Quel che resta del gelo. Intervista a Sebastião Salgado - Lucy
articolo

Guia Cortassa

Quel che resta del gelo. Intervista a Sebastião Salgado

Per oltre cinquant’anni il grande fotografo brasiliano ha documentato la bellezza e la rovina del pianeta. Lo abbiamo incontrato in occasione di "Ghiacciai", la mostra al Mart di Rovereto che denuncia con immagini monumentali la fragilità del nostro equilibrio climatico.

Per più di cinquant’anni, Sebastião Salgado ha girato il mondo per documentarne le meraviglie e la rovina. Con alle spalle una carriera da economista nel campo della cooperazione, abbandonata nel 1973 per dedicarsi interamente alla fotografia, il brasiliano sa bene quali sono i punti nevralgici del pianeta, quelli che più di ogni altro sono in grado di restituire un’immagine – visiva, sociale e ambientale – spietatamente veritiera delle condizioni in cui si trovano la Terra e i suoi abitanti. Per questo, negli innumerevoli viaggi che lo hanno portato dalle grandi metropoli agli angoli più remoti dei cinque continenti, la sua lente si è rivolta non solo sulle persone, ma anche e soprattutto sulla natura, sugli ecosistemi, sugli equilibri delicatissimi e instabili che si creano quando l’uomo e il resto del mondo si incontrano.

Proprio questa capacità di cogliere la fragilità di questa relazione tra spazi incontaminati e antropizzazione, e di restituirla con immagini fotografiche dalla grandissima forza visiva ed emotiva, ha ispirato Ghiacciai, il progetto espositivo pensato per le istituzioni trentine Trento Film Festival, Mart e MUSE, in occasione dell’Anno Internazionale della Conservazione dei Ghiacciai proclamato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per il 2025. Un’iniziativa per sensibilizzare alla tutela e alla salvaguardia di uno degli ecosistemi più vulnerabili e, insieme, vitali per il pianeta, che da tempo hanno attirato l’attenzione di Salgado. Anche questa volta, il suo obiettivo si è rivolto alle distese di ghiaccio trattando le imponenti vedute naturalistiche come veri e propri ritratti psicologici del pianeta. Davanti alle stampe di grandissime dimensioni delle ultime zone non antropizzate del pianeta, la sensazione non è quella sublime del Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, ma piuttosto l’inquietudine oscura dell’Isola dei Morti di Arnold Böcklin. La natura non ci offre la sua visione maestosa e rincuorante, ma un messaggio ben preciso e spietato: il tempo è finito. Ne abbiamo parlato con Salgado, in occasione dell’inaugurazione della mostra, che sarà al MART di Rovereto fino al 21 settembre 2025.

Quel che resta del gelo. Intervista a Sebastião Salgado -

Come nasce Ghiacciai?

Nei miei viaggi, mi sono trovato in regioni in cui i ghiacciai erano così importanti che ovviamente li ho fotografati. Ho camminato molto in Antartide, in Patagonia… Il Campo de Hielo, tra Cile e Argentina, è probabilmente il gruppo di ghiacciai più importante del pianeta, e ora si sta sciogliendo. Quando lì finirà il ghiaccio, il livello degli oceani intorno al pianeta si alzerà di circa due metri, preservarlo è fondamentale. C’è un enorme ghiacciaio che si estende verso il Pacifico e si è formato in direzione dell’Argentina, nel Lago Argentina, e ci sono andato. Ho camminato molto in Antartide, o nel nord del Messico – in una zona davvero straordinaria –, in Russia, sull’Himalaya. Quando mi hanno chiesto di fare questa mostra, ho raccolto tutte queste mie esperienze.

I ghiacciai sono l’ultimo simbolo della consapevolezza ecologica. Il loro stato è uno degli indicatori di quando il pianeta potrebbe raggiungere il punto di non ritorno ambientale.

I ghiacciai, per me, sono il termometro del pianeta: indicano cosa succederà climaticamente. Se non ci sono più le condizioni perché possano esistere i ghiacciai, allora non ci sono più le condizioni perché la Terra possa funzionare. Questo significa che ci stiamo davvero riscaldando, ci stiamo davvero sciogliendo, stiamo realmente esaurendo molte riserve d’acqua.

