornalista, scrittrice e lavora nella sede di corrispondenza romana del maggiore tra i quotidiani giapponesi. Il suo primo libro è L’oro è giallo (Hacca, 2023).

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