Ha iniziato a fotografare più di cinquant’anni fa, e ha lavorato negli anni Settanta e Ottanta, i decenni in cui l’umanità ha trattato la natura nel peggior modo possibile, quando l’uomo ha preso il controllo di tutto e senza nessuna coscienza ambientalista. Cosa la ha portata invece a rivolgere il suo sguardo alla natura?

Ciò che mi spinge verso la natura non è diverso da quello che porta ogni altra persona al mondo a interessarsene. Fino a un certo punto, non c’è stata consapevolezza dell’importanza del pianeta per la salute, per la povertà, per tutto. Poi, abbiamo scoperto che il nostro pianeta si stava surriscaldando, stava morendo, che stavamo esaurendo la nostra biodiversità, stavamo diventando molto, molto poveri, e questo sarebbe stato il pericolo più grande per molte specie diverse – e tra di loro, anche la nostra, che deve sopravvivere in tutto questo. In quel momento, abbiamo cominciato, tutti noi, non solo io, ad avere coscienza del pianeta.

Io ho iniziato a fotografare e contemporaneamente a piantare alberi in Brasile [con l’organizzazione nonprofit Instituto Terra, nda]. Abbiamo creato una grande foresta in Brasile, piantando milioni di alberi nel momento momento in cui la nostra consapevolezza ha iniziato ad aprirsi verso l’ambiente e abbiamo capito che dovevamo rispettare il pianeta, proteggerlo, perché lo stavamo distruggendo. Ma è stata una presa di coscienza collettiva, non solo mia.

Adesso sembra che ci sia più attenzione verso la natura, più conoscenza, più rispetto, in un certo senso. Pensa che ci possa essere una luce di speranza per il futuro o crede che il mondo, la natura, il pianeta, stiano morendo?

È vero, ci stiamo svegliando molto riguardo al pianeta. Ma c’è una grande forza che agisce contro di noi. E più acquisiamo consapevolezza, più l’altra parte prende potere e lotta contro chi si oppone alla distruzione del pianeta, alla distruzione della biodiversità. Ci sono i presidenti degli Stati Uniti, il premier in Italia, il presidente ungherese, ora anche il presidente svedese e il presidente argentino. C’è un’enorme macchina che combatte contro le idee ambientaliste. Si può includere la Russia, si può includere l’Ucraina, si possono includere tutti questi paesi che sono in guerra, ed essendo in guerra agiscono automaticamente, tutti insieme, contro l’ambiente. E non sappiamo come andrà a finire. E non è perché una parte del pianeta ha una coscienza e sta lottando per essa che abbiamo vinto la battaglia per proteggerlo. Credo che dobbiamo alzare il livello, discutere molto di più, integrare le persone nella coscienza necessaria per proteggere il pianeta. E dobbiamo lottare molto più di quanto abbiamo lottato finora.

Quel che resta del gelo. Intervista a Sebastião Salgado -

Un’altra cosa che è cambiata di recente è l’attenzione verso i paesi non rappresentati e sottosviluppati. Lo sguardo occidentale sta lentamente perdendo importanza e i paesi non rappresentati e sottosviluppati sono sempre più al centro dell’attenzione. Lei è nato in Brasile e vive in ​​Europa da molti anni. Pensa che sia una cosa positiva o è solo una moda passeggera, un’altra menzogna occidentale?

I paesi occidentali, la maggior parte dei paesi europei, hanno la pretesa di avere le idee giuste, di essere i leader dei movimenti. E questo non è vero. Si guardi la distruzione dell’ambiente in Europa: è totale. Non resta più nulla. Per esempio, la Francia ha circa il 30% del suo territorio ricoperto da foreste, ma solo il 3 o il 4% è foresta vera e propria, tutto il resto è una monocoltura di alberi da tagliare, per trasformarli in combustibile, in mobili, che restituiranno tutto il carbonio che stanno assorbendo per crescere. Non c’è biodiversità, ed è una malattia. In Spagna, non ci sono alberi. Ogni paese distrugge tutto, ma ha l’impressione di essere leader nelle idee. 

In Brasile, invece, che è un paese sottosviluppato, metà del territorio è ancora foresta. L’Amazzonia è stata preservata storicamente dal governo brasiliano, poi Bolsonaro è arrivato per distruggere, ma il ritorno di Lula ha portato avanti altre idee. Il Ministero dell’Ambiente brasiliano gestisce il 25% dello spazio amazzonico come parchi nazionali, protetti dalla costituzione e dalla legge. Il Ministero della Giustizia, attraverso la FUNAI, la Fondazione Nazionale dei Popoli Indigeni, nel 1967 ha destinato il 26% dello spazio amazzonico a territorio indigeno protetto dalla costituzione e dalla legge.

I nostri governi negli anni Sessanta erano molto più attenti all’ambiente di qualsiasi paese europeo attuale, che è solo chiacchiere, pretenziosità, attento solo alle cariche. Basta guardare le norme di sicurezza del mercato comune per le automobili. Quando sono arrivato a Parigi, nel 1969, le automobili erano piccole, semplici. Ora sono enormi, protette, chi vi è dentro sembra circondato da muri, abbiamo eretto delle barriere. E l’impronta carbonica lasciata dalle auto ora è dieci volte maggiore di prima.

Tutto ciò che viene fatto qui in Europa è contro l’ambiente, ma in nome dell’ambiente. Ci diciamo un’enorme quantità di bugie, con l’impressione, alla fine, di sapere sempre la verità. Dobbiamo prendere esempio dal Venezuela, dalla Colombia, dal Brasile, dal Perù, dai paesi che in qualche modo hanno protetto la foresta. Se i nostri boschi sono stati distrutti, non sono stati distrutti da noi, ma dalla società dei consumi che va a prendere gli alberi, a sfruttarli, a usarne lo spazio per produrre merci sempre più economiche per l’Europa.

Si guardi questo accordo che sta venendo stipulato ora tra il Mercato Comune Europeo e il Mercato Comune Latinoamericano con il Mercosur: i paesi latinoamericani produrranno prodotti agricoli più economici per l’Europa, e l’Europa esporterà laggiù prodotti industriali. Dove credete che si possa trovare nuova terra per produrre in Europa? In Amazzonia! Gli europei stanno prendendo tutta l’Amazzonia, la distruggeranno per far ingrassare i loro maiali, e alla fine per ingrassare loro stessi. Non ne avrebbero bisogno, ma continuano a insistere e a dare l’impressione di essere brave persone, di buona coscienza. È la maggior parte dei paesi sviluppati e ricchi a dare ordini, a dare le regole quando in realtà non capiscono un accidente di queste cose. E questo è il grosso problema.

Ha sempre ritratto persone e natura nei paesi sottosviluppati, nelle zone povere e in luoghi dove le condizioni di vita sono difficili. So che ci sono state delle critiche al suo lavoro perché hanno detto che in un certo senso romanticizzava la povertà. Il suo approccio a questo riguardo è cambiato nel corso degli anni?

Quando raggiungi un livello tale che molte persone conoscono il tuo lavoro, diventi soggetto a critiche. Io sono stato oggetto di critiche, ma coloro che mi hanno criticato non sono mai andati laggiù a vedere quanto è bella quella parte del pianeta, quanto sono interessanti le persone, che belle vite si vivono lì. Perché dovrei renderle brutte? Per rendere felici i critici di qui? Perché in questo modo mostrerei le bruttezze del terzo mondo? Ma il terzo mondo è bello tanto quanto il nostro!

Nessuno ha mai criticato le foto di Annie Leibovitz o di Richard Avedon, o i bei ritratti di persone ricche e perbene. Nessuno. È normale, perché qui siamo belli, ricchi, e le luci sono bellissime. Ma quando mostro la bellezza del resto del mondo, sto romanticizzando la miseria. No, sto lavorando per dimostrare che l’unica cosa bella del pianeta è la dignità delle persone. E ciò che fotografo è la dignità delle persone, niente di più.

Negli ultimi vent’anni la tecnologia è cambiata radicalmente. L’avvento delle fotocamere digitali, dei software di editing e ora dell’intelligenza artificiale, che impatto ha avuto sulla sua pratica e sul suo lavoro?

Come ogni altro fotografo, sono passato al digitale molti anni fa, nel 2008. Non uso più pellicole, ho adattato il mio lavoro al digitale, e ne sono molto, molto felice. È dieci volte più facile di prima, e si inquina meno. Oltre alla pellicola in sé, nel processo di sviluppo il rivelatore era un acido che veniva necessariamente scaricato nelle acque reflue; il bagno di arresto un altro acido; il bagno di fissaggio un altro acido ancora. Ora tutto questo non si usa più. Si inquina meno, la qualità è più alta, si viaggia più facilmente perché non si rovinano i rullini ai controlli in aeroporto.

Quel che resta del gelo. Intervista a Sebastião Salgado -

Ma pensa che dovremmo avere paura dell’intelligenza artificiale?

Non credo. Finora quello che ho visto dell’intelligenza artificiale sono solo sciocchezze, non è niente di serio. Però credo che l’intelligenza artificiale, a un certo punto, possa diventare qualcosa di serio che può contribuire all’evoluzione del nostro sistema. Finora, la storia dell’umanità è stata la storia della violenza e della guerra. Chissà che usando l’intelligenza artificiale non si riesca a sconfiggere questa violenza e iniziare a vivere in un altro modo – perché per quello che abbiamo fatto e visto, mi sembra che l’intelligenza normale non si sia dimostrata affatto intelligente. Aspetto con trepidazione di vedere di cosa saprà fare l’intelligenza artificiale, perché finora non lo so davvero.

Si considera un artista?

No, sono un fotografo, ed è un privilegio esserlo. Solo i fotografi possono essere lì, dove accadono le cose. Vuoi fare una mostra sui ghiacciai? Chi è andato a vedere i ghiacciai dell’Antartide, il grande ghiacciaio tra Argentina e Cile, in questa favolosa montagna nel nord del Canada? Un fotografo. Un giornalista non ci va perché non ne ha bisogno, si informa, fa ricerca. Solo i fotografi – cioè, io – ci vanno di persona. Per quello è un enorme privilegio. Hai un sistema creativo e crei davvero la tua opera. Ci metti la tua energia, la tua mente, la tua vita e tutto questo diventa fotografia. La fotografia è uno spaccato della montagna storica in cui vivi. Se un giorno il mio corpus di opere finisse in un museo e diventasse un punto di riferimento, dopo la mia scomparsa, potrebbe trasformarsi in un’opera d’arte. Ma finora quello che faccio è documentare. Le mie foto sono una documentazione del mio pianeta.

In questo periodo di grande incertezza sociale, politica e ambientale, quale pensa sia il compito dei creativi, degli artisti, riguardo alla situazione contemporanea? Qual è la loro responsabilità verso il pubblico, se ne hanno una?

Non credo che ci siano regole in merito. Coloro che hanno una coscienza e vogliono orientare il loro lavoro in quella direzione, faranno necessariamente come hanno fatto in tutta la storia dell’umanità. Ci sono persone che non si preoccupano di altro che di se stesse e creano opere d’arte per se stesse, per il loro ego. Gli altri, che sono più interessati alla società, ne fanno parte e il loro lavoro ne sarà parte. E questo è tutto, niente di più.

Quel che resta del gelo. Intervista a Sebastião Salgado -

Ha documentato l’intero pianeta durante questi lunghi cinquantadue anni: qual è il luogo e il momento in cui avrebbe voluto essere presente per scattare fotografie?

È una domanda difficile. Perché ovunque andassi, era così bello! Oggi ho 81 anni e se chiudo gli occhi e viaggio per questo pianeta, penso alle cose meravigliose che ho visto, a cosa ho vissuto, è impossibile per me identificare un luogo che sia unico e fantastico. La Basilicata, in Italia, è qualcosa di completamente fuori dalla realtà. È bellissima, quando ti addentri nella sua natura non sembra neanche di essere in Europa. Le montagne dell’Etiopia, l’Amazzonia, l’Antartide, le montagne nel nord dell’Alaska, la Siberia: tutti quelli in cui sono stato sono posti meravigliosi, è difficile identificarne uno che sia meglio degli altri.

Quali sono stati, invece, i luoghi e i momenti peggiori che in cui si è trovato a scattare?

Ho visto cose orribili: in Bosnia, durante la guerra, è stato terribile. Mi vergognavo di essere un essere umano, di vedere cosa facevano gli esseri umani con gli altri. Il genocidio in Ruanda, Le guerre nel nord dell’Irlanda. Ho visto l’abisso più profondo delle anime, lì.

Si ringraziano Roberto Koch e Contrasto, che ha pubblicato il catalogo omonimo della mostra Ghiacciai, al Mart di Rovereto dal 12 aprile al 21 settembre 2025.

Guia Cortassa

Guia Cortassa è autrice, traduttrice e editor. Scrive di cultura per diverse testate.

newsletter

Le vite degli altri

Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.

La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.

Iscriviti

© Lucy 2025

art direction undesign

web design & development cosmo

sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga

lucy audio player

00:00

00:00